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La leggerezza della scultura
collettiva di installazioni
Comunicato stampa
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La poetica artistica del Novecento, a partire dall’avanguardia storica, in questo caso non solo l’organico ed anticipatore Futurismo, ma soprattutto Dada, con l’intuizione oggettuale di Marcel Duchamp, orinatoi e ruote di bicicletta investite di aura artistica dalla forza sciamanica dell’artista e gli assemblaggi di Kurt Schwitters, si è cimentata con una concezione nuova dell’arte, un’arte che fosse in grado di aprirsi al mondo, contaminarsi con il quotidiano tramite l’acquisizione di reperti di realtà secondo la logica dell’ “objet trouvè”. Queste tematiche hanno trovato una diffusione su larga scala, nell’ambito di un concetto e di una pratica di avanguardia “normalizzata” a partire dal secondo dopoguerra. La lunga e composita stagione dell’Informale verteva attorno ad un tema prevalente, quello di un’azione artistica intesa come manifestazione di energia vitale, apertura nei confronti dei fenomeni, dialettica tra interno ed esterno. Il limite comune alla maggior parte di quegli artisti fu di carattere oggettivo, quello di non avere violato, nella maggioranza dei casi, quel tabù bidimensionale che appariva ormai come un limite da superare, stante i presupposti teorici. Presupposti, comunque, estremamente avanzati. Già nella seconda metà degli anni ’50 si sviluppano le linee guida di quella che sarà la successiva stagione del Concettuale. Tra le molte correnti di pensiero fortemente venate di profetica utopia che agitano il dibattito culturale di quegli anni si distingue il Situazionismo di Guy Debord. Predicando un nuovo concetto di arte, svincolata da qualsiasi principio di valore e dall’inserimento in quel sistema borghese che finiva per neutralizzarne l’eversione linguistica, riducendola sostanzialmente a prezioso bene di consumo, merce tra le merci, i Situazionisti sostenevano l’esigenza di un’arte puramente comportamentale, da viversi e consumarsi nel “qui ed ora”, indistinguibile da qualsiasi altra azione esistenziale. In particolare la teoria del “detournement” prevedeva la realizzazione di opere costruite seconda la tecnica dell’assemblaggio di materiali ed oggetti recuperati, scorie tratte dall’opulenza della società industriale e vivificate, fatte assurgere a nuova vita e significanza dall’atto creativo. Nell’eterno gioco di rimbalzi e rimandi che caratterizza il ciclo dell’arte, questi temi si ritrovano “tout court” all’interno del concettuale di matrice “mondana” quello, per intenderci, aperto al contatto con il mondo dell’esperienza, che in Italia ha trovato la sua sublimazione nell’Arte Povera. Già il titolo coniato da Germano Celant per etichettare la sua intuizione critica stava ad indicare la volontà di svalutare il lato “ricco” ed esclusivo dell’arte in virtù dell’impiego di materiali archetipi e primari, lasciati liberi di modificarsi seguendo il loro ciclo naturale di metamorfosi chimica e fisica, alla ricerca di un dialogo tra natura e cultura perseguito anche tramite l’impiego di tecnologie duttili ed elementari come la luce al neon. Con l’avvento del successivo ciclo caratterizzato dall’ingresso in una fase di post modernità i temi relativi ad un utilizzo dell’arte contemporanea come viatico per una migliore qualità della vita hanno assunto, specie nell’ultimo quindicennio, una evidente centralità. Tutto ciò non ha mancato di provocare un serrato dibattito attorno al ruolo ed alla funzione del linguaggio della scultura all’interno dello scenario contemporaneo. Dibattito già esordiente nell’800, quando, agli spiriti più sensibili, iniziava ad apparire con chiarezza come l’arte,
dopo la Rivoluzione Industriale, stesse velocemente ponendosi su di un sentiero di superamento di canoni formali plurisecolari ed al centro delle accuse, come fu per Baudelaire, si poneva proprio la scultura, accusata di staticità e monumentalismo retorico e manierato, inadatto ormai ad esprimere i nuovi ritmi e le sensibilità della vita moderna. Dibattito che proseguirà anche nei primi decenni del Novecento, basti pensare ad un grande protagonista come Arturo Martini che, in finire di carriera, seppe, con un saggio come “La scultura lingua morta”, mettersi in discussione prefigurando i futuri sviluppi di questo linguaggio e redigendo pensieri di notevole lungimiranza come “fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione”. Come già citato in apertura, nel secondo dopoguerra l’avanguardia artistica radicalizzerà ulteriormente i termini della questione, proponendo un’installazione vista come puro prolungamento della corporalità fisica e mentale, oltre la tradizionale dialettica inerente il rapporto tra l’oggetto e lo spazio. Lo scenario attuale, posto all’interno di una stagione di avanzata post modernità, ha ulteriormente rimescolato le carte, con un eclettismo stilistico dove la rivisitazione dei modi e delle maniere dell’avanguardia novecentesca ed il ritorno alla manualità pittorica, tipici della fase tra il 1975 ed i primi anni ’90, sempre più si abbina al rapporto con la tecnologia ed i media, sia dal punto di vista del confronto teorico ed iconografico che dell’ausilio di questi nuovi strumenti nella costruzione dell’opera. Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito ad una forte incentivazione nei confronti dell’annosa questione dell’arte pubblica, fondamentale viatico didattico e divulgativo per avvicinare il pubblico dei non addetti ai lavori alla fruizione del contemporaneo, nel tentativo di colmare il gap che ci separa, da questo punto di vista, dalla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti, tramite la realizzazione di numerosi musei d’arte contemporanea all’aperto e parchi dedicati alla scultura, nella quasi totalità dei casi in affascinanti centri della cosiddetta “provincia”, più raramente all’interno di grandi centri metropolitani. Oltre alla componente, di assoluta importanza, tendente a far sì che queste iniziative assumano il carattere della permanenza, assistiamo comunque ad una moltiplicazione esponenziale di questo tipo di eventi, e ciò è comunque positivo. Sono ormai numerosi, in Italia, i comuni grandi e piccoli che propongono rassegne di “arte ambientale” dove, generalmente in aree verdi od all’interno di centri storici, gli artisti espongono sculture ed installazioni. La proposta di Adriano Villata e Giovanna Barbero di contribuire all’organizzazione di una rassegna di scultura contemporanea all’aperto mi ha subito trovato disponibile , questo per la serietà del progetto ma anche per la possibilità di intervenire su di una porzione di spazio cittadino a me assai cara. Infatti si tratta di Piazza Peyron, dove è sita la Fusion Art Gallery, di cui sono condirettore artistico e che fungerà da base logistica dell’evento e del Parco della Tesoriera, non molto distante. Entrambi questi siti sono simmetricamente distanti dal Borgo Vecchio Campidoglio, affascinante ed esclusiva porzione di spazio metropolitano: un vecchio borgo operaio di fine ‘800 caratterizzato da strade strette lastricate, da case basse dotate di cortili interni, da un ampio numero di botteghe artigianali e da un rapporto di comunanza tra i residenti tale da farne un “paese nella città”. All’interno del Borgo Vecchio e delle zone limitrofe dal 1995 dirigo il Museo d’Arte Urbana, il primo museo d’arte contemporanea all’aperto in fase di realizzazione, in Italia, all’interno di un grande centro metropolitano. La “Leggerezza della scultura” è un concetto che si presta a varie letture, tra cui indicare come l’avanguardia novecentesca abbia rivoluzionato il linguaggio di questa antica disciplina, svincolandola da rigidi monumentalismi e contribuendo a renderla familiare e leggibile al di fuori della retorica celebrativa e dei limiti di una fruizione legata al culto. La mostra si articola in due momenti distinti ma collegati. Nello splendido Parco della Tesoriera la collega Clizia Orlando coordinerà e presenterà un ampio ventaglio di autori, molti caratterizzati da trascorsi e da un presente di assoluto prestigio. Questi artisti sono perlopiù accomunati da una adesione al linguaggio dell’avanguardia del tutto personale, in molti casi tendente ad una originale rivisitazione dei postulati “classici”, all’impiego di materiali tradizionali come il bronzo od il marmo, oppure primari come le terre cotte, in uno stimolante connubio tra passato e presente. Tra gli invitati, di cui Clizia Orlando disquisirà nei particolari, si cita un maestro del segno come Riccardo Licata, in grado di esprimersi con pari intensità non solo con la pittura, ma anche con l’installazione ed il mosaico, una autrice di eccentrica originalità con i suoi calchi e le sue fantasiose composizioni dal teatrale impatto come Vannetta Cavallotti ed uno scultore tra i più apprezzati in Piemonte e non solo, Sergio Omedè, che riflette sulle contraddizioni e le inquietudini della contemporaneità adoperando un linguaggio scultoreo centrato sull’anatomia umana, riprodotta con uno stile degno del più raffinato dei Manieristi. Nel giardino di Piazza Peyron, fascinoso e riposto angolo della vecchia Torino, saranno installate, su tre ampie aiuole, omologo numero di installazioni prodotte da artisti tesi alla sperimentazione nell’uso di nuovi materiali ed alla riflessione sul ruolo che l’arte è in grado di detenere nella società globalixzata del nuovo millennio : si tratta di Silvano Costanzo & Walter Vallini, Luciano Gaglio, Vittorio Valente. La prima installazione è frutto della collaborazione tra due personalità come Silvano Costanzo, artista ma anche noto giornalista ed intellettuale torinese e Walter Vallini, architetto e designer. Titolo dell’installazione è “Alfabeto a barre”. Spunto della composizione è il linguaggio dei codici a barre e la sua invasiva diffusione su scala planetaria : si tratta dell’ unico idioma, frutto della simbiosi tra informatica e produzione seriale, ad essere universalmente compreso, anche se non dall’occhio umano ma da una sua protesi tecnologica come il lettore ottico, in grado di ricevere il messaggio e di tradurlo nel valore di scambio commerciale. È singolare notare, è questo non è certo l’unico caso, come le forme della post modernità siano spesso omologhe a quelle premoderne. Infatti quello del codice a barre è un tipico linguaggio segnico e come tale è simile alla forme alfabetiche della più remota antichità. Nell’installazione in Piazza Peyron due quadrati in materiale plastico di cm. 85 X 85 la cui disposizione a suolo può variare secondo ispirazione sono ricoperti ognuno da 16 parallelepipedi , 12 in ferro fluorescente e 4 in plexiglas trasparente luminoso, che simboleggiano l’aspirazione delle “barre” opache ed anonime a liberarsi dalla servitù imposta loro dalla macchina decriptatrice : la loro utopia è quella di rendersi fruibili allo sguardo e di emozionare il fruitore con la magia della luce. Luciano Gaglio disporrà a suolo una serie di strutture caratterizzanti la sua attuale cifra stilistica, dotata di un alto grado di riconoscibilità. Quelle di Gaglio sono costruzioni formali regolari, geometricamente simmetriche, ma si tratta di una razionalità “dolce”. Il rigore dell’angolo retto è stemperato dall’immissione di elementi decorativi e tonalità morbide. Le opere di Gaglio sono strutture tra loro collegate da perni e fili di acciaio, oggetti fintamente funzionali spesso rafforzati dall’immissione di elementi di luminosità che giocano con una certa dose di ironia sul territorio di confine tra il linguaggio dell’arte e quello dell’ architettura e del design, in una fase in cui l’arte pare volersi riprendere la porzione di territorio sottrattale da altre discipline nel corso del Novecento. Vittorio Valente è un noto sperimentatore nell’uso di innovativi materiali plastici e sintetici, particolarmente il silicone, che si adatta ad essere manipolato in mille modi e maniere assumendo le sembianze di una vera e propria “seconda pelle”. Negli ultimi anni l’artista ha concentrato la sua attenzione sulla tematica della manipolazione genetica : la sua attività parallela di analista chimico lo porta ad osservare quasi quotidianamente virus e cellule impazzite che attentano la nostra incolumità ad onta di una morfologia “piacevole”, decorativa, per certi aspetti artistica. Valente sottrae queste caratteristiche agli elementi microbiologici per divulgarcele, realizzando opere bidimensionali ed installazioni di grande originalità ed impatto visivo, assemblaggi spesso di dimensioni imponenti che si presentano tondeggianti e soffici al tatto per effetto della superficie siliconata e colorati a tinte vive e squillanti, omologhe al dato naturale ma caricate da un opportuno surplus decorativo.
Edoardo Di Mauro, aprile 2006.
20
maggio 2006
La leggerezza della scultura
Dal 20 maggio al 30 settembre 2006
arte contemporanea
presentazione
presentazione
Location
PARCO DELLA TESORIERA – EX SCUDERIE
Torino, Corso Francia, 192, (Torino)
Torino, Corso Francia, 192, (Torino)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 10 alle 21
Vernissage
20 Maggio 2006, ore 20-23
Autore
Curatore