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La materia è il colore
Componendosi di opere che non chiedono solo di essere guardate, ma anche annusate, scosse, toccate ed ascoltate; la mostra dedica l’attenzione a nove artisti la cui ricerca spinge letteralmente la materia a “cantare” la propria essenza, permettendole di raccontarsi a tutti i nostri sensi.
Comunicato stampa
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Dimenticatevi l’olio su tela. O l’acrilico su tavola. O su carta.
Pur essendo numerosissimi i quadri selezionati per questa mostra, ciò che gli autori hanno utilizzato per comporre le loro opere è quasi sempre, soprattutto, altro. La tela o la tavola restano. Qualche volta solo il telaio. E qualche volta vengono usati anche i colori ad olio e gli acrilici, o i più classici pigmenti mischiati a qualche diluente. Ma certo nessuna delle opere in oggetto può definirsi “olio su tela”, o “acrilico su tavola”.
Stoffa, legno, gesso, argilla, pietre, intonaco, ferro, carta, spezie, foglie: sono queste alcune delle “materie” di cui si compongono le opere di questa mostra. Riportate su tela, su tavola, o avvoltolate su telai oppure utilizzate per innalzare totem o steli. È un tripudio di quello che in linguaggio tecnico si definirebbe “tecnica mista”. Anche se poi è talmente preponderante e “significante” la scelta dei materiali utilizzati che è impossibile usare questa generica dicitura convenzionale (“tecnica mista”) senza provare un moto profondo di ribellione e un’esigenza di precisione nella descrizione.
E allora precisiamo: le opere del giovane milanese Marco Cressotti sono strisce di stoffa su telai di legno; quelle del più maturo napoletano (trapiantato a Pordenone) Carlo Fontanella sono fatte di legno assemblato e ferro (ma anche gesso o carta o cemento) a formare bassorilievi o steli; argilla o gesso mischiato a sassi, bende e pigmenti ricoprono le tele o le tavole della giovane svizzera Marie Esborrat; impasti simili ad intonaco bianco grigio nero sono spatolati ad ampie campiture sulle tele dal torinese Marco Gallafrio o vengono graffiati come da piccoli rastrelli dal comasco Maurizio Molteni che fa affiorare sottostanti vibrazioni cromatiche; tavole di legno grezzo dipinte o parzialmente ricoperte di juta danno vita alle steli del milanese Bruno Golin; lastre di ferro sagomato e arrugginito alle sculture-silhouettes del siciliano Basilio Losiggio; mentre il ligure Danilo Viviani e il pugliese Fabrizio Trotta, entrambi poco più che trentenni, arrivano al punto di utilizzare rispettivamente foglie mischiate a resine o addirittura spezie come i chiodi di garofano per comporre le loro tele.
Eppure alla fine quello che vediamo sono quadri e sculture. Quadri dipinti più con materie e materiali vari che con colori, ma comunque quadri. Quadri informali, per la precisione. (Anche se, sempre per amor di precisione, quasi nessuno andrebbe definito “quadro”, ma più propriamente “bassorilievo”).
Anche le sculture sono anomale: nate più da un lavoro di assemblaggio o tutt’al più di sagomatura, piuttosto che dal classico plasmare o scolpire.
In tutto ciò è impossibile non scorgere due aspetti diversi, ma forse in qualche misura complementari: innanzitutto l’utilizzo sistematico di materie prime “naturali”; in secondo luogo il recupero sistematico del fecondo retaggio di grandi maestri degli anni cinquanta come il Burri dei sacchi e dei cretti, il Manzoni degli acrome, il Tapies dei ferri: si tratta in fondo del medesimo “approccio” che ora questi artisti contemporanei, a distanza di mezzo secolo, recuperano con intelligenza, coscienza critica e sapienza tecnica. Sapienza tecnica, oltre tutto, in tecniche per lo più di loro invenzione e comunque sempre in qualche modo “originali”. E spesso coscientemente “originarie”.
Oltre a ciò osserviamo come in tutti costoro prevalga una ricerca assoluta di essenzialità, sia nella scelta dei materiali (e nel rigore del loro utilizzo) che nella composizione e nell’utilizzo del colore. Non è un caso che affiorino così frequentemente disegni essenziali e forme talvolta vagamente archetipiche, che costituiscono poi la base armonica grazie alla quale la materia di cui è fatta l’opera può, per così dire, “cantare”. E questo contribuisce non poco a fare di questi quadri o sculture delle opere “originarie” oltre che “originali”.
Ecco, sì. È questo che fanno i nove artisti radunati in questa grande mostra: come antichi sciamani con opere che sono al tempo stesso totem e piccoli templi e arcani incantesimi fanno “cantare” la materia.
I legni e i brandelli di juta di Bruno Golin cantano l’epopea di un arcaico mondo contadino. Le lingue di stoffa di Marco Cressotti frusciando e intrecciandosi sibilano giocose storie metropolitane. I tappeti di foglie di Danilo Viviani mormorano filastrocche e favole di boschi incantati. I ferri di Losiggio si stagliano semplici e ieratici come piccoli idoli di antiche civiltà con la bocca dischiusa ad un grido muto in una lingua ignota. I muri di Gallafrio, Molteni ed Esborrat cantano un canto a due voci: sotto una coltre ossessiva, avvolgente come quella delle nostre città si sente la struggente melodia della natura soffocata. I legni e i ferri e i gessi di Fontanella eseguono ammalianti cantilene che girano in tondo, a spirale, come danze d’incantesimo, o salgono di forza come gridi di lacerazione. E i quadri di Trotta non solo “cantano” pezzi (di chitarra) del nostro quotidiano, ma alcuni di essi addirittura, letteralmente, “profumano”. E profumano di un mondo perduto. Ed altri ancora nascono per essere toccati, manipolati dal fruitore, che diviene così, letteralmente, “co-autore” dell’opera.
I lavori di Trotta, così espliciti e decisi nel muovere in questa direzione, ci aiutano a meglio comprendere ciò che anche gli altri artisti implicitamente sottendono: le opere di questa mostra non vanno solo guardate, ma anche e soprattutto toccate, annusate, scosse, fatte suonare, ascoltate… Insomma affrontate con tutti e cinque i sensi, vissute con tutti i sensi, in modo attivo, partecipe, poiché non sono solo opere d’arte, ma anche e forse soprattutto oggetti rituali, arredi sacri per un rito collettivo e catartico che ci faccia superare, attraversare, sciogliere i vincoli della pesantezza, dell’alienazione post-moderna, della routine quotidiana metropolitana, del “logorio della vita moderna”, per ascendere ad una dimensione più profondamente umana, ancestrale, trascendentale.
Virgilio Patarini
Pur essendo numerosissimi i quadri selezionati per questa mostra, ciò che gli autori hanno utilizzato per comporre le loro opere è quasi sempre, soprattutto, altro. La tela o la tavola restano. Qualche volta solo il telaio. E qualche volta vengono usati anche i colori ad olio e gli acrilici, o i più classici pigmenti mischiati a qualche diluente. Ma certo nessuna delle opere in oggetto può definirsi “olio su tela”, o “acrilico su tavola”.
Stoffa, legno, gesso, argilla, pietre, intonaco, ferro, carta, spezie, foglie: sono queste alcune delle “materie” di cui si compongono le opere di questa mostra. Riportate su tela, su tavola, o avvoltolate su telai oppure utilizzate per innalzare totem o steli. È un tripudio di quello che in linguaggio tecnico si definirebbe “tecnica mista”. Anche se poi è talmente preponderante e “significante” la scelta dei materiali utilizzati che è impossibile usare questa generica dicitura convenzionale (“tecnica mista”) senza provare un moto profondo di ribellione e un’esigenza di precisione nella descrizione.
E allora precisiamo: le opere del giovane milanese Marco Cressotti sono strisce di stoffa su telai di legno; quelle del più maturo napoletano (trapiantato a Pordenone) Carlo Fontanella sono fatte di legno assemblato e ferro (ma anche gesso o carta o cemento) a formare bassorilievi o steli; argilla o gesso mischiato a sassi, bende e pigmenti ricoprono le tele o le tavole della giovane svizzera Marie Esborrat; impasti simili ad intonaco bianco grigio nero sono spatolati ad ampie campiture sulle tele dal torinese Marco Gallafrio o vengono graffiati come da piccoli rastrelli dal comasco Maurizio Molteni che fa affiorare sottostanti vibrazioni cromatiche; tavole di legno grezzo dipinte o parzialmente ricoperte di juta danno vita alle steli del milanese Bruno Golin; lastre di ferro sagomato e arrugginito alle sculture-silhouettes del siciliano Basilio Losiggio; mentre il ligure Danilo Viviani e il pugliese Fabrizio Trotta, entrambi poco più che trentenni, arrivano al punto di utilizzare rispettivamente foglie mischiate a resine o addirittura spezie come i chiodi di garofano per comporre le loro tele.
Eppure alla fine quello che vediamo sono quadri e sculture. Quadri dipinti più con materie e materiali vari che con colori, ma comunque quadri. Quadri informali, per la precisione. (Anche se, sempre per amor di precisione, quasi nessuno andrebbe definito “quadro”, ma più propriamente “bassorilievo”).
Anche le sculture sono anomale: nate più da un lavoro di assemblaggio o tutt’al più di sagomatura, piuttosto che dal classico plasmare o scolpire.
In tutto ciò è impossibile non scorgere due aspetti diversi, ma forse in qualche misura complementari: innanzitutto l’utilizzo sistematico di materie prime “naturali”; in secondo luogo il recupero sistematico del fecondo retaggio di grandi maestri degli anni cinquanta come il Burri dei sacchi e dei cretti, il Manzoni degli acrome, il Tapies dei ferri: si tratta in fondo del medesimo “approccio” che ora questi artisti contemporanei, a distanza di mezzo secolo, recuperano con intelligenza, coscienza critica e sapienza tecnica. Sapienza tecnica, oltre tutto, in tecniche per lo più di loro invenzione e comunque sempre in qualche modo “originali”. E spesso coscientemente “originarie”.
Oltre a ciò osserviamo come in tutti costoro prevalga una ricerca assoluta di essenzialità, sia nella scelta dei materiali (e nel rigore del loro utilizzo) che nella composizione e nell’utilizzo del colore. Non è un caso che affiorino così frequentemente disegni essenziali e forme talvolta vagamente archetipiche, che costituiscono poi la base armonica grazie alla quale la materia di cui è fatta l’opera può, per così dire, “cantare”. E questo contribuisce non poco a fare di questi quadri o sculture delle opere “originarie” oltre che “originali”.
Ecco, sì. È questo che fanno i nove artisti radunati in questa grande mostra: come antichi sciamani con opere che sono al tempo stesso totem e piccoli templi e arcani incantesimi fanno “cantare” la materia.
I legni e i brandelli di juta di Bruno Golin cantano l’epopea di un arcaico mondo contadino. Le lingue di stoffa di Marco Cressotti frusciando e intrecciandosi sibilano giocose storie metropolitane. I tappeti di foglie di Danilo Viviani mormorano filastrocche e favole di boschi incantati. I ferri di Losiggio si stagliano semplici e ieratici come piccoli idoli di antiche civiltà con la bocca dischiusa ad un grido muto in una lingua ignota. I muri di Gallafrio, Molteni ed Esborrat cantano un canto a due voci: sotto una coltre ossessiva, avvolgente come quella delle nostre città si sente la struggente melodia della natura soffocata. I legni e i ferri e i gessi di Fontanella eseguono ammalianti cantilene che girano in tondo, a spirale, come danze d’incantesimo, o salgono di forza come gridi di lacerazione. E i quadri di Trotta non solo “cantano” pezzi (di chitarra) del nostro quotidiano, ma alcuni di essi addirittura, letteralmente, “profumano”. E profumano di un mondo perduto. Ed altri ancora nascono per essere toccati, manipolati dal fruitore, che diviene così, letteralmente, “co-autore” dell’opera.
I lavori di Trotta, così espliciti e decisi nel muovere in questa direzione, ci aiutano a meglio comprendere ciò che anche gli altri artisti implicitamente sottendono: le opere di questa mostra non vanno solo guardate, ma anche e soprattutto toccate, annusate, scosse, fatte suonare, ascoltate… Insomma affrontate con tutti e cinque i sensi, vissute con tutti i sensi, in modo attivo, partecipe, poiché non sono solo opere d’arte, ma anche e forse soprattutto oggetti rituali, arredi sacri per un rito collettivo e catartico che ci faccia superare, attraversare, sciogliere i vincoli della pesantezza, dell’alienazione post-moderna, della routine quotidiana metropolitana, del “logorio della vita moderna”, per ascendere ad una dimensione più profondamente umana, ancestrale, trascendentale.
Virgilio Patarini
29
aprile 2009
La materia è il colore
Dal 29 aprile al 17 maggio 2009
arte contemporanea
Location
ZAMENHOF
Milano, Via Ludovico Lazzaro Zamenhof, 11, (Milano)
Milano, Via Ludovico Lazzaro Zamenhof, 11, (Milano)
Orario di apertura
da mercoledì a domenica ore 15-19
Vernissage
29 Aprile 2009, ore 18.30
Autore
Curatore