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La fantasia ineludibile fra il corpo e l’ombra dell’esistenza
GIUSEPPE LEONE – GIANNI TESTONI – LUIGI ALLEGRI NOTTARI – SERGIO WILLIAMS
Comunicato stampa
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TESTI DI: ANGELO CALABRESE critico
VITAGLIANO CORBI giornalista de LA REPUBBLICA GIULIO GUBERTI storico MICHELANGELO BENVENUTO saggista-capo redattore”Arte & Carte
L’evento è Patrocinato dal COMUNE DI FOGGIA
Sergio Williams -Alcuni anni fa nella pittura di Sergio Williams ricorreva un motivo facilmente riconoscibile. Esso era costituito dall’apparizione, in un nitido scenario naturale, di qualcosa di strano, che non ci saremmo aspettati di incontrare lì, in quel luogo dove pareva regnare un'aria forse non familiare, ma indubbiamente persuasiva e attraente nella dettagliata verisimiglianza di ogni forma di vita che vi cresceva. Questo elemento inatteso non era però, assolutamente tale da mettere in crisi le certezze della nostra visione del mondo e da spalancare in essa l'angosciosa vertigine dell'assurdo.
Creava, certo, con la sua presenza, una situazione enigmatica e insinuava nell'animo un sentimento d'inquietudine. Ma, in questo modo, sollecitando la ricerca di una possibile spiegazione, spingeva l'occhio a frugare con la massima cura tra la miriade dei particolari di cui erano ricchi quei rigogliosi ed esotici paesaggi e acuiva se mai il desiderio di conoscenza.
A volte tutto nasceva semplicemente dalla vista di qualche rudere nel folto d'una foresta: un mascherone nascosto tra l'erba, una pietra squadrata, in primo piano, con l'elegante decorazione d'un bassorilievo, che sorprendevano, però, a tal punto, col loro misterioso occhieggiare nel cuore selvaggio della giungla, da farci dubitare che potesse trattarsi davvero d'una precisa testimonianza storica o d'un altro qualsiasi attendibile segnale umano. Spesso, però si trattava di apparizioni diversamente spettacolari come quelle - ispirate si sarebbe detto, alla sequenza d'un film di fantascienza - di una piramide sospesa nel cielo o di una sfera sopra un edenico giardino, gioiosamente punteggiato di bacche rosse e di bianche ali d'uccelli, o come quella d’una strana falce luminosa – un ghost, suggeriva l’artista, col titolo dell’opera - a volo radente su un prato ai margini di un bosco.
Ora ho davanti a me un gruppo di opere dipinte da Williams negli ultimi tre anni. Sono ancora foreste, prati e folte boscaglie su cui s’aprono squarci di cieli limpidissimi. Non c'è più, però, nessuna apparizione inattesa, nessuna presenza “aliena” che colpisca la nostra attenzione. In questi quadri domina lo spettacolo d'una natura grandiosa e incontaminata. Dovremmo definirli, dunque, semplicemente ”paesaggi”, esempi d'un genere pittorico tra i più frequentati dalla nostra tradizione artistica. Ma proprio ora che gli enigmi sono stati allontanati e che non c'è in vista neppure l'ombra di qualche unidentified flying object, i paesaggi di Williams rivelano più che mai un tratto di singolare stranezza.
Forse la ragione di questa stranezza è nell'aria troppo cristallina, nel cielo straordinariamente terso, nel silenzio della foresta, dove non si muove un filo d'erba, ma dove la vegetazione è così compatta da far nascere il dubbio che possa aver soffocato nel suo verde e velenoso abbraccio ogni altra forma di vita. Questo dominio assoluto del regno vegetale non è affatto tranquillizzante.
Nei paesaggi di alcuni anni fa sembrava di sentire il fruscio di quei voli che radevano l'erba e si sarebbe potuto persino immaginare di percepire il ronzio di chi sa quale misterioso motore. Ora quelli che dipinge Williams sono luoghi assolutamente silenziosi e tranquilli, ma con la loro impenetrabile e fredda solitudine, con il loro chiarore azzurrino che sfiora i cespugli e gli alberi, senza rivelare che cosa si nasconda nell’ombra, alimentano mille sospetti.
Questa luce lunare fa venire in mente le notti degli incantesimi e dei sabba e induce i pensare che potrebbe esserci qualche fondamento di verità nel fatto che la mitologia e le leggende di molti popoli primitivi raccontano che la luna, spesso collegata al ciclo vitale acqua-vegetazione (“la grande madre delle erbe” veniva chiamata da alcune tribù brasiliane), è la signora della morte, la regina del mondo sotterraneo delle ombre - e, aggiungeremmo, dei fantasmi rimossi nell'inconscio. Che, non a caso, si dice che salgano più frequentemente tra di noi nelle notti di luna piena.
In altre parole, se l'inquietudine prima nasceva dal contrasto tra la naturale evidenza del paesaggio e l'enigmaticità dell'oggetto che vi faceva la sua inattesa apparizione, ora essa è legata alle caratteristiche del paesaggio stesso ed è enormemente accresciuta da alcuni inspiegabili fenomeni che ci fanno dubitare della “normalità” di questi luoghi, dove forse si nascondono terribili minacce. Williams, nei titoli delle sue opere, dal '90 in poi, ha spesso parlato di “distonie”. Queste si presentano con una vistosa alterazione cromatica nell'aspetto naturale delle cose: un improvviso e inspiegabile cambiamento dei colore di un fusto o della chioma d'un albero, una, violenta accensione timbrica provocata da una scarica d'energia luminosa. Segnali d'allarme: ma non tanto nel senso dell'annuncio d'un imminente pericolo, quanto di qualcosa che è già irrimediabilmente avvenuto.
Se non fosse espressione oramai troppo logora, si potrebbero definire, questi di Williams, paesaggi da day after. Il loro aspetto, che qualcuno potrebbe superficialmente confondere con l'idillico volto della natura tramandatoci da una antica e gratificante convenzione pittorica, tradisce i segni di una crisi che ha trasformato nella sua assenza la realtà. La rigogliosa, lussureggiante vitalità delle piante che trionfano su tutto, fino a chiudere alla vista qualsiasi orizzonte, non ha nulla di invitante. Anzi ci dice che questi luoghi sono per noi diventati stranieri ed ostili. Quei tronchi dai rossi e dai gialli stridenti, quelle foglie che scintillano nell'ombra come una pioggia di fuochi artificiali illuminano un mondo che per l'incontenibile, aggressivo e mostruoso processo di proliferazione vegetale da cui è ricoperto non può essere la stessa terra che noi ancora abitiamo. Quel che proviamo, alla fine, di fronte a questi paesaggi, è una sensazione intensa di irrealtà, un sentimento di “straniamento” totale, quale certo non poteva venire dal più incredibile e spettacolare avvistamento di U.F.O.
Ma l’aspetto più interessante dei recenti dipinti di Williams sta nell'ambigua tensione di cui si caricano i segnali distonici. Questi, infatti, non si riferiscono solo ai “disturbi” che hanno sconvolto i circuiti vitali della natura, ma anche a quelli indotti nei nostri processi di ricezione delle immagini. Sono perciò segnali di una patologia che riguarda la nostra percezione dei mondo e noi stessi non meno della natura. Del resto, se essi non ci coinvolgessero direttamente, se essi toccassero solo una realtà esterna, radicalmente diversa da noi, non si spiegherebbe la forza “perturbante” dei paesaggi di Williams, che si prolunga ben oltre la durata di questi segnali. Come ha sostenuto Freud, un grave turbamento non ha mai la sua causa nell'apparizione di ciò che ci è del tutto sconosciuto ed estraneo, ma nella paura che può accompagnare il ritorno alla luce di ciò che ci appartiene profondamente e che noi profondamente avevamo tentato di rimuovere. E quale segreto pensiero riaffiora dalla pace solenne dell'ultima “foresta azzurra”, dipinta da Williams, se non quello che nasconde dietro il sogno d'una perfetta e assoluta felicità il compiersi del comune ineludibile destino che attende tutto ciò che oggi è meravigliosamente vivo?
Vitaliano Corbi.
La pittura di Giuseppe Leone è come un corso d’acqua di poeta cinese, come un manifesto d i avanguardia americana, come tutto ciò che è strumento poetico ,anche questa materia visibilizzata dal pittore è strumentazione amplificabile, secondo che l’uomo vede e vuole vedere. La trama del quadro è strumentazione per ottenere poesia. Il resto è il misterico sentimento di angoscia e di serenità, di allarme e di riposo che deriva guardando questi quadri. La chiave di lettura è l’invito ad abbandonarsi nell’immagine perché se ne spalanchi una finestra, oppure un cunicolo se volete, attraverso cui andare, lasciarsi andare. L’arte è volo.
Questa fase del lavoro di Leone è come se fosse un solo quadro frammentato in tanti quadri. Il progetto interiore è certamente unico: non rivelabile, non rilevabile, punto focale del potere inventivo. Però ci sono particolari che possono essere indicati, come segnaletica per il viaggio nella lunga marcia pittorica di questa serie “leonina”.
I segni magici-realistici, o realistico-magici, nei quadri di Leone intervengono intersecati, sino a disorientare lo spettatore, e poi portarlo al galoppo della fantasia, oppure a un rannicchiarsi entro se stesso. Questi segnalazioni per il sistema visivo, e quindi immaginativo di chi guarda. Giuseppe Leone utilizza segnali naturalistici, - ad esempio – Giorgio de Chirico utilizzò segni inerti, quali l’armentario archeologico, per provare i sentimenti fantastici della Metafisica. A suo modo, con un proprio procedimento, anche Giuseppe Leone provoca sensazioni, emozioni, trasposizioni mentali metafisiche.
L’onirismo di Giuseppe Leone diventa una natura parallela dell’essere svegli. Grecità e latinità, tutto il bagaglio culturale della nostra memoria trova riscontro nell’immaginazione della cultura di questo sannita, con dentro, esternato in pittura, la radice storico-religiosa della sua terra. Certo il Museo di Benevento, la nativa Benevento, vi sono dentro. Troppo facile ricorrere allo Streghiamo della Leggenda di Benevento. Non ci si ricorre per evitare questa faciloneria. Anche perché l’Onirismo di Giuseppe Leone è sottofondo di bellezza statuaria, è ricerca di sogni seppelliti e risorgenti ogni mattina, è lettura magica del quotidiano vivibile.
Giuseppe Leone raggiunge qualità narrativa alta nella pittura. Ogni apparizione dipinta, ricorrendo alla dimensionalità di ogni opera per accrescere l’emozione, è racconto. Ad uno ad uno i quadri che hanno questa caratteristica possono dunque essere spiegati. Ogni quadro potrebbe avere una didascalia storica, topografica. E’ il modo di presentazione, ossia il linguaggio, che fa scattare in poesia la tavola dipinta.
L’analisi dei quadri deve farla, dinanzi ad ogni quadro il Leone, lo spettatore nella sua conversazione con l’opera. Si è cercato di indicare punti di penetrazione per meglio possedere, non solo visivamente, questo ciclo pittorico. Vanno fatte altre due o tre considerazioni, per stabilire un inserimento dell’artista, ch’è al vertice della sua maturità, per anni ed esperienza, nel contesto della pittura contemporanea.
L’ideologia della Storia è nella stessa stratificazione dell’opera di Leone. La Storia con mitizzazioni, equivoci, certezze, rimpianti ed alla fine il suo risultato inappellabile. La Storia come verità matematica del tempo e degli uomini che lo percorrono e vi si consumano. Il relitto archeologico che spesso è punto di partenza del tunnel viaggiante di Giuseppe Leone è retrodatato come relitto – la storia del territorio sannita – ma il fantasma che ne deriva, e che si forma nello spettatore è volto dell’attualità. Nel senso che il volto antico in apparenza lontano si trasferisce nel nostro futuro. L’artista, per virtù di una strategia nel movimento mentale del tempo, riesce a renderci immedesimati nei cosiddetti fantasmi del passato, diventati noi il futuro. Operazione difficile, rara.
Ideogrammi di morte hanno la potenzialità resurrezionale della vita. Verrebbe la tentazione di indicare in Giuseppe Leone un artista iniziato. Certo è un iniziato, in quanto destinato da un richiamo interno ad alta potenzialità di comunicazione interiore. Questo è un dato di attualità. L’uomo di oggi è alla ricerca urgente necessaria, di una sintesi vivibile tra mistero e scienza, tra verità accertabile e le incognite dell’universo.
Da questo insieme di situazioni deriva anche il sentimento di solitudine che determina le opere di Leone. Però è solitudine collettiva. Tutti siamo e saremo pietrificati.
Giuseppe Leone è un pittore che sa dare a questa solitudine umana, di ognuno, la consolazione di essere tutti nella stessa realtà: tutti saremo archeologia della vita, però tutti, mentre esistiamo, siamo presenza. Torniamo al senso che l’artista sa dare della ideologia della Storia.
Queste ed altre possibili considerazioni potrebbero essere allargate. Quasi ogni quadro, o almeno ogni gruppo, suggerisce considerazioni e scatti di meditazione e di fantasia. Nella pittura di Leone c’è questo di comune con la musica : lettura esatta eppure di amplificabile polivalenza.
Queste situazioni che rendono magico l’artista, e per magia si intende presa di possesso sul visitatore del quadro, dipendono dalla qualità della pittura di Leone. Dalla cultura moderna, conoscitiva e per intuizione , che guida il progetto interiore di Leone. La capacità tecnica , ossia il mesterei del dipingere, sono in Leone situazioni evidenti . L’utilizzazione dei materiali, lo scandire degli spazi negli spazi sono modernità assoluta. Si può sostenere che , con questo artista, siamo in una provocazione di avanguardia ottenuta con gli strumenti della tradizione. La sfida del colore sul legno che deve simulare ed essere parete , pietra, è condotta con vigilata sapienza. La sapienza resterebbe freddezza e inazione se non fosse legata al vulcano interno, sigillato, ch’è il laboratorio spirituale di questo pittore.
Se dovessimo collocare i dipinti di Giuseppe Leone, negli avvenimenti che – tornando alla Storia ed alle finzioni implicite del tempo - , si potrebbe tentare una definizione: un capovolgimento delle ricerche di avanguardia formali in ricerche di avanguardia nello spirito delle cose e dell’uomo. Le forme, le tecniche, la libertà di spaziature e di misure dello spazio, altre sicurezze denotano in Giuseppe Leone un artista che ha innestato nel suo figurativo le più avanzate soluzioni della pittura di oggi, avanguardie comprese: anzi avanguardie soprattutto. Questo sarebbe, pur sempre , sostanza e non emozione della forma.
Michelangelo Benvenuto
Quello con Gianni Testoni è un incontro tra compagni di strada che impegna ad un discorso diretto, serratamente pertinente, senza violini di sottofondo: ri-conoscersi è ritrovare l'identità della memoria consapevole d'ardore civile, forte da inverare impegno e creatività e trasferirli in un immaginario la cui cifra estetica testimonia la vocazione a percorrere uno dei più luminosi sentieri della realtà del fantastico. Intanto va subito chiarito che una suggestiva immersione nel visionarisrno boschiano non preclude altri attraversamenti, interpolazioni e rivisitazioni, delle dialettiche dell' arte che sceglie di fantasticare per modificare “favolosamente” la realtà sociale assuefatta alla cavezza dogmatica e all'oscurantismo massificante. E va inoltre precisato che il transito di Testoni dall'ironia, caricaturale degli inizi alla selva proliferante deIle ossessioni che crescevano negli anni presaghi ( o meglio consapevoli, del dileguarsi del sogno, chiamiamolo bi-sogno, raddoppiando così il desiderio deluso di cambiare il mondo ) del medioevo prossimo venturo, risponde a varie tappe di coerente maturazione che predispongono all'incontro con l'universo convulso, catastrofico, brulicante delle meravigliose e bizzarre fantasie dell'inimitabile Maestro di Brabante. Prima quindi di approfondire il senso dell'arte che alle svolte epocali s'apre alla fantasia, perché assillata da tramonti, preclusioni e crolli definitivi, è giusto far cenno agli scandagli sociali che Gianni Testoni trasferiva nel suo immaginario caricaturale-satirico, facendo il verso a quotidiane evidenze, di per sé innaturali e tragicomiche, e intanto esposte con tutte le loro deformi contraddizioni agli strali che l'ideologia esigeva ferocemente acuti. E' superfluo sottolineare che il sarcasmo contrassegnato da decise scelte di campo mette a fuoco nell'immaginario elementi di un narrato a rischio di “definizione” che non fa stile, ma ripropone inevitabili ricorrenze, valide anche a ribadire il significato, ma distanti dalla libertà del senso. Valeva quell’esercizio come autointerrogazione, proiezione di un dialogo complesso e intenzionale che dalla cronaca, dal severo, impietoso giudizio comportamentale, si sarebbe poeticamente esteso a traslati esistenziali tanto più suggestivi quanto più esenti da codici comunque riduttivi. Un oblò con la vista obbligata, per quanto possa essere preziosa, è ben altro che la scena del mondo dove la vita somiglia solo a se stessa allo specchio e “chi di scena” è trafitto dalle sue stesse intuizioni. Nei suoi percorsi Testoni si conferma fedele alla tavola come supporto della sua pittura ad olio che procede dalla denuncia dell'ipocrisia ( delle maschere funzionali alle esequie condite dalla retorica, della violenza che trova sempre un ciarlatano pronto ad eccitarla, renderla tumida esasperata, esiziale ), e incontra, in coerente evoluzione, i circuiti dell'inconscio, le ragioni dell’ombra, la livida palude in cui si sconta la propria ineguatezza di fronte al dolore. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una ricerca in progress che si evolve da una riduzione all'essenzialità espressiva dell'immaginario, sapidamente incisivo, che si aromatizza a misura delle esplorazioni che dilatano la fantasia e travasa la nostalgia dell'uomo prima in proiezioni di passione delusa e poi in quelle allegrie di naufragi gremiti di reminiscenze simbolico-psicologiche. Cambia così anche la sorte della tavola preparata per dipingere: da spazio di dissacrazione dei feticci e dei lupi che non perdono nè pelo nè vizio, da solida naturale squadratura che ospita le rivendicate ragioni del dito puntato contro la pantomima e la farsa del potere che alleva l’ignoranza. diventa inventario di metafore. L'azione è aItrove, fuori scena; I'occhio dell'arte si serve dell'ironia come placebo per illudersi di lenire la delusione inguaribile di un impegno fortemente sostenuto e sperperato in un mondo persuaso ai consumi, disperso in segni vani, senza significato nè senso. L'allestimento scenico delle opere dei primi anni Ottanta brulica di rissosi mutanti crudeli ed osceni come solo una feroce fantasia visionaria avrebbe potuto partorire: l'abnorme mostruosità risponde alla consapevolezza che il teatro del mondo attesta solo che dal nulla al nulla il transito si rinnova tra ferocia e dolore esorbitanti, in progressione geometrica, nel tempo velocizzato dalla tecnologia e dalla scienza senza coscienza. Testoni filtra dall'arte fiamminga, dalla realtà del fantastico, dal boschismo, ma anche da altri filoni che attingono alle dialettiche della fantasia per vincere l'alienazione, ( I'afasia, I 'orrore del labirinto, lo scontro con il primordio, le proiezioni maniacaIi, gIi ingranaggi sadomasochistici che non risparmiano istinti, sensi e pensieri ) la sua visione di un universo sempre più distante dal buonsenso. I segnali più evidenti negli enigmi che si risolvono in allusive metafore sono quelli dell’isolamento, deIla distanza: vastità marine, spiagge la cui natura non agevola il transito, soli bassi sulI'orizzonte, come presagi di crepuscoli, d'attesa non si sa se d'albe o di tramonti, torri, ricorrenti come paesaggi della memoria, identificative di luoghi esperti dell'assalto e della difesa, sempre feroci, anche sotto le ambiguità delle mutate spoglie. Il terribile “Angelo" del 1979 rivela tutta la sua feroce ambiguità di sconosciuto, indifferente a tutto ciò che di umano l'ansia sociale ha prodotto. L'angelo è sempre tremendo alI'incontro, cambia le sorti umane, impone la lotta, vince, lascia il segno, incide nella viva carne il marchio del dolore: Rilke sapeva che l'angelo non sa distinguere tra i vivi e i morti, esperto com'è nella sua perfezione dei segreti che varcano l'eterna fiumana dell'Essere che tutto travolge. Quest'opera di forte impatto mi ha riportato alla mente Wim Wenders e il suo angelo del "Cielo sopra BerIino”. Prima di essere gettato al di là del muro “è” libero dal peso, dal corpo, dall'ombra: bianco e nero senza spessore. Per esistere deve deciderlo e poi essere gettato al di là con la sua decisione prima di esistere e far esistere le cose. Com'è difficile conciliare due angeli al di qua e al di là di una barriera oltre la quale nulla vieta che ogni abbattimento si configuri come transito dalla padella alla brace. Un discorso non certo sottaciuto nelle opere dedicate a “La caduta del muro " (1990) in cui occhi di luce e fanfare in marcia non promettono il diritto alla felicità. E' inevitabile che i transiti obblighino a rinnovati equilibri: il pittore in questa consapevolezza si interpreta nel suo autoritratto del 1989; annullando il corpo, propone la sua testa quasi globo nel vento dei pensieri. Gli attraversano il volto attonito in una ridda di presagi che si sommano e le pupille senza meraviglia s'aprono sul futuro, oltre la soglia/limite : L'evento inesorabile annulla la parola. In un altro autoritratto del medesimo anno la messa a nudo evidenzia una condizione d'isolamento, di guerriero senza corazza, di superstite vagante sul ristagno di mondi e sogni perduti, ormai in ammollo. Continua dall'alto la caduta di desideri che, al triste saluto, vanno alla quiete della palude: La superficie piana lì accoglie a galla e si smuove appena come sotto la pioggia l'acqua che giace. Testoni è un artista che sente profondamente ed è esercitato a pensare: sa far poesia favoleggiando con la soavità del suo "Cantastorie " nel candido ammanto che sa vele felici, ricche di soli e lune. La sua vista è distinta da una pupilla di luce e da un'altra d'ombra, sole e luna negli occhi della nostalgia. Narra e canta l'eterna favola che sogna uomini umani e donne d'amore : merita un pubblico sensibile e il giusto obolo che gli viene dato a piene mani dalle signore dei suoi desideri, presenti e intanto sottratte ai suoi occhi, chiare alla sua inferiorità che conosce le stagioni fiorite e quelle dei frutti maturi. Ama lo strumento che lo consola con L'arte: qualche corda è spezzata: forse è servita per fermare un sogno a rischio di precipitare nel vuoto che dà risonanza alle note. Mi sono soffermato su questa opera, che ha sapore d'antico che s'infutura, perché conferma che la percezione profonda di una condizione intima, come ogni passione d'amore, inteso nella più vasta accezione, implica un ritorno doloroso, un viaggio ( nostos ) che procura dolore ( algos ): amore è nostalgia d'unità. Chi la cerca nella memoria si ritrova della stirpe d'Ulisse: ha lunghi silenzi e nel brivido d'un attimo avverte I'appartenenza. Con quella si comunica. Le tavole dipinte di Testoni nel procedere delle sue conquiste condensano ironia e drammaticità: la realtà del fantastico grida l'inadeguatezza di fronte al dolore con un pathos ignoto all'indifferenza che domina il post-umano. Alla presente svolta epocale i diretti eredi di un secolo e di un millennio devono rendersi conto d'essere in transito, come superstiti, con un segreto incomunicabile: a nessuno interessa che essi hanno vissuto L'essenza assoluta del dramma esistenziale, ignoto ai nuovi parametri di spostamento di pensiero. Bernd Guggenberger propone per il tempo dell'incertezza un motto drastico: "Don't cry, drive on" indicando la mobilità come virtù del post-umano disancorato da salde strutture di riferimento: "Si dovrà cessare di amare un Luogo, una donna, una casa, una città, una professione, o un ideale, Bisognerà essere sempre pronti a traslocare, a cambiare umore, idea, Lavoro". Ed eccoci, com'è stato ben sottolineato, "sedentari nel corpo e contemporaneamente nomadi nella mente". L'angelo di Rilke continua a vietare senza cedimenti, neutro, senza contaminarsi, ma come può restare sulla cima della ragione e al centro dell'universo tenendo conto che non può esserci un centro di consapevolezza di sé in un universo che “ s’espande di continuo ed esige partecipazione e comprensione per vivere "all'altezza" della circonferenza? Mentre si fa inconciliabile il dissidio tra natura e cultura, sono proprio le scienze esatte a mutuare metodi e paradigmi da quelle umane; mentre il nostro mondo si fa sempre più complesso e impredicibile, la creatività scopre sterminati orizzonti per le sue investigazioni. Insomma c'è più spazio per la realtà del fantastico? E se i mutanti a venire, le probabilità non sono poche dati i prodigi della genetica, si potranno specchiare nella chiaroveggenza della fantasia di chi ha preconizzato corpi macchine e fisionomie sconvolte per contrastare l'innaturalità del divieto e del degrado sociaLe? Tutto il boscismo meccanico-
medioevalreggiante, i grovigli, le macchine volanti, gli insetti totem, i tuffi nella broda, chissà se del primordio, le geometrie eccentriche, i puzzle, i rebus, le costanti devastazioni, le soglie sospese sul nulla, potrebbero, oltre la realtà del fantastico, essere codici di transiti esistenziali su cui meditare per dare senso al nuovo e al buono cui si aspira in ogni luogo di massimi mutamenti, dovunque cioè è tempo del progetto ineludibile per andare verso il tempo della continuità. Torno alla realtà del quotidiano che ispira il visionarismo delle più recenti opere di Gianni Testoni, in special modo quelle della rassegna "Javan" di certo lontana dal consueto, conclusa in Castell'Arquato il 14 settembre 2003, per le sue particolari modalità. In mostra c'erano i disegni di Ivan, il figlio di Gianni prematuramente scomparso e le opere pittoriche del padre che ha per così dire inglobato quei disegni evolvendoli nella sua arte quasi a continuarli per soluzioni che significano non solo consonanza affettiva, ma anche e soprattutto una confessione d'alta dignità. Le sfere presenti nelle tavole testimoni di desideri irrisolti, di sogni e speranze perdute, di delusioni subite come crolli che dall'alto delle nuvole vanno agli abissi profondi segnavano d'amarezza la delusione inclemente, altre sfere sono quelle che grondano in moti vari da cieli tenebrosi, sono gelide, fredde di ghiaccio, pesano sull'anima che su se stessa si piega e si ritrova afona, tanto più sola. Allora è giusto rinnovare il gioco che si fa con i disegni dei bambini: non appena la loro fantasia tace, la mano più sicura la riaccende elaborando le tracce del segno in uno scenario aperto ad una “narrazione” fiorita dai semi di una comunicazione diretta. Ivan non era più un bambino, ma donando i suoi disegni al padre, lo ha sollecitato ad un colloquio tanto intimo, tanto sintonico in complicità, che per la fantasia creativa ha assunto il senso reale di un sorriso illuminato da un amore nuovo ed antico. Insomma le “ segrete cure ” del figlio che già certamente non le erano estranee sono transitate nella più intima creatività paterna e diciamolo pure, in quella Gianni nulla ha mai neppure una delle aspirazioni, comunque disperse nei giorni di tutti: nell'arte hanno trovato la loro aperta comunicazione e, malgrado le svolte vitali, a specchio di quelle epocali, hanno assunto il ruolo di preesistenze da cui partire per un progetto. Poco importa chi lo continuerà: il progetto non si azzera, nè si conclude mai: va verso, riprogettandosi nonostante le risse e le tempeste esistenziali e il dolore e la morte che resta sommo insulto all'intelligenza dell'uomo. Quanto del padre ho ritrovato nei disegni del figlio, a partire dall'insofferenza e dalla tensione visionaria tesa, rigorosa, nitida nelle geometriche fratture che s'incontrano nella linea interrotta, spezzettata e fatta cuspide alla resa del mare increstato, che danno vita ad essenzializzati manichini in tracciati elementari o tridimensionali in cui la presenza, umana o animale ha la consistenza di un giocattolo, mi piace pensare di legno, messo a punto da un esperto carpentiere-architetto. Anche qui la scelta della tavola, evidente nell'idea barca, nell'allusione alle macchine belliche che sempre al medioevo ci riportano specie pensando all'ariete e alla polena. E poi c'è il sole all'orizzonte, il disco/sfera che diventa mina, aureola immensa per il personaggio de " II vestito ", da cui emerge come da una casa-tenda, armato di coltello con la punta in basso, a terra, mentre volge le spalle ad un paesaggio, sempre elementare, turrito, contro cui si staglia. I temi stessi dei disegni che sono l'altra faccia di delusioni ferocemente scontate, non esulano dal discorso di Gianni: in grido afono, in urlo che il deserto azzera, dicono angoscia, solitudine voglia d'un volo di fantasia, d'una corsa impossibile per il cavallo di legno, alato, a sei ruote, L'ansia di scrutare il “sottosuolo”, il mondo si sotto, la consapevolezza d'una feroce regressione, una condizione Beclettiana, la voglia di afferrare, sentire 'di andare, navigare, naufrago senza remi in un mare silente sotto il sole. L'omaggio a Ivan è sul filo sintonico paritetico, etico come dovrebbe essere l'uomo che eredita la terra e l'abbellisce, aggiunge al progetto il suo apporto e procede, altro non può fare, giustificando, consentendo e andando avanti: La cultura è sempre spazio che comunica. Gianni Testoni riprendendo il disegno "Inferno", avverte la distanza dall'immaginario in cui aveva trattato il medesimo tema accanto a quello del “Purgatorio” e del “Paradiso” già nel 1979. L'aldilà visionano del trittico è caratterizzato dalla costante delle lapidee arche/barche ospitanti dannati, salvati e beati, sempre all'impiedi, infilati in apposite alcove a tubo, da cui fuoriesce solo la sommità del capo. La musica c'è sempre: più fervida e invitante quella infernale, arricchita dai colpi del lignei, pesanti e primitivi mazzuoli calati su chiunque si azzardi a far capolino per colpi in testa e rituali violenze. Ai salvati è concesso venir fuori dalla tana: la musica non s'arresta sulla loro desolate solitudine obsoleti richiami. Lo stesso angelo vigile, con tanto dì scudo e sempre mano alla spada, è afflitto da noia assoluta. I beati poi, fatti della stessa sostanza dette arche, vi si adattano perfettamente in una definitiva stasi dominata dalla musica che appaga solo i protagonisti di un gioco, il cui segreto solo a loro appartiene. Dove invece il colloquio tra Ivan e Gianni si fa serrato, il consenso e l'evoluzione del discorso si evidenziano in una visione che abbraccia, maternamente, un brivido d'inferno e lo traduce amplificato tra memoria emozionata e tumultuoso racconto. Ivan sa che oltre l’stremo molo dov’è rischio il freno alla corsa del cavaliere in sella a un destriero di legno, un giocattolo d'esperta carpenteria, c’è l’indifferenza dell’onda increspata appena, a cuspidi angolate. Il molo e folto di crepe, vietato alla ri-salita, il grido afono d'ogni lenta sommersione è alto, in vista, nelle braccia che non si arrendono. Gianni sceglie il tumulto del mare d'inverno. Il suo cavallo è meccanico, agli zoccoli porta le ruote, s’impenna è scivola tra un'algida torre e la luna che piange lacrime di sangue arrossando un ribollio dì mattanza in crepuscolari bagliori, mentre s'addensano nuvole di bufera: s’arrotolano su se stesse, in pesanti, stritolanti, volute. I condannati sono attoniti, impassibili naufraghi: vanno travolti con le loro storie intime tra mostri e delusioni disperate: chissà se al largo, all’infinito del tempo che tutto consuma saranno disperse nel nulla. L'esorbitanza e l’ironia sembrano nelle più recenti opere di Testoni operare per ab-reazione, accentuazione cioè dei “ dati ” estremi del dramma, perché, all’acme, possano risolversi in catarsi non so se temuta o sperata. La realtà del fantastico nelle più recenti dipinte, esperte della vita come regola e desiderio, di forte impatto e di umanissima, fervida, sapiente comunicazione, non vince, nel confronto, quella del pathos che non si misura in esorbitanze di forme difformi. Fanno meditare le sfere di neve che cadono ininterrottamente e colmano d’inconsistenza una barca che altrove era vuota, pur recando segnali d’umano riferimento, ben connotati nella polena e nel timone. I colori sono all’altezza dei sentimenti ai quali le emozioni si elevano: se non fosse così, non ci sarebbe l’arte, quella forte a trasferire l’energia solare in energia sociale. E poi ci sono quelle lune ricorrenti, assidue, riscattate a buon diritto dall’altra metà del cielo, giustificative del volo e del saluto, del rimpianto, della nostalgia, della pietas che confronta, senza chiose, la tragedia dei palestinesi e degli ebrei nell’inclemenza della neve che li raggela nel dolore. In quello s’annulla ogni distinzione: le lune si susseguono fertili d’altre lune che proliferano dalle loro lacrime. L’arte di Testoni è eloquente: più che mai è immersa, e pertando vale, nella battaglia della verità che vive di pensieri antagonisti, scontri d’idee, luoghi di massima modificazione. Vi confluiscono la logica incrollabile e le istanze della vita al cui albero disperatamente s’afferrano i testimoni degli umani transiti. In quella confluenza il sapere creativo la conoscenza con sapore: la nozione profonda del dolore aiuta a comprendere e svelare con la consapevolezza dell’eticità che non può essere disgiunta dal pensiero che attiva le mani del fare e i passi per andare. Testoni con la modernità della sua pittura, vale infatti “ modo ”, ora, nella sua attualità che s’infutura, propone, comunica valori umani, ineludibili soprattutto nella consapevolezza che macrocosmo e microcosmo hanno le medesime probabilità di collasso nella complessità e impredicibilità che li accomuna. Il dono di fantasticare all’infinito della libertà è giusto compenso all'eticità delI’arte, specie quando nel deserto dell’indifferenza si propone massificata in mimesi e tautologia. Angelo Calabrese
LUIGI ALLEGRI NOTTARI - "Gesù-Gesù" è, nel contempo, un'invocazione e un'esclamazione di meraviglia e/o di disappunto. Credo dobbiamo riferirci agli ultimi due significati, meraviglia "e" disappunto, per individuare la volontà di Luigi Allegri nel dare nome a questo ciclo che viene avanti dal 1963. Per dire che non è l'aspetto religioso che prevale in queste crocifissioni quanto quello del sacro in senso antropologico. Fu Marcel Mauss a indicare nel lemma "manà' (parola che per i polinesiani indica potere, azione, qualità, condizione) una nozione di magia che incorpora la sacralità al di fuori dalla sfera strettamente religiosa. Da allora (1902-3) l'opposizione sacro-religioso è andata di pari passo con l'opposizione sacro-profano presso tutti gli antropologi che hanno operato presso le popolazioni cosiddette primitive. Del resto anche presso gli ebrei la parola sacro significa "separato" e il contatto col Dio avviene solo tramite il "con-sacrato", il sacerdote, separato dal resto della comunità e nel tempio che, in greco, ha un etimo legato al tagliare e al segregare. Il sacrificio rituale così come le varie forme di iniziazione tribali apparterrebbero ai cosiddetti riti di "passaggio" (Arnold Van Gennep) che segnano i vari stati sociali che immettono gli iniziandi nella leadership del gruppo di potere dal quale tutti gli altri sono esclusi.
Non voglio mettere come suoI dirsi il carro davanti ai buoi: definire il significato per passare ai significanti, che sarebbe un metodo oltre che scorretto, inverso ad ogni rigo- re critico. Ho voluto indicare un "modello" allegorico, l"'esempio" dantesco (lo si è fatto per anni con l'alchimia) a cui potrebbe essersi riferito Luigi Alleg~el suo lavoro quasi quarantennale. Un artista non lavora circa quarant'anni attorno a una tematica come la crocifissione (sia pure intervallata da altri e diversi motivi) senza porsi domande e darsi le risposte che poi si intravedono nelle sue opere: senza intenzione di farne un riferimento religioso. Sapendo che affronta un "soggetto" nel quale si sono cimentati tutti gli artisti antichi e moderni appartenenti alla cosiddetta civiltà occidentale: da Cimabue a Bacon, per fare solamente due nomi. Un soggetto neppure tanto "commerciale", difficile da sistemare in case borghesi. Neppure tanto amato dai "religiosi", al di fuori delle chiese. Nel cristianesimo primitivo e per tutto il periodo bizantino si mostrava la Croce ma non il Crocifisso: la crocifissione era un'infamia da tenere nascosta. Il Cristo sofferente poteva essere mostrato, entro limiti contenuti, dagli ariani (in S. Apollinare Nuovo), ma non dai cristiani ortodossi che, ovviamente preferivano il Cristo trionfante. Il Cristo Pantocratore nell' oro dei mosaici, come a Monreale Dire che i "Gesù-Gesù di Allegri sono espressionistici significa affermare una verità parziale. Quando sopra ho scritto dei "riti di passaggio" a proposito del lavoro di Allegri, ovviamente non mi riferivo alle ricerche di Van Gennep sul campo, come si dice nel linguaggio degli etnologi. Ho già detto di un possibile modello e di una allegoria in parte conscia e, forse, in parte inconscia (non diversamente dal modello alchemico in tanti artisti contemporanei che non hanno letto Jung come forse Allegri non ha letto Mauss). Ci sono però concetti e immagini che appartengono all'aria di famiglia della modernità: si avvertono anche leggendo i giornali o le riviste d'arte. Quante mostre, per esempio, sono state allestite sui concetti di "margine" di "bordo" o, più spesso, di "borderline", riprendendoli volta a volta dalla filosofia, dal- l' antropologia, dalla psicologia e perfino dalla psichiatria? Per Van Gennep, "margine" è il momento di preparazione che anticipa il "passaggio" da uno stato all'altro dell'essere fisico- psichico. il distacco della situazione iniziale (la morte simbolica); la fase liminale o di "margine" dove tutto diventa indefinito; la fase del nuovo status (la rinascita simbolica). Non è anche la parabola di Gesù?
Perché questo modello? Prima di tutto per i risultati ottenuti da Allegri e poi per la durata dell'operazione che, a tutt'oggi, non è ancora terminata. Il passaggio se non da uno "stato" accademico per 10 meno tradizionale, le cui origini bisognerebbe cercarle nei primi studi sull'Accademia di Brera, allo stato espressionista (della deformazione), e da questo allo stato di una nuova figurazione (pervasa dall'informale). Tutto ciò non soltanto in una direzione ma in una serie di corsi e ricorsi nei quali hanno confluito le influenze informali, di Sutherland, di Bacon, dei transavanguardisti nel periodo iniziale, recepiti sempre in un ambito di originale costanza. Questo significa che il "margine" per Allegri si è spostato continuamente, che i suoi lavori non sono stati una "variazione sul tema" come potrebbe apparire di primo acchito guardando le sue opere. I suoi sono stati passaggi veri, cioè, per rifarmi ancora a Van Gennep, momenti di preparazione spirituale al "passaggio", anche se, oggi come oggi, può permettersi di operare in una molteplicità di "stati" in alcuni dei quali prevale 1'iconografia, e in altri la pittura. Anche questo per Allegri è stato un margine mobile.
Mi si potrebbe chiedere, a questo punto, se non età più coerente e, forse anche più comprensibile, scrivere di una ricerca linguistica sul significante secondo 10 schema, a mio parere troppo facile e riduttivo, di un'arte moderna (o post), autonoma dai significati quali che siano. Di un' arte non rappresentativa che, invece, "presenta se stessa senza altre velleità? Prima di tutto non mi convince il termine "linguaggio" riferito all'arte figurativa, preferendo, con Deridda, "ecriture avant la lettre". In secondo luogo credo che questa ipotesi del "puro" significante sia ideologia e avanguardistica: oggi, in piena epoca eclettica di contaminazioni, risulta difficile separare completamente il significante dal significato. In terzo luogo, per Allegri, c'è il "particolare" non da poco della durata dell'operazione "Gesù-Gesù" che non può per forza di cose tener separato il lavoro dal "pensare": e ciò significa trovare un nesso significante-significato. Che altro può significare "pensare"?
C'è poi un altro "passaggio" nelle opere di Allegri. Quello tra l'intervento veloce e l'intervento lento (o almeno più lento). L'intervento su carta è quello veloce nel quale la materia gioca anche sugli effetti del caso, dell'assorbimento .della tempera diluita che lascia aloni cangianti, agli spruzzi di colore che invadono il foglio, le pieghe delle carte sottili incollate su quelle più consistenti; poi colori e disegno a china si compenetrano secondo lo scorrere del "margine di passaggio" di cui si è detto. L'intervento lento (o più lento) è quello che utilizza le tecniche miste su tela. Anche qui il margine di passaggio gioco il ruolo. C'è un trittico esposto in una recente mostra a Faenza, "Figura Smargiassa", quasi monocromo, nero e grigio scuro, nel quale le opzioni iconografica ed espressionistica sono preminenti anche se non mancano grumi di colore, spruzzi e colature. In quest' altro dittico di notevoli dimensioni (anche piccolo e grande sono "passaggi") presentato per la prima volta in questa mostra di Russi, intitolato "Il luogo del Cranio", la pittura è prevalente e particolarmente ricercata.
Nel primo, "Eli, Eli, larnma sabactani", iconografia e pittura si sostengono reciprocamente: la figura del Crocifisso sta insaccandosi, le anche sono paurosamente divaricate, la testa è piegata sul tronco, quasi slogata. L'iconografia rimane unitaria e la pittura predilige i contorni e gli spazi attorno: screpolature e velature mostrano una maestria che, pur non essendo fine se stessa, inventa una materia rara, tanto più preziosa quanto meno appariscente, quasi non volesse mostrarsi.
Nel secondo, "I due ladroni", l'iconografia tende a dissolversi, concentrandosi in tre punti ristretti rispetto alle dimensioni del quadro. Qui, direi, la pittura si presenta, i colori si dispiegano in un' euritmia astratta-informale, i segni si depositano in una materia di luce che richiama il tramonto. Si tratta di due opere diverse che però non si contrastano: anzi si rafforzano vicendevolmente e si completano. La sintesi di un lavoro che proviene da lontano, lungo la strada di una sapienza che si rinnova nella molteplicità dei "passaggi" contemporanei.
Anche dai titoli, mi pare, la ricerca del sacro trova la sua origine nel substrato profondo di Allegri. Un sacro "separato" dal religioso che affiora nel quarantennale lavoro di questo artista solitario e lontano da manifestazioni mondane che ricerca nella pittura e altrove il senso della vita, per fortuna, senza averlo ancora trovato. E per questo continua a dipingere.
Giulio Guberti
VITAGLIANO CORBI giornalista de LA REPUBBLICA GIULIO GUBERTI storico MICHELANGELO BENVENUTO saggista-capo redattore”Arte & Carte
L’evento è Patrocinato dal COMUNE DI FOGGIA
Sergio Williams -Alcuni anni fa nella pittura di Sergio Williams ricorreva un motivo facilmente riconoscibile. Esso era costituito dall’apparizione, in un nitido scenario naturale, di qualcosa di strano, che non ci saremmo aspettati di incontrare lì, in quel luogo dove pareva regnare un'aria forse non familiare, ma indubbiamente persuasiva e attraente nella dettagliata verisimiglianza di ogni forma di vita che vi cresceva. Questo elemento inatteso non era però, assolutamente tale da mettere in crisi le certezze della nostra visione del mondo e da spalancare in essa l'angosciosa vertigine dell'assurdo.
Creava, certo, con la sua presenza, una situazione enigmatica e insinuava nell'animo un sentimento d'inquietudine. Ma, in questo modo, sollecitando la ricerca di una possibile spiegazione, spingeva l'occhio a frugare con la massima cura tra la miriade dei particolari di cui erano ricchi quei rigogliosi ed esotici paesaggi e acuiva se mai il desiderio di conoscenza.
A volte tutto nasceva semplicemente dalla vista di qualche rudere nel folto d'una foresta: un mascherone nascosto tra l'erba, una pietra squadrata, in primo piano, con l'elegante decorazione d'un bassorilievo, che sorprendevano, però, a tal punto, col loro misterioso occhieggiare nel cuore selvaggio della giungla, da farci dubitare che potesse trattarsi davvero d'una precisa testimonianza storica o d'un altro qualsiasi attendibile segnale umano. Spesso, però si trattava di apparizioni diversamente spettacolari come quelle - ispirate si sarebbe detto, alla sequenza d'un film di fantascienza - di una piramide sospesa nel cielo o di una sfera sopra un edenico giardino, gioiosamente punteggiato di bacche rosse e di bianche ali d'uccelli, o come quella d’una strana falce luminosa – un ghost, suggeriva l’artista, col titolo dell’opera - a volo radente su un prato ai margini di un bosco.
Ora ho davanti a me un gruppo di opere dipinte da Williams negli ultimi tre anni. Sono ancora foreste, prati e folte boscaglie su cui s’aprono squarci di cieli limpidissimi. Non c'è più, però, nessuna apparizione inattesa, nessuna presenza “aliena” che colpisca la nostra attenzione. In questi quadri domina lo spettacolo d'una natura grandiosa e incontaminata. Dovremmo definirli, dunque, semplicemente ”paesaggi”, esempi d'un genere pittorico tra i più frequentati dalla nostra tradizione artistica. Ma proprio ora che gli enigmi sono stati allontanati e che non c'è in vista neppure l'ombra di qualche unidentified flying object, i paesaggi di Williams rivelano più che mai un tratto di singolare stranezza.
Forse la ragione di questa stranezza è nell'aria troppo cristallina, nel cielo straordinariamente terso, nel silenzio della foresta, dove non si muove un filo d'erba, ma dove la vegetazione è così compatta da far nascere il dubbio che possa aver soffocato nel suo verde e velenoso abbraccio ogni altra forma di vita. Questo dominio assoluto del regno vegetale non è affatto tranquillizzante.
Nei paesaggi di alcuni anni fa sembrava di sentire il fruscio di quei voli che radevano l'erba e si sarebbe potuto persino immaginare di percepire il ronzio di chi sa quale misterioso motore. Ora quelli che dipinge Williams sono luoghi assolutamente silenziosi e tranquilli, ma con la loro impenetrabile e fredda solitudine, con il loro chiarore azzurrino che sfiora i cespugli e gli alberi, senza rivelare che cosa si nasconda nell’ombra, alimentano mille sospetti.
Questa luce lunare fa venire in mente le notti degli incantesimi e dei sabba e induce i pensare che potrebbe esserci qualche fondamento di verità nel fatto che la mitologia e le leggende di molti popoli primitivi raccontano che la luna, spesso collegata al ciclo vitale acqua-vegetazione (“la grande madre delle erbe” veniva chiamata da alcune tribù brasiliane), è la signora della morte, la regina del mondo sotterraneo delle ombre - e, aggiungeremmo, dei fantasmi rimossi nell'inconscio. Che, non a caso, si dice che salgano più frequentemente tra di noi nelle notti di luna piena.
In altre parole, se l'inquietudine prima nasceva dal contrasto tra la naturale evidenza del paesaggio e l'enigmaticità dell'oggetto che vi faceva la sua inattesa apparizione, ora essa è legata alle caratteristiche del paesaggio stesso ed è enormemente accresciuta da alcuni inspiegabili fenomeni che ci fanno dubitare della “normalità” di questi luoghi, dove forse si nascondono terribili minacce. Williams, nei titoli delle sue opere, dal '90 in poi, ha spesso parlato di “distonie”. Queste si presentano con una vistosa alterazione cromatica nell'aspetto naturale delle cose: un improvviso e inspiegabile cambiamento dei colore di un fusto o della chioma d'un albero, una, violenta accensione timbrica provocata da una scarica d'energia luminosa. Segnali d'allarme: ma non tanto nel senso dell'annuncio d'un imminente pericolo, quanto di qualcosa che è già irrimediabilmente avvenuto.
Se non fosse espressione oramai troppo logora, si potrebbero definire, questi di Williams, paesaggi da day after. Il loro aspetto, che qualcuno potrebbe superficialmente confondere con l'idillico volto della natura tramandatoci da una antica e gratificante convenzione pittorica, tradisce i segni di una crisi che ha trasformato nella sua assenza la realtà. La rigogliosa, lussureggiante vitalità delle piante che trionfano su tutto, fino a chiudere alla vista qualsiasi orizzonte, non ha nulla di invitante. Anzi ci dice che questi luoghi sono per noi diventati stranieri ed ostili. Quei tronchi dai rossi e dai gialli stridenti, quelle foglie che scintillano nell'ombra come una pioggia di fuochi artificiali illuminano un mondo che per l'incontenibile, aggressivo e mostruoso processo di proliferazione vegetale da cui è ricoperto non può essere la stessa terra che noi ancora abitiamo. Quel che proviamo, alla fine, di fronte a questi paesaggi, è una sensazione intensa di irrealtà, un sentimento di “straniamento” totale, quale certo non poteva venire dal più incredibile e spettacolare avvistamento di U.F.O.
Ma l’aspetto più interessante dei recenti dipinti di Williams sta nell'ambigua tensione di cui si caricano i segnali distonici. Questi, infatti, non si riferiscono solo ai “disturbi” che hanno sconvolto i circuiti vitali della natura, ma anche a quelli indotti nei nostri processi di ricezione delle immagini. Sono perciò segnali di una patologia che riguarda la nostra percezione dei mondo e noi stessi non meno della natura. Del resto, se essi non ci coinvolgessero direttamente, se essi toccassero solo una realtà esterna, radicalmente diversa da noi, non si spiegherebbe la forza “perturbante” dei paesaggi di Williams, che si prolunga ben oltre la durata di questi segnali. Come ha sostenuto Freud, un grave turbamento non ha mai la sua causa nell'apparizione di ciò che ci è del tutto sconosciuto ed estraneo, ma nella paura che può accompagnare il ritorno alla luce di ciò che ci appartiene profondamente e che noi profondamente avevamo tentato di rimuovere. E quale segreto pensiero riaffiora dalla pace solenne dell'ultima “foresta azzurra”, dipinta da Williams, se non quello che nasconde dietro il sogno d'una perfetta e assoluta felicità il compiersi del comune ineludibile destino che attende tutto ciò che oggi è meravigliosamente vivo?
Vitaliano Corbi.
La pittura di Giuseppe Leone è come un corso d’acqua di poeta cinese, come un manifesto d i avanguardia americana, come tutto ciò che è strumento poetico ,anche questa materia visibilizzata dal pittore è strumentazione amplificabile, secondo che l’uomo vede e vuole vedere. La trama del quadro è strumentazione per ottenere poesia. Il resto è il misterico sentimento di angoscia e di serenità, di allarme e di riposo che deriva guardando questi quadri. La chiave di lettura è l’invito ad abbandonarsi nell’immagine perché se ne spalanchi una finestra, oppure un cunicolo se volete, attraverso cui andare, lasciarsi andare. L’arte è volo.
Questa fase del lavoro di Leone è come se fosse un solo quadro frammentato in tanti quadri. Il progetto interiore è certamente unico: non rivelabile, non rilevabile, punto focale del potere inventivo. Però ci sono particolari che possono essere indicati, come segnaletica per il viaggio nella lunga marcia pittorica di questa serie “leonina”.
I segni magici-realistici, o realistico-magici, nei quadri di Leone intervengono intersecati, sino a disorientare lo spettatore, e poi portarlo al galoppo della fantasia, oppure a un rannicchiarsi entro se stesso. Questi segnalazioni per il sistema visivo, e quindi immaginativo di chi guarda. Giuseppe Leone utilizza segnali naturalistici, - ad esempio – Giorgio de Chirico utilizzò segni inerti, quali l’armentario archeologico, per provare i sentimenti fantastici della Metafisica. A suo modo, con un proprio procedimento, anche Giuseppe Leone provoca sensazioni, emozioni, trasposizioni mentali metafisiche.
L’onirismo di Giuseppe Leone diventa una natura parallela dell’essere svegli. Grecità e latinità, tutto il bagaglio culturale della nostra memoria trova riscontro nell’immaginazione della cultura di questo sannita, con dentro, esternato in pittura, la radice storico-religiosa della sua terra. Certo il Museo di Benevento, la nativa Benevento, vi sono dentro. Troppo facile ricorrere allo Streghiamo della Leggenda di Benevento. Non ci si ricorre per evitare questa faciloneria. Anche perché l’Onirismo di Giuseppe Leone è sottofondo di bellezza statuaria, è ricerca di sogni seppelliti e risorgenti ogni mattina, è lettura magica del quotidiano vivibile.
Giuseppe Leone raggiunge qualità narrativa alta nella pittura. Ogni apparizione dipinta, ricorrendo alla dimensionalità di ogni opera per accrescere l’emozione, è racconto. Ad uno ad uno i quadri che hanno questa caratteristica possono dunque essere spiegati. Ogni quadro potrebbe avere una didascalia storica, topografica. E’ il modo di presentazione, ossia il linguaggio, che fa scattare in poesia la tavola dipinta.
L’analisi dei quadri deve farla, dinanzi ad ogni quadro il Leone, lo spettatore nella sua conversazione con l’opera. Si è cercato di indicare punti di penetrazione per meglio possedere, non solo visivamente, questo ciclo pittorico. Vanno fatte altre due o tre considerazioni, per stabilire un inserimento dell’artista, ch’è al vertice della sua maturità, per anni ed esperienza, nel contesto della pittura contemporanea.
L’ideologia della Storia è nella stessa stratificazione dell’opera di Leone. La Storia con mitizzazioni, equivoci, certezze, rimpianti ed alla fine il suo risultato inappellabile. La Storia come verità matematica del tempo e degli uomini che lo percorrono e vi si consumano. Il relitto archeologico che spesso è punto di partenza del tunnel viaggiante di Giuseppe Leone è retrodatato come relitto – la storia del territorio sannita – ma il fantasma che ne deriva, e che si forma nello spettatore è volto dell’attualità. Nel senso che il volto antico in apparenza lontano si trasferisce nel nostro futuro. L’artista, per virtù di una strategia nel movimento mentale del tempo, riesce a renderci immedesimati nei cosiddetti fantasmi del passato, diventati noi il futuro. Operazione difficile, rara.
Ideogrammi di morte hanno la potenzialità resurrezionale della vita. Verrebbe la tentazione di indicare in Giuseppe Leone un artista iniziato. Certo è un iniziato, in quanto destinato da un richiamo interno ad alta potenzialità di comunicazione interiore. Questo è un dato di attualità. L’uomo di oggi è alla ricerca urgente necessaria, di una sintesi vivibile tra mistero e scienza, tra verità accertabile e le incognite dell’universo.
Da questo insieme di situazioni deriva anche il sentimento di solitudine che determina le opere di Leone. Però è solitudine collettiva. Tutti siamo e saremo pietrificati.
Giuseppe Leone è un pittore che sa dare a questa solitudine umana, di ognuno, la consolazione di essere tutti nella stessa realtà: tutti saremo archeologia della vita, però tutti, mentre esistiamo, siamo presenza. Torniamo al senso che l’artista sa dare della ideologia della Storia.
Queste ed altre possibili considerazioni potrebbero essere allargate. Quasi ogni quadro, o almeno ogni gruppo, suggerisce considerazioni e scatti di meditazione e di fantasia. Nella pittura di Leone c’è questo di comune con la musica : lettura esatta eppure di amplificabile polivalenza.
Queste situazioni che rendono magico l’artista, e per magia si intende presa di possesso sul visitatore del quadro, dipendono dalla qualità della pittura di Leone. Dalla cultura moderna, conoscitiva e per intuizione , che guida il progetto interiore di Leone. La capacità tecnica , ossia il mesterei del dipingere, sono in Leone situazioni evidenti . L’utilizzazione dei materiali, lo scandire degli spazi negli spazi sono modernità assoluta. Si può sostenere che , con questo artista, siamo in una provocazione di avanguardia ottenuta con gli strumenti della tradizione. La sfida del colore sul legno che deve simulare ed essere parete , pietra, è condotta con vigilata sapienza. La sapienza resterebbe freddezza e inazione se non fosse legata al vulcano interno, sigillato, ch’è il laboratorio spirituale di questo pittore.
Se dovessimo collocare i dipinti di Giuseppe Leone, negli avvenimenti che – tornando alla Storia ed alle finzioni implicite del tempo - , si potrebbe tentare una definizione: un capovolgimento delle ricerche di avanguardia formali in ricerche di avanguardia nello spirito delle cose e dell’uomo. Le forme, le tecniche, la libertà di spaziature e di misure dello spazio, altre sicurezze denotano in Giuseppe Leone un artista che ha innestato nel suo figurativo le più avanzate soluzioni della pittura di oggi, avanguardie comprese: anzi avanguardie soprattutto. Questo sarebbe, pur sempre , sostanza e non emozione della forma.
Michelangelo Benvenuto
Quello con Gianni Testoni è un incontro tra compagni di strada che impegna ad un discorso diretto, serratamente pertinente, senza violini di sottofondo: ri-conoscersi è ritrovare l'identità della memoria consapevole d'ardore civile, forte da inverare impegno e creatività e trasferirli in un immaginario la cui cifra estetica testimonia la vocazione a percorrere uno dei più luminosi sentieri della realtà del fantastico. Intanto va subito chiarito che una suggestiva immersione nel visionarisrno boschiano non preclude altri attraversamenti, interpolazioni e rivisitazioni, delle dialettiche dell' arte che sceglie di fantasticare per modificare “favolosamente” la realtà sociale assuefatta alla cavezza dogmatica e all'oscurantismo massificante. E va inoltre precisato che il transito di Testoni dall'ironia, caricaturale degli inizi alla selva proliferante deIle ossessioni che crescevano negli anni presaghi ( o meglio consapevoli, del dileguarsi del sogno, chiamiamolo bi-sogno, raddoppiando così il desiderio deluso di cambiare il mondo ) del medioevo prossimo venturo, risponde a varie tappe di coerente maturazione che predispongono all'incontro con l'universo convulso, catastrofico, brulicante delle meravigliose e bizzarre fantasie dell'inimitabile Maestro di Brabante. Prima quindi di approfondire il senso dell'arte che alle svolte epocali s'apre alla fantasia, perché assillata da tramonti, preclusioni e crolli definitivi, è giusto far cenno agli scandagli sociali che Gianni Testoni trasferiva nel suo immaginario caricaturale-satirico, facendo il verso a quotidiane evidenze, di per sé innaturali e tragicomiche, e intanto esposte con tutte le loro deformi contraddizioni agli strali che l'ideologia esigeva ferocemente acuti. E' superfluo sottolineare che il sarcasmo contrassegnato da decise scelte di campo mette a fuoco nell'immaginario elementi di un narrato a rischio di “definizione” che non fa stile, ma ripropone inevitabili ricorrenze, valide anche a ribadire il significato, ma distanti dalla libertà del senso. Valeva quell’esercizio come autointerrogazione, proiezione di un dialogo complesso e intenzionale che dalla cronaca, dal severo, impietoso giudizio comportamentale, si sarebbe poeticamente esteso a traslati esistenziali tanto più suggestivi quanto più esenti da codici comunque riduttivi. Un oblò con la vista obbligata, per quanto possa essere preziosa, è ben altro che la scena del mondo dove la vita somiglia solo a se stessa allo specchio e “chi di scena” è trafitto dalle sue stesse intuizioni. Nei suoi percorsi Testoni si conferma fedele alla tavola come supporto della sua pittura ad olio che procede dalla denuncia dell'ipocrisia ( delle maschere funzionali alle esequie condite dalla retorica, della violenza che trova sempre un ciarlatano pronto ad eccitarla, renderla tumida esasperata, esiziale ), e incontra, in coerente evoluzione, i circuiti dell'inconscio, le ragioni dell’ombra, la livida palude in cui si sconta la propria ineguatezza di fronte al dolore. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una ricerca in progress che si evolve da una riduzione all'essenzialità espressiva dell'immaginario, sapidamente incisivo, che si aromatizza a misura delle esplorazioni che dilatano la fantasia e travasa la nostalgia dell'uomo prima in proiezioni di passione delusa e poi in quelle allegrie di naufragi gremiti di reminiscenze simbolico-psicologiche. Cambia così anche la sorte della tavola preparata per dipingere: da spazio di dissacrazione dei feticci e dei lupi che non perdono nè pelo nè vizio, da solida naturale squadratura che ospita le rivendicate ragioni del dito puntato contro la pantomima e la farsa del potere che alleva l’ignoranza. diventa inventario di metafore. L'azione è aItrove, fuori scena; I'occhio dell'arte si serve dell'ironia come placebo per illudersi di lenire la delusione inguaribile di un impegno fortemente sostenuto e sperperato in un mondo persuaso ai consumi, disperso in segni vani, senza significato nè senso. L'allestimento scenico delle opere dei primi anni Ottanta brulica di rissosi mutanti crudeli ed osceni come solo una feroce fantasia visionaria avrebbe potuto partorire: l'abnorme mostruosità risponde alla consapevolezza che il teatro del mondo attesta solo che dal nulla al nulla il transito si rinnova tra ferocia e dolore esorbitanti, in progressione geometrica, nel tempo velocizzato dalla tecnologia e dalla scienza senza coscienza. Testoni filtra dall'arte fiamminga, dalla realtà del fantastico, dal boschismo, ma anche da altri filoni che attingono alle dialettiche della fantasia per vincere l'alienazione, ( I'afasia, I 'orrore del labirinto, lo scontro con il primordio, le proiezioni maniacaIi, gIi ingranaggi sadomasochistici che non risparmiano istinti, sensi e pensieri ) la sua visione di un universo sempre più distante dal buonsenso. I segnali più evidenti negli enigmi che si risolvono in allusive metafore sono quelli dell’isolamento, deIla distanza: vastità marine, spiagge la cui natura non agevola il transito, soli bassi sulI'orizzonte, come presagi di crepuscoli, d'attesa non si sa se d'albe o di tramonti, torri, ricorrenti come paesaggi della memoria, identificative di luoghi esperti dell'assalto e della difesa, sempre feroci, anche sotto le ambiguità delle mutate spoglie. Il terribile “Angelo" del 1979 rivela tutta la sua feroce ambiguità di sconosciuto, indifferente a tutto ciò che di umano l'ansia sociale ha prodotto. L'angelo è sempre tremendo alI'incontro, cambia le sorti umane, impone la lotta, vince, lascia il segno, incide nella viva carne il marchio del dolore: Rilke sapeva che l'angelo non sa distinguere tra i vivi e i morti, esperto com'è nella sua perfezione dei segreti che varcano l'eterna fiumana dell'Essere che tutto travolge. Quest'opera di forte impatto mi ha riportato alla mente Wim Wenders e il suo angelo del "Cielo sopra BerIino”. Prima di essere gettato al di là del muro “è” libero dal peso, dal corpo, dall'ombra: bianco e nero senza spessore. Per esistere deve deciderlo e poi essere gettato al di là con la sua decisione prima di esistere e far esistere le cose. Com'è difficile conciliare due angeli al di qua e al di là di una barriera oltre la quale nulla vieta che ogni abbattimento si configuri come transito dalla padella alla brace. Un discorso non certo sottaciuto nelle opere dedicate a “La caduta del muro " (1990) in cui occhi di luce e fanfare in marcia non promettono il diritto alla felicità. E' inevitabile che i transiti obblighino a rinnovati equilibri: il pittore in questa consapevolezza si interpreta nel suo autoritratto del 1989; annullando il corpo, propone la sua testa quasi globo nel vento dei pensieri. Gli attraversano il volto attonito in una ridda di presagi che si sommano e le pupille senza meraviglia s'aprono sul futuro, oltre la soglia/limite : L'evento inesorabile annulla la parola. In un altro autoritratto del medesimo anno la messa a nudo evidenzia una condizione d'isolamento, di guerriero senza corazza, di superstite vagante sul ristagno di mondi e sogni perduti, ormai in ammollo. Continua dall'alto la caduta di desideri che, al triste saluto, vanno alla quiete della palude: La superficie piana lì accoglie a galla e si smuove appena come sotto la pioggia l'acqua che giace. Testoni è un artista che sente profondamente ed è esercitato a pensare: sa far poesia favoleggiando con la soavità del suo "Cantastorie " nel candido ammanto che sa vele felici, ricche di soli e lune. La sua vista è distinta da una pupilla di luce e da un'altra d'ombra, sole e luna negli occhi della nostalgia. Narra e canta l'eterna favola che sogna uomini umani e donne d'amore : merita un pubblico sensibile e il giusto obolo che gli viene dato a piene mani dalle signore dei suoi desideri, presenti e intanto sottratte ai suoi occhi, chiare alla sua inferiorità che conosce le stagioni fiorite e quelle dei frutti maturi. Ama lo strumento che lo consola con L'arte: qualche corda è spezzata: forse è servita per fermare un sogno a rischio di precipitare nel vuoto che dà risonanza alle note. Mi sono soffermato su questa opera, che ha sapore d'antico che s'infutura, perché conferma che la percezione profonda di una condizione intima, come ogni passione d'amore, inteso nella più vasta accezione, implica un ritorno doloroso, un viaggio ( nostos ) che procura dolore ( algos ): amore è nostalgia d'unità. Chi la cerca nella memoria si ritrova della stirpe d'Ulisse: ha lunghi silenzi e nel brivido d'un attimo avverte I'appartenenza. Con quella si comunica. Le tavole dipinte di Testoni nel procedere delle sue conquiste condensano ironia e drammaticità: la realtà del fantastico grida l'inadeguatezza di fronte al dolore con un pathos ignoto all'indifferenza che domina il post-umano. Alla presente svolta epocale i diretti eredi di un secolo e di un millennio devono rendersi conto d'essere in transito, come superstiti, con un segreto incomunicabile: a nessuno interessa che essi hanno vissuto L'essenza assoluta del dramma esistenziale, ignoto ai nuovi parametri di spostamento di pensiero. Bernd Guggenberger propone per il tempo dell'incertezza un motto drastico: "Don't cry, drive on" indicando la mobilità come virtù del post-umano disancorato da salde strutture di riferimento: "Si dovrà cessare di amare un Luogo, una donna, una casa, una città, una professione, o un ideale, Bisognerà essere sempre pronti a traslocare, a cambiare umore, idea, Lavoro". Ed eccoci, com'è stato ben sottolineato, "sedentari nel corpo e contemporaneamente nomadi nella mente". L'angelo di Rilke continua a vietare senza cedimenti, neutro, senza contaminarsi, ma come può restare sulla cima della ragione e al centro dell'universo tenendo conto che non può esserci un centro di consapevolezza di sé in un universo che “ s’espande di continuo ed esige partecipazione e comprensione per vivere "all'altezza" della circonferenza? Mentre si fa inconciliabile il dissidio tra natura e cultura, sono proprio le scienze esatte a mutuare metodi e paradigmi da quelle umane; mentre il nostro mondo si fa sempre più complesso e impredicibile, la creatività scopre sterminati orizzonti per le sue investigazioni. Insomma c'è più spazio per la realtà del fantastico? E se i mutanti a venire, le probabilità non sono poche dati i prodigi della genetica, si potranno specchiare nella chiaroveggenza della fantasia di chi ha preconizzato corpi macchine e fisionomie sconvolte per contrastare l'innaturalità del divieto e del degrado sociaLe? Tutto il boscismo meccanico-
medioevalreggiante, i grovigli, le macchine volanti, gli insetti totem, i tuffi nella broda, chissà se del primordio, le geometrie eccentriche, i puzzle, i rebus, le costanti devastazioni, le soglie sospese sul nulla, potrebbero, oltre la realtà del fantastico, essere codici di transiti esistenziali su cui meditare per dare senso al nuovo e al buono cui si aspira in ogni luogo di massimi mutamenti, dovunque cioè è tempo del progetto ineludibile per andare verso il tempo della continuità. Torno alla realtà del quotidiano che ispira il visionarismo delle più recenti opere di Gianni Testoni, in special modo quelle della rassegna "Javan" di certo lontana dal consueto, conclusa in Castell'Arquato il 14 settembre 2003, per le sue particolari modalità. In mostra c'erano i disegni di Ivan, il figlio di Gianni prematuramente scomparso e le opere pittoriche del padre che ha per così dire inglobato quei disegni evolvendoli nella sua arte quasi a continuarli per soluzioni che significano non solo consonanza affettiva, ma anche e soprattutto una confessione d'alta dignità. Le sfere presenti nelle tavole testimoni di desideri irrisolti, di sogni e speranze perdute, di delusioni subite come crolli che dall'alto delle nuvole vanno agli abissi profondi segnavano d'amarezza la delusione inclemente, altre sfere sono quelle che grondano in moti vari da cieli tenebrosi, sono gelide, fredde di ghiaccio, pesano sull'anima che su se stessa si piega e si ritrova afona, tanto più sola. Allora è giusto rinnovare il gioco che si fa con i disegni dei bambini: non appena la loro fantasia tace, la mano più sicura la riaccende elaborando le tracce del segno in uno scenario aperto ad una “narrazione” fiorita dai semi di una comunicazione diretta. Ivan non era più un bambino, ma donando i suoi disegni al padre, lo ha sollecitato ad un colloquio tanto intimo, tanto sintonico in complicità, che per la fantasia creativa ha assunto il senso reale di un sorriso illuminato da un amore nuovo ed antico. Insomma le “ segrete cure ” del figlio che già certamente non le erano estranee sono transitate nella più intima creatività paterna e diciamolo pure, in quella Gianni nulla ha mai neppure una delle aspirazioni, comunque disperse nei giorni di tutti: nell'arte hanno trovato la loro aperta comunicazione e, malgrado le svolte vitali, a specchio di quelle epocali, hanno assunto il ruolo di preesistenze da cui partire per un progetto. Poco importa chi lo continuerà: il progetto non si azzera, nè si conclude mai: va verso, riprogettandosi nonostante le risse e le tempeste esistenziali e il dolore e la morte che resta sommo insulto all'intelligenza dell'uomo. Quanto del padre ho ritrovato nei disegni del figlio, a partire dall'insofferenza e dalla tensione visionaria tesa, rigorosa, nitida nelle geometriche fratture che s'incontrano nella linea interrotta, spezzettata e fatta cuspide alla resa del mare increstato, che danno vita ad essenzializzati manichini in tracciati elementari o tridimensionali in cui la presenza, umana o animale ha la consistenza di un giocattolo, mi piace pensare di legno, messo a punto da un esperto carpentiere-architetto. Anche qui la scelta della tavola, evidente nell'idea barca, nell'allusione alle macchine belliche che sempre al medioevo ci riportano specie pensando all'ariete e alla polena. E poi c'è il sole all'orizzonte, il disco/sfera che diventa mina, aureola immensa per il personaggio de " II vestito ", da cui emerge come da una casa-tenda, armato di coltello con la punta in basso, a terra, mentre volge le spalle ad un paesaggio, sempre elementare, turrito, contro cui si staglia. I temi stessi dei disegni che sono l'altra faccia di delusioni ferocemente scontate, non esulano dal discorso di Gianni: in grido afono, in urlo che il deserto azzera, dicono angoscia, solitudine voglia d'un volo di fantasia, d'una corsa impossibile per il cavallo di legno, alato, a sei ruote, L'ansia di scrutare il “sottosuolo”, il mondo si sotto, la consapevolezza d'una feroce regressione, una condizione Beclettiana, la voglia di afferrare, sentire 'di andare, navigare, naufrago senza remi in un mare silente sotto il sole. L'omaggio a Ivan è sul filo sintonico paritetico, etico come dovrebbe essere l'uomo che eredita la terra e l'abbellisce, aggiunge al progetto il suo apporto e procede, altro non può fare, giustificando, consentendo e andando avanti: La cultura è sempre spazio che comunica. Gianni Testoni riprendendo il disegno "Inferno", avverte la distanza dall'immaginario in cui aveva trattato il medesimo tema accanto a quello del “Purgatorio” e del “Paradiso” già nel 1979. L'aldilà visionano del trittico è caratterizzato dalla costante delle lapidee arche/barche ospitanti dannati, salvati e beati, sempre all'impiedi, infilati in apposite alcove a tubo, da cui fuoriesce solo la sommità del capo. La musica c'è sempre: più fervida e invitante quella infernale, arricchita dai colpi del lignei, pesanti e primitivi mazzuoli calati su chiunque si azzardi a far capolino per colpi in testa e rituali violenze. Ai salvati è concesso venir fuori dalla tana: la musica non s'arresta sulla loro desolate solitudine obsoleti richiami. Lo stesso angelo vigile, con tanto dì scudo e sempre mano alla spada, è afflitto da noia assoluta. I beati poi, fatti della stessa sostanza dette arche, vi si adattano perfettamente in una definitiva stasi dominata dalla musica che appaga solo i protagonisti di un gioco, il cui segreto solo a loro appartiene. Dove invece il colloquio tra Ivan e Gianni si fa serrato, il consenso e l'evoluzione del discorso si evidenziano in una visione che abbraccia, maternamente, un brivido d'inferno e lo traduce amplificato tra memoria emozionata e tumultuoso racconto. Ivan sa che oltre l’stremo molo dov’è rischio il freno alla corsa del cavaliere in sella a un destriero di legno, un giocattolo d'esperta carpenteria, c’è l’indifferenza dell’onda increspata appena, a cuspidi angolate. Il molo e folto di crepe, vietato alla ri-salita, il grido afono d'ogni lenta sommersione è alto, in vista, nelle braccia che non si arrendono. Gianni sceglie il tumulto del mare d'inverno. Il suo cavallo è meccanico, agli zoccoli porta le ruote, s’impenna è scivola tra un'algida torre e la luna che piange lacrime di sangue arrossando un ribollio dì mattanza in crepuscolari bagliori, mentre s'addensano nuvole di bufera: s’arrotolano su se stesse, in pesanti, stritolanti, volute. I condannati sono attoniti, impassibili naufraghi: vanno travolti con le loro storie intime tra mostri e delusioni disperate: chissà se al largo, all’infinito del tempo che tutto consuma saranno disperse nel nulla. L'esorbitanza e l’ironia sembrano nelle più recenti opere di Testoni operare per ab-reazione, accentuazione cioè dei “ dati ” estremi del dramma, perché, all’acme, possano risolversi in catarsi non so se temuta o sperata. La realtà del fantastico nelle più recenti dipinte, esperte della vita come regola e desiderio, di forte impatto e di umanissima, fervida, sapiente comunicazione, non vince, nel confronto, quella del pathos che non si misura in esorbitanze di forme difformi. Fanno meditare le sfere di neve che cadono ininterrottamente e colmano d’inconsistenza una barca che altrove era vuota, pur recando segnali d’umano riferimento, ben connotati nella polena e nel timone. I colori sono all’altezza dei sentimenti ai quali le emozioni si elevano: se non fosse così, non ci sarebbe l’arte, quella forte a trasferire l’energia solare in energia sociale. E poi ci sono quelle lune ricorrenti, assidue, riscattate a buon diritto dall’altra metà del cielo, giustificative del volo e del saluto, del rimpianto, della nostalgia, della pietas che confronta, senza chiose, la tragedia dei palestinesi e degli ebrei nell’inclemenza della neve che li raggela nel dolore. In quello s’annulla ogni distinzione: le lune si susseguono fertili d’altre lune che proliferano dalle loro lacrime. L’arte di Testoni è eloquente: più che mai è immersa, e pertando vale, nella battaglia della verità che vive di pensieri antagonisti, scontri d’idee, luoghi di massima modificazione. Vi confluiscono la logica incrollabile e le istanze della vita al cui albero disperatamente s’afferrano i testimoni degli umani transiti. In quella confluenza il sapere creativo la conoscenza con sapore: la nozione profonda del dolore aiuta a comprendere e svelare con la consapevolezza dell’eticità che non può essere disgiunta dal pensiero che attiva le mani del fare e i passi per andare. Testoni con la modernità della sua pittura, vale infatti “ modo ”, ora, nella sua attualità che s’infutura, propone, comunica valori umani, ineludibili soprattutto nella consapevolezza che macrocosmo e microcosmo hanno le medesime probabilità di collasso nella complessità e impredicibilità che li accomuna. Il dono di fantasticare all’infinito della libertà è giusto compenso all'eticità delI’arte, specie quando nel deserto dell’indifferenza si propone massificata in mimesi e tautologia. Angelo Calabrese
LUIGI ALLEGRI NOTTARI - "Gesù-Gesù" è, nel contempo, un'invocazione e un'esclamazione di meraviglia e/o di disappunto. Credo dobbiamo riferirci agli ultimi due significati, meraviglia "e" disappunto, per individuare la volontà di Luigi Allegri nel dare nome a questo ciclo che viene avanti dal 1963. Per dire che non è l'aspetto religioso che prevale in queste crocifissioni quanto quello del sacro in senso antropologico. Fu Marcel Mauss a indicare nel lemma "manà' (parola che per i polinesiani indica potere, azione, qualità, condizione) una nozione di magia che incorpora la sacralità al di fuori dalla sfera strettamente religiosa. Da allora (1902-3) l'opposizione sacro-religioso è andata di pari passo con l'opposizione sacro-profano presso tutti gli antropologi che hanno operato presso le popolazioni cosiddette primitive. Del resto anche presso gli ebrei la parola sacro significa "separato" e il contatto col Dio avviene solo tramite il "con-sacrato", il sacerdote, separato dal resto della comunità e nel tempio che, in greco, ha un etimo legato al tagliare e al segregare. Il sacrificio rituale così come le varie forme di iniziazione tribali apparterrebbero ai cosiddetti riti di "passaggio" (Arnold Van Gennep) che segnano i vari stati sociali che immettono gli iniziandi nella leadership del gruppo di potere dal quale tutti gli altri sono esclusi.
Non voglio mettere come suoI dirsi il carro davanti ai buoi: definire il significato per passare ai significanti, che sarebbe un metodo oltre che scorretto, inverso ad ogni rigo- re critico. Ho voluto indicare un "modello" allegorico, l"'esempio" dantesco (lo si è fatto per anni con l'alchimia) a cui potrebbe essersi riferito Luigi Alleg~el suo lavoro quasi quarantennale. Un artista non lavora circa quarant'anni attorno a una tematica come la crocifissione (sia pure intervallata da altri e diversi motivi) senza porsi domande e darsi le risposte che poi si intravedono nelle sue opere: senza intenzione di farne un riferimento religioso. Sapendo che affronta un "soggetto" nel quale si sono cimentati tutti gli artisti antichi e moderni appartenenti alla cosiddetta civiltà occidentale: da Cimabue a Bacon, per fare solamente due nomi. Un soggetto neppure tanto "commerciale", difficile da sistemare in case borghesi. Neppure tanto amato dai "religiosi", al di fuori delle chiese. Nel cristianesimo primitivo e per tutto il periodo bizantino si mostrava la Croce ma non il Crocifisso: la crocifissione era un'infamia da tenere nascosta. Il Cristo sofferente poteva essere mostrato, entro limiti contenuti, dagli ariani (in S. Apollinare Nuovo), ma non dai cristiani ortodossi che, ovviamente preferivano il Cristo trionfante. Il Cristo Pantocratore nell' oro dei mosaici, come a Monreale Dire che i "Gesù-Gesù di Allegri sono espressionistici significa affermare una verità parziale. Quando sopra ho scritto dei "riti di passaggio" a proposito del lavoro di Allegri, ovviamente non mi riferivo alle ricerche di Van Gennep sul campo, come si dice nel linguaggio degli etnologi. Ho già detto di un possibile modello e di una allegoria in parte conscia e, forse, in parte inconscia (non diversamente dal modello alchemico in tanti artisti contemporanei che non hanno letto Jung come forse Allegri non ha letto Mauss). Ci sono però concetti e immagini che appartengono all'aria di famiglia della modernità: si avvertono anche leggendo i giornali o le riviste d'arte. Quante mostre, per esempio, sono state allestite sui concetti di "margine" di "bordo" o, più spesso, di "borderline", riprendendoli volta a volta dalla filosofia, dal- l' antropologia, dalla psicologia e perfino dalla psichiatria? Per Van Gennep, "margine" è il momento di preparazione che anticipa il "passaggio" da uno stato all'altro dell'essere fisico- psichico. il distacco della situazione iniziale (la morte simbolica); la fase liminale o di "margine" dove tutto diventa indefinito; la fase del nuovo status (la rinascita simbolica). Non è anche la parabola di Gesù?
Perché questo modello? Prima di tutto per i risultati ottenuti da Allegri e poi per la durata dell'operazione che, a tutt'oggi, non è ancora terminata. Il passaggio se non da uno "stato" accademico per 10 meno tradizionale, le cui origini bisognerebbe cercarle nei primi studi sull'Accademia di Brera, allo stato espressionista (della deformazione), e da questo allo stato di una nuova figurazione (pervasa dall'informale). Tutto ciò non soltanto in una direzione ma in una serie di corsi e ricorsi nei quali hanno confluito le influenze informali, di Sutherland, di Bacon, dei transavanguardisti nel periodo iniziale, recepiti sempre in un ambito di originale costanza. Questo significa che il "margine" per Allegri si è spostato continuamente, che i suoi lavori non sono stati una "variazione sul tema" come potrebbe apparire di primo acchito guardando le sue opere. I suoi sono stati passaggi veri, cioè, per rifarmi ancora a Van Gennep, momenti di preparazione spirituale al "passaggio", anche se, oggi come oggi, può permettersi di operare in una molteplicità di "stati" in alcuni dei quali prevale 1'iconografia, e in altri la pittura. Anche questo per Allegri è stato un margine mobile.
Mi si potrebbe chiedere, a questo punto, se non età più coerente e, forse anche più comprensibile, scrivere di una ricerca linguistica sul significante secondo 10 schema, a mio parere troppo facile e riduttivo, di un'arte moderna (o post), autonoma dai significati quali che siano. Di un' arte non rappresentativa che, invece, "presenta se stessa senza altre velleità? Prima di tutto non mi convince il termine "linguaggio" riferito all'arte figurativa, preferendo, con Deridda, "ecriture avant la lettre". In secondo luogo credo che questa ipotesi del "puro" significante sia ideologia e avanguardistica: oggi, in piena epoca eclettica di contaminazioni, risulta difficile separare completamente il significante dal significato. In terzo luogo, per Allegri, c'è il "particolare" non da poco della durata dell'operazione "Gesù-Gesù" che non può per forza di cose tener separato il lavoro dal "pensare": e ciò significa trovare un nesso significante-significato. Che altro può significare "pensare"?
C'è poi un altro "passaggio" nelle opere di Allegri. Quello tra l'intervento veloce e l'intervento lento (o almeno più lento). L'intervento su carta è quello veloce nel quale la materia gioca anche sugli effetti del caso, dell'assorbimento .della tempera diluita che lascia aloni cangianti, agli spruzzi di colore che invadono il foglio, le pieghe delle carte sottili incollate su quelle più consistenti; poi colori e disegno a china si compenetrano secondo lo scorrere del "margine di passaggio" di cui si è detto. L'intervento lento (o più lento) è quello che utilizza le tecniche miste su tela. Anche qui il margine di passaggio gioco il ruolo. C'è un trittico esposto in una recente mostra a Faenza, "Figura Smargiassa", quasi monocromo, nero e grigio scuro, nel quale le opzioni iconografica ed espressionistica sono preminenti anche se non mancano grumi di colore, spruzzi e colature. In quest' altro dittico di notevoli dimensioni (anche piccolo e grande sono "passaggi") presentato per la prima volta in questa mostra di Russi, intitolato "Il luogo del Cranio", la pittura è prevalente e particolarmente ricercata.
Nel primo, "Eli, Eli, larnma sabactani", iconografia e pittura si sostengono reciprocamente: la figura del Crocifisso sta insaccandosi, le anche sono paurosamente divaricate, la testa è piegata sul tronco, quasi slogata. L'iconografia rimane unitaria e la pittura predilige i contorni e gli spazi attorno: screpolature e velature mostrano una maestria che, pur non essendo fine se stessa, inventa una materia rara, tanto più preziosa quanto meno appariscente, quasi non volesse mostrarsi.
Nel secondo, "I due ladroni", l'iconografia tende a dissolversi, concentrandosi in tre punti ristretti rispetto alle dimensioni del quadro. Qui, direi, la pittura si presenta, i colori si dispiegano in un' euritmia astratta-informale, i segni si depositano in una materia di luce che richiama il tramonto. Si tratta di due opere diverse che però non si contrastano: anzi si rafforzano vicendevolmente e si completano. La sintesi di un lavoro che proviene da lontano, lungo la strada di una sapienza che si rinnova nella molteplicità dei "passaggi" contemporanei.
Anche dai titoli, mi pare, la ricerca del sacro trova la sua origine nel substrato profondo di Allegri. Un sacro "separato" dal religioso che affiora nel quarantennale lavoro di questo artista solitario e lontano da manifestazioni mondane che ricerca nella pittura e altrove il senso della vita, per fortuna, senza averlo ancora trovato. E per questo continua a dipingere.
Giulio Guberti
03
aprile 2004
La fantasia ineludibile fra il corpo e l’ombra dell’esistenza
Dal 03 al 17 aprile 2004
arte contemporanea
Location
PALAZZETTO DELL’ARTE
Foggia, Via Galliani, 1, (Foggia)
Foggia, Via Galliani, 1, (Foggia)
Vernissage
3 Aprile 2004, ore 19,00