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La Materia è il colore
I critici Paolo Levi e Virgilio Patarini in questo progetto curatoriale presentano la ricerca e la poetica di venti artisti, molti dei quali giovani ed emergenti, che si collocano nell’ambito di una pittura di spiccata matrice Informale
Comunicato stampa
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Facendo tesoro dell’eredità di Burri e Fautrier, ma non disdegnando contaminazioni e riferimenti al retaggio poverista di Calzolari, o al Color Field Painting americano, spesso indagando la forza e la capacità evocativa di materiali non pittorici, non sempre consueti, talvolta spiazzanti, utilizzati per ‘fare pittura’: dalla foglia d’oro al cemento, dalle spezie al legno, al ferro, a pezzi di vetro colorato, agli stracci, al bitume. Sempre con consapevole, ricercata raffinatezza di esecuzione tecnica, oltre che con grande forza ideativa e compositiva.
Quando la materia diventa colore (e viceversa)
(Dalla prefazione del catalogo)
Dimenticatevi l’olio su tela. O l’acrilico su tavola. O su carta.
Pur essendo quadri le opere selezionate per questo progetto editoriale ed espositivo, ciò che gli autori hanno utilizzato per comporre le loro opere è quasi sempre, soprattutto, altro. La tela o la tavola restano. Qualche volta solo il telaio. E qualche volta vengono usati anche i colori ad olio e gli acrilici, o i più classici pigmenti mischiati a qualche diluente. Ma quasi nessuna delle opere in oggetto può definirsi “olio su tela”, o “acrilico su tavola”.
Stoffa, legno, gesso, argilla, pietre, intonaco, ferro, carta, vetro, spezie: sono queste alcune delle “materie” di cui si compongono le opere di questa mostra. Riportate su tela, su tavola, o avvoltolate su telai oppure utilizzate per realizzare bassorilievi. È un tripudio di quello che in linguaggio tecnico si definirebbe “tecnica mista”. Anche se poi è talmente preponderante e “significante” la scelta dei materiali utilizzati che è impossibile usare questa generica dicitura convenzionale (“tecnica mista”) senza provare un moto profondo di ribellione e un’esigenza di precisione nella descrizione.
E allora precisiamo: (...) argilla o gesso mischiato a sassi, bende, pelle e pigmenti ricoprono le tele o le tavole della giovane svizzera Marie Esborrat e del salentino Raffaele Quida; impasti simili ad intonaco bianco grigio nero sono spatolati ad ampie campiture sulle tele per essere poi graffiati come da piccoli rastrelli dal comasco Maurizio Molteni che fa affiorare sottostanti vibrazioni cromatiche; (...) il milanese Carlo Ambrogio Crespi utilizza vecchi telai serigrafici che ricopre con impasti grumosi e monocromi su reticoli neri di catrame; la marchigiana Anna Maria Bracci utilizza piccole tessere irregolari di vetro colorato e brandelli di tela di juta; anche il toscano di adozione Giulio Greco utilizza la tela di juta, mentre Rosa Spina realizza dei ‘defillage’, reinterpretando l’arte della tessitura vera e propria (quella del telaio, della trama e dell’ordito)e il calabrese Fabrizio Trotta arriva al punto di utilizzare addirittura spezie come i chiodi di garofano per coprire la superficie delle sue tele. Fanno eccezione Stefano Accorsi, Alberto Besson e pochi altri che tuttavia utilizzano l’olio su tela con tecniche e soluzioni stilistiche tali da trasformare a loro volta il colore in materia inconsueta, spiazzante. E costituiscono, per così dire, il rovescio della medaglia. (...)
Eppure alla fine quello che vediamo sono quadri. Quadri dipinti più con materie e materiali vari che con colori, ma comunque quadri. Quadri informali, per la precisione. (Anche se, sempre per amor di precisione, quasi nessuno andrebbe definito “quadro”, ma più propriamente “bassorilievo”).
In tutto ciò è impossibile non scorgere due aspetti diversi, ma forse in qualche misura complementari: innanzitutto l’utilizzo sistematico di materie prime “naturali”; in secondo luogo il recupero sistematico del fecondo retaggio di grandi maestri degli anni cinquanta come il Burri dei sacchi e dei cretti, il Manzoni degli acrome, il Tapies dei ferri: si tratta in fondo del medesimo “approccio” che ora questi artisti contemporanei, a distanza di mezzo secolo, recuperano con intelligenza, coscienza critica e sapienza tecnica. Sapienza tecnica, oltre tutto, in tecniche per lo più di loro invenzione e comunque sempre in qualche modo “originali”. E spesso coscientemente “originarie”.
Oltre a ciò osserviamo come in tutti costoro prevalga una ricerca assoluta di essenzialità, sia nella scelta dei materiali (e nel rigore del loro utilizzo) che nella composizione e nell’utilizzo del colore. Non è un caso che affiorino così frequentemente disegni essenziali e forme talvolta vagamente archetipiche, che costituiscono poi la base armonica grazie alla quale la materia di cui è fatta l’opera può, per così dire, “cantare”. E questo contribuisce non poco a fare di questi quadri o sculture delle opere “originarie” oltre che “originali”.
Ecco, sì. È questo che fanno gli artisti radunati in questo progetto espositivo ed editoriale: come antichi sciamani con opere che sono al tempo stesso totem e piccoli templi e arcani incantesimi fanno “cantare” la materia.
I vetri e i brandelli di juta di Anna Maria Bracci cantano l’epopea di un arcaico mondo contadino. (...). I muri di Molteni, Quida ed Esborrat cantano un canto a due voci: sotto una coltre ossessiva, avvolgente come quella delle nostre città si sente la struggente melodia della natura soffocata. Le tele di Accorsi e Besson emanano luci ipnotiche, sono epifanie di un’anima sospesa. I reticoli di Crespi ci raccontano l’alienazione metropolitana. I legni e le stoffe di Giulio Greco e le tessiture di Rosa Spina eseguono ammalianti cantilene che girano in tondo, come danze d’incantesimo, o salgono a forza come gridi di lacerazione. E i quadri di Trotta non solo “cantano” canzoni del nostro quotidiano, ma alcuni di essi addirittura, letteralmente, “profumano”. E profumano di un mondo perduto. Ed altri ancora nascono per essere toccati, manipolati dal fruitore, che diviene così, letteralmente, “co-autore” dell’opera.
I lavori di Trotta, così espliciti e decisi nel muovere in questa direzione, ci aiutano a meglio comprendere ciò che anche gli altri artisti implicitamente sottendono: le opere di questa mostra non vanno solo guardate, ma anche e soprattutto toccate, annusate, scosse, fatte suonare, ascoltate… Insomma affrontate con tutti e cinque i sensi, vissute con tutti i sensi, in modo attivo, partecipe, poiché non sono solo opere d’arte, ma anche e forse soprattutto oggetti rituali, arredi sacri per un rito collettivo e catartico che ci faccia superare, attraversare, sciogliere i vincoli della pesantezza, dell’alienazione post-moderna, della routine quotidiana metropolitana, del “logorio della vita moderna”, per ascendere ad una dimensione più profondamente umana, ancestrale, trascendentale.
Virgilio Patarini
Quando la materia diventa colore (e viceversa)
(Dalla prefazione del catalogo)
Dimenticatevi l’olio su tela. O l’acrilico su tavola. O su carta.
Pur essendo quadri le opere selezionate per questo progetto editoriale ed espositivo, ciò che gli autori hanno utilizzato per comporre le loro opere è quasi sempre, soprattutto, altro. La tela o la tavola restano. Qualche volta solo il telaio. E qualche volta vengono usati anche i colori ad olio e gli acrilici, o i più classici pigmenti mischiati a qualche diluente. Ma quasi nessuna delle opere in oggetto può definirsi “olio su tela”, o “acrilico su tavola”.
Stoffa, legno, gesso, argilla, pietre, intonaco, ferro, carta, vetro, spezie: sono queste alcune delle “materie” di cui si compongono le opere di questa mostra. Riportate su tela, su tavola, o avvoltolate su telai oppure utilizzate per realizzare bassorilievi. È un tripudio di quello che in linguaggio tecnico si definirebbe “tecnica mista”. Anche se poi è talmente preponderante e “significante” la scelta dei materiali utilizzati che è impossibile usare questa generica dicitura convenzionale (“tecnica mista”) senza provare un moto profondo di ribellione e un’esigenza di precisione nella descrizione.
E allora precisiamo: (...) argilla o gesso mischiato a sassi, bende, pelle e pigmenti ricoprono le tele o le tavole della giovane svizzera Marie Esborrat e del salentino Raffaele Quida; impasti simili ad intonaco bianco grigio nero sono spatolati ad ampie campiture sulle tele per essere poi graffiati come da piccoli rastrelli dal comasco Maurizio Molteni che fa affiorare sottostanti vibrazioni cromatiche; (...) il milanese Carlo Ambrogio Crespi utilizza vecchi telai serigrafici che ricopre con impasti grumosi e monocromi su reticoli neri di catrame; la marchigiana Anna Maria Bracci utilizza piccole tessere irregolari di vetro colorato e brandelli di tela di juta; anche il toscano di adozione Giulio Greco utilizza la tela di juta, mentre Rosa Spina realizza dei ‘defillage’, reinterpretando l’arte della tessitura vera e propria (quella del telaio, della trama e dell’ordito)e il calabrese Fabrizio Trotta arriva al punto di utilizzare addirittura spezie come i chiodi di garofano per coprire la superficie delle sue tele. Fanno eccezione Stefano Accorsi, Alberto Besson e pochi altri che tuttavia utilizzano l’olio su tela con tecniche e soluzioni stilistiche tali da trasformare a loro volta il colore in materia inconsueta, spiazzante. E costituiscono, per così dire, il rovescio della medaglia. (...)
Eppure alla fine quello che vediamo sono quadri. Quadri dipinti più con materie e materiali vari che con colori, ma comunque quadri. Quadri informali, per la precisione. (Anche se, sempre per amor di precisione, quasi nessuno andrebbe definito “quadro”, ma più propriamente “bassorilievo”).
In tutto ciò è impossibile non scorgere due aspetti diversi, ma forse in qualche misura complementari: innanzitutto l’utilizzo sistematico di materie prime “naturali”; in secondo luogo il recupero sistematico del fecondo retaggio di grandi maestri degli anni cinquanta come il Burri dei sacchi e dei cretti, il Manzoni degli acrome, il Tapies dei ferri: si tratta in fondo del medesimo “approccio” che ora questi artisti contemporanei, a distanza di mezzo secolo, recuperano con intelligenza, coscienza critica e sapienza tecnica. Sapienza tecnica, oltre tutto, in tecniche per lo più di loro invenzione e comunque sempre in qualche modo “originali”. E spesso coscientemente “originarie”.
Oltre a ciò osserviamo come in tutti costoro prevalga una ricerca assoluta di essenzialità, sia nella scelta dei materiali (e nel rigore del loro utilizzo) che nella composizione e nell’utilizzo del colore. Non è un caso che affiorino così frequentemente disegni essenziali e forme talvolta vagamente archetipiche, che costituiscono poi la base armonica grazie alla quale la materia di cui è fatta l’opera può, per così dire, “cantare”. E questo contribuisce non poco a fare di questi quadri o sculture delle opere “originarie” oltre che “originali”.
Ecco, sì. È questo che fanno gli artisti radunati in questo progetto espositivo ed editoriale: come antichi sciamani con opere che sono al tempo stesso totem e piccoli templi e arcani incantesimi fanno “cantare” la materia.
I vetri e i brandelli di juta di Anna Maria Bracci cantano l’epopea di un arcaico mondo contadino. (...). I muri di Molteni, Quida ed Esborrat cantano un canto a due voci: sotto una coltre ossessiva, avvolgente come quella delle nostre città si sente la struggente melodia della natura soffocata. Le tele di Accorsi e Besson emanano luci ipnotiche, sono epifanie di un’anima sospesa. I reticoli di Crespi ci raccontano l’alienazione metropolitana. I legni e le stoffe di Giulio Greco e le tessiture di Rosa Spina eseguono ammalianti cantilene che girano in tondo, come danze d’incantesimo, o salgono a forza come gridi di lacerazione. E i quadri di Trotta non solo “cantano” canzoni del nostro quotidiano, ma alcuni di essi addirittura, letteralmente, “profumano”. E profumano di un mondo perduto. Ed altri ancora nascono per essere toccati, manipolati dal fruitore, che diviene così, letteralmente, “co-autore” dell’opera.
I lavori di Trotta, così espliciti e decisi nel muovere in questa direzione, ci aiutano a meglio comprendere ciò che anche gli altri artisti implicitamente sottendono: le opere di questa mostra non vanno solo guardate, ma anche e soprattutto toccate, annusate, scosse, fatte suonare, ascoltate… Insomma affrontate con tutti e cinque i sensi, vissute con tutti i sensi, in modo attivo, partecipe, poiché non sono solo opere d’arte, ma anche e forse soprattutto oggetti rituali, arredi sacri per un rito collettivo e catartico che ci faccia superare, attraversare, sciogliere i vincoli della pesantezza, dell’alienazione post-moderna, della routine quotidiana metropolitana, del “logorio della vita moderna”, per ascendere ad una dimensione più profondamente umana, ancestrale, trascendentale.
Virgilio Patarini
05
maggio 2010
La Materia è il colore
Dal 05 al 30 maggio 2010
arte contemporanea
Location
ATELIER CHAGALL
Milano, Alzaia Naviglio Grande, 4, (Milano)
Milano, Alzaia Naviglio Grande, 4, (Milano)
Orario di apertura
Da mercoledì alla domenica, ore 15-19
Vernissage
5 Maggio 2010, Ore 18.30
Autore
Curatore