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La città. Il tempo di uno scatto
Mostra fotografica collettiva sulla città sotto il profilo estetico e sociale realizzata dai fotografi dei Gruppi “Spinaverde Immagini” e “Diamanti”.
Comunicato stampa
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Il tempo e lo scatto
La città è un’esperienza complessa, che per essere vissuta – e compresa – ha bisogno di tutte le quattro dimensioni (la quarta essendo, ovviamente, il tempo); è un’esperienza in continua trasformazione, mai data una volta per tutte, fonte di continue scoperte e di continue riformulazioni sia quando è condotta su oggetti noti – la città in cui si vive – sia quando è applicata a oggetti nuovi – una città in cui si arriva per la prima volta –.
Eppure, se c’è un mezzo espressivo che ha orientato in modo determinante la percezione della città e delle sue architetture è la fotografia, che sembrerebbe collocarsi al capo opposto: non quattro, ma solo due dimensioni e quindi, soprattutto, la fissazione univoca del tempo, scelto e fermato una volta per tutte.
Il rapporto tra questi due elementi è complesso e per molti versi contraddittorio, ma anche fondativo.
Quando, negli anni intorno al 1839, quella che oggi si chiama genericamente “fotografia” cominciò ad essere messa a punto, il suo ruolo apparve fondamentale proprio in rapporto alla raffigurazione e alla documentazione dell’ambiente costruito, quindi della città e delle architetture. Persino quello che all’inizio era un limite tecnico – il tempo lungo necessario per le riprese che rimuoveva tutto quanto stava nel campo dell’obiettivo per un breve periodo, come le persone in movimento – divenne un elemento costitutivo della ripresa “d’architettura”: una veduta che astrae da tutti gli elementi accidentali per concentrarsi solo sull’essenziale permanente. Forse non è un caso che la più antica immagine a cui si attribuisce il nome di “fotografia” – la ripresa eseguita da Nicéphore Nièpce di una casa di campagna – sia appunto una fotografia d’architettura che necessitò di un’esposizione talmente prolungata da mostrare le ombre sui muri da entrambe le parti.
Questa breve digressione storica potrebbe sembrare superflua, ma serve invece a mettere in chiaro che una certa percezione dell’ambiente urbano si è venuta costruendo negli ultimi due secoli, con lenta ma sicura progressione e con un uso massiccio di certi modelli visivi: basti pensare a quanto hanno fatto le fotografie degli Alinari (e dei loro concorrenti e imitatori) per la conoscenza e la promozione dei monumenti, oppure a come gli edifici continuano ad essere presentati sulle innumerevoli riviste “d’architettura” o anche sui siti dedicati allo stesso argomento. Tutte, o quasi, queste immagini sono costruite con le stesse regole: prive di presenze umane e organizzate con rigidi criteri prospettici, con il raddrizzamento di tutte le linee. Sono regole che poco o nulla hanno a che fare con l’esperienza quotidiana, ma che vengono accettate senza fastidio quando sono applicate alla rappresentazione della città e delle architetture.
Ciò nonostante, le cose sono sempre un po’ più complicate.
Quel tempo di uno scatto che, generazione dopo generazione, ci si è applicati a rendere sempre più breve, fino ai vertici quasi inimmaginabili dei millesimi di secondo, aspira da sempre ad essere qualcosa di più.
Quel tempo di uno scatto è in effetti da sempre una narrazione, per quanto minima. Una battuta, potrebbe dire qualcuno. In senso teatrale, però, e non da sketch televisivo. Cioè nel senso che essa fa parte di uno sviluppo più ampio e non si esaurisce in se stessa.
Anche questo aspetto della comunicazione fotografica è facilmente riconducibile a esperienze condivise da tutti, o quasi. Le diapositive delle vacanze imposte durante interminabili serate a gruppi precettati di amici e amiche, cos’altro sono se non frammenti di narrazioni? E il fascino che lascia stupefatti di fronte alle “grandi” fotografie, cos’è se non la rivelazione che in quelle immagini si sono sedimentate storie e relazioni?
Lo “scatto” è quindi una porzione di tempo – cioè di esperienza – che abbiamo imparato a riconoscere e a considerare come parziale. Rimanda quindi ad altro: a tempi più lunghi, a storie più complesse, a visioni più ampie. E, contemporaneamente, evidenzia una parte, crea una logica, disegna un percorso.
Questo vale ovviamente per tutte le immagini fotografiche, ma – credo – soprattutto per quelle che ritraggono ambienti ed elementi urbani.
Per rendersene conto basta scorrere le immagini raggruppate in questa scelta.
In alcuni casi l’aspirazione al racconto, o alla sequenza che dir si voglia, è esplicita: le immagini sono articolate in piccole serie, costruite tenendo conto dello scorrere del tempo o del movimento della macchina, o del percorso dentro la città. In altri, il racconto è concentrato nell’accostamento interno all’immagine, o nel taglio, o nella scelta di luce. È evidente tanto nelle fotografie a colori quanto in quelle in bianco e nero, tanto in quelle riprese sullo sfondo di scenari usuali che in quelle di luoghi inconsueti (o non riconoscibili).
Semplicemente, tutti questi sono gli elementi che inducono a ricostruire il perché dell’immagine (non necessariamente a pensare razionalmente ma anche solo a sentire emozionalmente), cioè inducono a inserire quel singolo tempo di uno scatto in un tempo più articolato e complesso, che è il tempo di chi ha scattato l’immagine, e che diventa anche il tempo di chi la guarda.
Dal “tempo di uno scatto” si passa, quasi senza accorgersene, al “tempo in uno scatto”.
Il gioco della fotografia sta qui. Ed è un gioco a cui tutti possono partecipare.
Fabio Cani
La città è un’esperienza complessa, che per essere vissuta – e compresa – ha bisogno di tutte le quattro dimensioni (la quarta essendo, ovviamente, il tempo); è un’esperienza in continua trasformazione, mai data una volta per tutte, fonte di continue scoperte e di continue riformulazioni sia quando è condotta su oggetti noti – la città in cui si vive – sia quando è applicata a oggetti nuovi – una città in cui si arriva per la prima volta –.
Eppure, se c’è un mezzo espressivo che ha orientato in modo determinante la percezione della città e delle sue architetture è la fotografia, che sembrerebbe collocarsi al capo opposto: non quattro, ma solo due dimensioni e quindi, soprattutto, la fissazione univoca del tempo, scelto e fermato una volta per tutte.
Il rapporto tra questi due elementi è complesso e per molti versi contraddittorio, ma anche fondativo.
Quando, negli anni intorno al 1839, quella che oggi si chiama genericamente “fotografia” cominciò ad essere messa a punto, il suo ruolo apparve fondamentale proprio in rapporto alla raffigurazione e alla documentazione dell’ambiente costruito, quindi della città e delle architetture. Persino quello che all’inizio era un limite tecnico – il tempo lungo necessario per le riprese che rimuoveva tutto quanto stava nel campo dell’obiettivo per un breve periodo, come le persone in movimento – divenne un elemento costitutivo della ripresa “d’architettura”: una veduta che astrae da tutti gli elementi accidentali per concentrarsi solo sull’essenziale permanente. Forse non è un caso che la più antica immagine a cui si attribuisce il nome di “fotografia” – la ripresa eseguita da Nicéphore Nièpce di una casa di campagna – sia appunto una fotografia d’architettura che necessitò di un’esposizione talmente prolungata da mostrare le ombre sui muri da entrambe le parti.
Questa breve digressione storica potrebbe sembrare superflua, ma serve invece a mettere in chiaro che una certa percezione dell’ambiente urbano si è venuta costruendo negli ultimi due secoli, con lenta ma sicura progressione e con un uso massiccio di certi modelli visivi: basti pensare a quanto hanno fatto le fotografie degli Alinari (e dei loro concorrenti e imitatori) per la conoscenza e la promozione dei monumenti, oppure a come gli edifici continuano ad essere presentati sulle innumerevoli riviste “d’architettura” o anche sui siti dedicati allo stesso argomento. Tutte, o quasi, queste immagini sono costruite con le stesse regole: prive di presenze umane e organizzate con rigidi criteri prospettici, con il raddrizzamento di tutte le linee. Sono regole che poco o nulla hanno a che fare con l’esperienza quotidiana, ma che vengono accettate senza fastidio quando sono applicate alla rappresentazione della città e delle architetture.
Ciò nonostante, le cose sono sempre un po’ più complicate.
Quel tempo di uno scatto che, generazione dopo generazione, ci si è applicati a rendere sempre più breve, fino ai vertici quasi inimmaginabili dei millesimi di secondo, aspira da sempre ad essere qualcosa di più.
Quel tempo di uno scatto è in effetti da sempre una narrazione, per quanto minima. Una battuta, potrebbe dire qualcuno. In senso teatrale, però, e non da sketch televisivo. Cioè nel senso che essa fa parte di uno sviluppo più ampio e non si esaurisce in se stessa.
Anche questo aspetto della comunicazione fotografica è facilmente riconducibile a esperienze condivise da tutti, o quasi. Le diapositive delle vacanze imposte durante interminabili serate a gruppi precettati di amici e amiche, cos’altro sono se non frammenti di narrazioni? E il fascino che lascia stupefatti di fronte alle “grandi” fotografie, cos’è se non la rivelazione che in quelle immagini si sono sedimentate storie e relazioni?
Lo “scatto” è quindi una porzione di tempo – cioè di esperienza – che abbiamo imparato a riconoscere e a considerare come parziale. Rimanda quindi ad altro: a tempi più lunghi, a storie più complesse, a visioni più ampie. E, contemporaneamente, evidenzia una parte, crea una logica, disegna un percorso.
Questo vale ovviamente per tutte le immagini fotografiche, ma – credo – soprattutto per quelle che ritraggono ambienti ed elementi urbani.
Per rendersene conto basta scorrere le immagini raggruppate in questa scelta.
In alcuni casi l’aspirazione al racconto, o alla sequenza che dir si voglia, è esplicita: le immagini sono articolate in piccole serie, costruite tenendo conto dello scorrere del tempo o del movimento della macchina, o del percorso dentro la città. In altri, il racconto è concentrato nell’accostamento interno all’immagine, o nel taglio, o nella scelta di luce. È evidente tanto nelle fotografie a colori quanto in quelle in bianco e nero, tanto in quelle riprese sullo sfondo di scenari usuali che in quelle di luoghi inconsueti (o non riconoscibili).
Semplicemente, tutti questi sono gli elementi che inducono a ricostruire il perché dell’immagine (non necessariamente a pensare razionalmente ma anche solo a sentire emozionalmente), cioè inducono a inserire quel singolo tempo di uno scatto in un tempo più articolato e complesso, che è il tempo di chi ha scattato l’immagine, e che diventa anche il tempo di chi la guarda.
Dal “tempo di uno scatto” si passa, quasi senza accorgersene, al “tempo in uno scatto”.
Il gioco della fotografia sta qui. Ed è un gioco a cui tutti possono partecipare.
Fabio Cani
28
agosto 2010
La città. Il tempo di uno scatto
Dal 28 agosto al 05 settembre 2010
fotografia
Location
EX CHIESA DI SAN PIETRO IN ATRIO
Como, Via Odescalchi, (Como)
Como, Via Odescalchi, (Como)
Orario di apertura
ore 10,00-22,00
Vernissage
28 Agosto 2010, ore 18
Autore
Curatore