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L’Africa delle Meraviglie. Arti Africane nelle Collezioni Italiane
Un’occasione anche per cogliere il ruolo che gli oggetti svolgono nel mettere in contatto persone e società, in Africa ed altrove. Gli oggetti infatti si spostano e migrano da un luogo all’altro, hanno una loro vita e raccontano delle storie. Sono causa di incontri ma anche di scontri. Qualche volta approdano nelle collezioni italiane. La mostra offre l’opportunità di partecipare all’avventura estetica ed esistenziale dei collezionisti, condividendone la curiosità e la passione e facendone una spia dei rapporti che l’Occidente e l’Italia in particolare hanno avuto con l’Africa.
Comunicato stampa
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L'Africa delle Meraviglie
Arti Africane
nelle Collezioni Italiane
31 dicembre 2010 – 5 giugno 2011
Palazzo Ducale,
Castello D’Albertis
Curatori:
Ivan Bargna, Università di Milano La Bicocca
Giovanna Parodi da Passano, Università di Genova
con la collaborazione di Marc Augé, EHESS
Comitato scientifico consultivo:
Jean-Loup Amselle, EHESS, Paris
Monica Blackmun Visonà, University of Kentucky
Alain Godonou, Unesco
Jean-Pierre Olivier de Sardan, EHESS, Marseille
Barbara Plankensteiner, Museum für Völkerkunde, Wien
Sally Price, già Johns Hopkins University e Stanford
Il 2010 è stato l’anno dell’Africa. Si sono celebrati i cinquant’anni della decolonizzazione (anche se pochi se ne sono accorti) e si sono tenuti i mondiali di calcio in Sudafrica. A Genova, chiude quest’anno “africano” e aprirà quello nuovo una grande esposizione che cercherà di offrire un’altra visione dell’Africa attraverso le arti del continente.
La mostra riunisce un consistente numero di importanti opere d’arte africana tradizionale presenti nelle collezioni private italiane, molte delle quali mai esposte prima.
Maschere, figure d’altare, “feticci”, pali funerari, oggetti rituali e d’uso quotidiano, tutte opere dal grande valore estetico capaci di portarci dritti al cuore delle culture dell’Africa subsahariana, dei loro costumi e modi di vita: dal Mali al Congo, dalla Costa d’Avorio al Camerun.
Un’occasione per scoprire un patrimonio spesso misconosciuto, a lungo e ingiustamente posto sotto l’etichetta di “arte primitiva”. E questo soprattutto nel nostro Paese dove le arti visive africane tradizionali hanno acquisito una propria riconoscibilità e un mercato solo in tempi relativamente recenti.
Un’occasione anche per cogliere il ruolo che gli oggetti svolgono nel mettere in contatto persone e società, in Africa ed altrove. Gli oggetti infatti si spostano e migrano da un luogo all’altro, hanno una loro vita e raccontano delle storie. Sono causa di incontri ma anche di scontri. Qualche volta approdano nelle collezioni italiane.
La mostra offre l’opportunità di partecipare all’avventura estetica ed esistenziale dei collezionisti, condividendone la curiosità e la passione e facendone una spia dei rapporti che l’Occidente e l’Italia in particolare hanno avuto con l’Africa.
Collezionare infatti è molto più che raccogliere oggetti, è un modo di dar forma al mondo, di gettare uno sguardo sull’Altro, di costruire un microcosmo fra reale e immaginario che ci parla tanto degli altri come di noi: se le arti sono africane, le collezioni sono italiane. In mostra ci saranno sia le une che le altre. Succede così che nel parlare dell’Africa, parliamo anche di noi, di un certo modo di vedere le cose e il mondo. Nei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia può essere un altro modo, imprevisto e imprevedibile, di guardarsi allo specchio.
Volgere lo sguardo all’Africa attraverso l’arte non è la stessa cosa che guardarla attraverso la lente delle carestie, delle guerre tribali e delle emergenze umanitarie: vi appare tutta una ricchezza culturale e umana che nelle condizioni estreme, deculturalizzate e deumanizzate dei campi profughi (quel che dell’Africa appare di solito in TV) non è dato vedere. Non è detto però che si tratti di uno sguardo meno intriso di pregiudizi: se quel che si cerca è un piacere estetico, si tende a rimuovere tutto quello che di brutto e di male, o più semplicemente di fastidioso, lo può sporcare.
La stessa valorizzazione che le avanguardie artistiche del primo Novecento (Derain, Matisse, Picasso ecc.) hanno fatto dell’“arte negra”, ha portato le arti africane al centro dell’attenzione, inchiodandole però a un periodo molto circoscritto della storia occidentale: nelle maschere africane ancora oggi continuiamo a cercare i volti delle Demoiselles d’Avignon.
Tuttavia, proprio perché l’arte contemporanea continua a modellare la nostra percezione visiva, i curatori, Ivan Bargna e Giovanna Parodi da Passano, antropologi e specialisti d’arte africana, hanno voluto coinvolgere nella progettazione della mostra l’artista Stefano Arienti: non per riproporre i consueti e un po’ scontati rimandi fra modernismo e primitivismo ma per capire come certe pratiche artistiche contemporanee, messe in gioco nell’allestimento della mostra, possano aiutarci ad evocare, in termini sensibili e concreti, esperienze che sono
diverse ma forse meno lontane di quel che pensiamo.
La mostra non si limita allora a proporre delle opere belle fuori contesto ma neppure vuole inondare il visitatore di informazioni etnografiche, presentando gli oggetti come documenti delle culture che li hanno creati. Al centro saranno gli oggetti e loro storie, il rapporto che hanno avuto e hanno con le persone, tanto qui quanto in Africa. Da questo punto di vista la pratica del “collezionare”, di raccogliere cioè degli oggetti conservandoli in uno spazio apposito, talvolta per esporli alla vista, che si tratti di un salotto milanese o di un santuario del Benin, diventa il filo conduttore lungo il quale indagare le somiglianze e differenze fra le culture.
La mostra lascia quindi spazio anche a più sguardi, a modi diversi di presentare, mettere in scena, catalogare mentalmente e vivere gli oggetti: quello dei collezionisti con le loro inclinazioni e l’impronta autobiografica delle loro raccolte, ma anche con un gusto socialmente definito; quello degli antropologi che tentano di restituire o di evocare l’esperienza estetica degli Africani che queste opere le hanno prodotte; quello degli Africani stessi.
Il tutto in maniera immediatamente fruibile da qualsiasi visitatore consentendo letture e interpretazioni a più livelli.
La mostra è articolata in due parti autonome ma connesse con sede a Palazzo Ducale e al Museo delle Culture di Castello d’Albertis.
La sezione di Palazzo Ducale presenta le opere in maniera piuttosto “classica”, riprendendo i modi attraverso cui gli oggetti africani trovano posto nelle nostre case e nelle gallerie così come nel nostro immaginario (come quando parliamo di “maschere” e “feticci”) per poi smontarli: il visitatore sarà così condotto attraverso la dinamica stessa del percorso espositivo (e cioè senza pesanti apparati didattici) a interrogarsi sullo sguardo che porta sugli oggetti e sull’esperienza che sta facendo.
La sezione della mostra presente al Castello D’Albertis, esso stesso casa di un collezionista, proporrà invece, attraverso installazioni apposite, un percorso che avrà come tema l’”autenticità”, tanto quella degli oggetti che delle culture da cui provengono, per riflettere intorno ai fantasmi della “purezza” e della “contaminazione” che animano i nostri desideri e paure.
PERCORSO DELLA MOSTRA
L’Africa delle meraviglie
Arti africane nelle collezioni italiane
Curata da Ivan Bargna e Giovanna Parodi da Passano con la collaborazione di Marc Augé, la mostra, che ha sede principale a Palazzo Ducale di Genova e una consistente sezione al Castello d’Albertis, raccoglie un insieme notevole, per quantità (più di 300 pezzi) e qualità estetica, di opere di arte africana tradizionale (prevalentemente maschere e statuette lignee). Opere in gran parte inedite, provenienti da importanti collezioni private italiane.
Il progetto espositivo nasce dalla collaborazione fra gli antropologi e l’artista Stefano Arienti.
Costruito su più scenari che si intersecano - quello della presenza forte degli oggetti, quello delle loro molteplici esistenze, quello dei fantasmi e desideri che suscitano in noi maschere e feticci - l’allestimento pone l’accento sulla materialità e la tattilità degli oggetti d’arte africani, creando un’ambientazione di massima immediatezza e rinunciando dove possibile a vetrine o apparati che diminuiscono l’intimità con le opere.
Bianco rosso e nero, la triade cromatica che caratterizza l’arte africana tradizionale, sono i colori che ricorrono nell’allestimento fin dall’inizio, utilizzando l’accostamento dei muri bianchi dello spazio espositivo con la presenza di opere dello stesso Arienti, tappeti tinti di rosso o di nero che rimangono comunque sempre separati dalle opere africane. Mentre libri manipolati, piume, ombre…introducono interferenze ed evocazioni che tessono una complessa serie di rapporti fra le opere, i loro doppi, le nostre ossessioni, aiutando a creare i riferimenti utili a classi di oggetti specifici.
Palazzo Ducale
Nella prima grande sala del Sottoporticato di Palazzo Ducale, pensata dai curatori come la navata centrale di una cattedrale, trovano posto e respiro - su una vasta e nitida pedana bianca che occupa tutto lo spazio tra le austere coppie di pilastri medioevali di pietra scura - settantatre opere catturanti, raggruppate per aree stilistico-culturali.
In corrispondenza di quattro nuclei di collezioni significative, alcuni elementi espositivi e video mettono il visitatore in relazione con la dimensione privata del collezionismo e con l’attuale vita degli oggetti esposti.
A chiusura e sfondo di questo primo ambiente, s’innalza una suggestiva installazione di sculture-scale dei Dogon, doppiate dalle loro ombre.
Nella seconda sala s’incontra uno dei momenti più emozionanti dell’intero percorso: il settore dei feticci, oggetti portatori di forze magiche ambivalenti percepibili anche dal visitatore non specificamente “acculturato” . In effetti, i feticci africani abitano il nostro immaginario e invadono lo spazio, come se l’uso tribale tradizionale dell’oggetto (che diventa feticcio se ci si sacrifica sopra) lasciasse una traccia indelebile di misteriosa potenza racchiusa. Trentadue sculture polimateriche schierate in una vetrina centrale, occupata in parte e circondata da piume bianche che evocano residui di sacrifici, richiamati da un video che offre immagini di inquietante bellezza dal forte impatto emotivo.
Nella terza sala, più grande, a quattro pilastri, l’allestimento gioca sulle potenzialità espressive del seriale, del multiforme, del multicolore: a tal fine 49 varietà di maschere sono affiancate a una importante collezione di colorate bandiere delle tradizionali compagnie paramilitari Asafo dei Fante del Ghana. Qui l’ambientazione allude al mercato dell’arte e al mondo dei collezionisti attraverso la scelta di grandi scaffalature-espositori che ospitano in modo apparentemente casuale e provvisorio le opere. Con effetti spettacolari, una parte delle bandiere è sospesa al soffitto seguendo l’andamento delle volte. Due i video in questa stanza: da un lato il back-stage e “l’uscita” delle famose maschere del Gelede (Patrimonio immateriale dell’Umanità UNESCO), il culto delle “madri-streghe” fra gli Yoruba, dall’altro un recente e spiazzante filmato dal Camerun: maschere attuali in un mondo globalizzato.
Nella quarta sala protagoniste sono le Bundu, insondabili maschere-elmo della società segreta femminile Sande provenienti dalla Liberia. Le loro nere sagome ci appaiono come sospese in uno spazio suggestivo. Proiezioni di ombre sulle pareti aumentano l’effetto straniante che suscitano in noi le maschere dell’Africa nera, evocando anche in questo caso le nostre proiezioni e i nostri fantasmi.
Chiude la sezione di Palazzo Ducale una quinta sala che ospita tre video. Girati appositamente per la mostra a Bandjoun negli altopiani camerunesi, documentano altrettante tipologie del collezionare in Africa: quella di un capo tradizionale; quella del direttore del museo che raccoglie il tesoro della chefferie ed è stato recentemente rinnovato guardando a modelli internazionali; e infine quella di una persona facoltosa, uomo politico e professore universitario, che ci accompagna nella sua villa mostrandoci gli oggetti raccolti in una vita.
Museo delle Culture di Castello d’Albertis
La sezione della mostra presente al Castello d’Albertis, esso stesso già dimora di un eclettico collezionista e oggi sede del Museo delle Culture del Mondo, propone un percorso che ha come tema “l’autenticità”, tanto quella degli oggetti che delle culture da cui provengono, per riflettere intorno ai fantasmi della “purezza” e della “contaminazione” che animano i nostri desideri e paure.
Una cinquantina di opere di rilevante forza estetica sono esposte nelle vetrine della grande prima stanza adibita alle collezioni temporanee. Gli oggetti sono accompagnati anche qui da un gioco di ombre, costruite per rendere l’idea della pluralità degli sguardi.
Il secondo ambiente del percorso è dominato da un’installazione a file concentriche composta da una quarantina di Ibeji Yoruba, statuette lignee che rappresentano bambini gemelli. Le piccole sculture vengono trattate come veri bambini, diventando anche oggetto di culto, essendo i gemelli considerati canali privilegiati con il mondo invisibile. Collocata al centro dell’installazione, una irradiante statua di maternità Yoruba ci parla del ruolo fondamentalmente generativo della figura femminile tradizionale, mentre su un video nella vetrina di fronte, a introdurre la dimensione di sorprendenti modernità parallele propria della mondializzazione, passano le immagini incalzanti del trailer del film di un visionario regista nigeriano girato nel più trash stile di “Nollywood”, in cui il protagonista, in un crescendo parossistico di flash di magia nera, finisce per lanciare violentemente una statuetta del tipo Ibeji.
Va infine aggiunto che lungo il percorso della collezione permanente del Castello d’Albertis sono inseriti una decina di oggetti della mostra, rappresentativi dell’inventività di forme proprie delle estetiche africane, posizionati intenzionalmente come “intrusi” nelle stanze del Castello dai curatori e dall’artista per creare cortocircuiti e interferenze…
Arti Africane
nelle Collezioni Italiane
31 dicembre 2010 – 5 giugno 2011
Palazzo Ducale,
Castello D’Albertis
Curatori:
Ivan Bargna, Università di Milano La Bicocca
Giovanna Parodi da Passano, Università di Genova
con la collaborazione di Marc Augé, EHESS
Comitato scientifico consultivo:
Jean-Loup Amselle, EHESS, Paris
Monica Blackmun Visonà, University of Kentucky
Alain Godonou, Unesco
Jean-Pierre Olivier de Sardan, EHESS, Marseille
Barbara Plankensteiner, Museum für Völkerkunde, Wien
Sally Price, già Johns Hopkins University e Stanford
Il 2010 è stato l’anno dell’Africa. Si sono celebrati i cinquant’anni della decolonizzazione (anche se pochi se ne sono accorti) e si sono tenuti i mondiali di calcio in Sudafrica. A Genova, chiude quest’anno “africano” e aprirà quello nuovo una grande esposizione che cercherà di offrire un’altra visione dell’Africa attraverso le arti del continente.
La mostra riunisce un consistente numero di importanti opere d’arte africana tradizionale presenti nelle collezioni private italiane, molte delle quali mai esposte prima.
Maschere, figure d’altare, “feticci”, pali funerari, oggetti rituali e d’uso quotidiano, tutte opere dal grande valore estetico capaci di portarci dritti al cuore delle culture dell’Africa subsahariana, dei loro costumi e modi di vita: dal Mali al Congo, dalla Costa d’Avorio al Camerun.
Un’occasione per scoprire un patrimonio spesso misconosciuto, a lungo e ingiustamente posto sotto l’etichetta di “arte primitiva”. E questo soprattutto nel nostro Paese dove le arti visive africane tradizionali hanno acquisito una propria riconoscibilità e un mercato solo in tempi relativamente recenti.
Un’occasione anche per cogliere il ruolo che gli oggetti svolgono nel mettere in contatto persone e società, in Africa ed altrove. Gli oggetti infatti si spostano e migrano da un luogo all’altro, hanno una loro vita e raccontano delle storie. Sono causa di incontri ma anche di scontri. Qualche volta approdano nelle collezioni italiane.
La mostra offre l’opportunità di partecipare all’avventura estetica ed esistenziale dei collezionisti, condividendone la curiosità e la passione e facendone una spia dei rapporti che l’Occidente e l’Italia in particolare hanno avuto con l’Africa.
Collezionare infatti è molto più che raccogliere oggetti, è un modo di dar forma al mondo, di gettare uno sguardo sull’Altro, di costruire un microcosmo fra reale e immaginario che ci parla tanto degli altri come di noi: se le arti sono africane, le collezioni sono italiane. In mostra ci saranno sia le une che le altre. Succede così che nel parlare dell’Africa, parliamo anche di noi, di un certo modo di vedere le cose e il mondo. Nei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia può essere un altro modo, imprevisto e imprevedibile, di guardarsi allo specchio.
Volgere lo sguardo all’Africa attraverso l’arte non è la stessa cosa che guardarla attraverso la lente delle carestie, delle guerre tribali e delle emergenze umanitarie: vi appare tutta una ricchezza culturale e umana che nelle condizioni estreme, deculturalizzate e deumanizzate dei campi profughi (quel che dell’Africa appare di solito in TV) non è dato vedere. Non è detto però che si tratti di uno sguardo meno intriso di pregiudizi: se quel che si cerca è un piacere estetico, si tende a rimuovere tutto quello che di brutto e di male, o più semplicemente di fastidioso, lo può sporcare.
La stessa valorizzazione che le avanguardie artistiche del primo Novecento (Derain, Matisse, Picasso ecc.) hanno fatto dell’“arte negra”, ha portato le arti africane al centro dell’attenzione, inchiodandole però a un periodo molto circoscritto della storia occidentale: nelle maschere africane ancora oggi continuiamo a cercare i volti delle Demoiselles d’Avignon.
Tuttavia, proprio perché l’arte contemporanea continua a modellare la nostra percezione visiva, i curatori, Ivan Bargna e Giovanna Parodi da Passano, antropologi e specialisti d’arte africana, hanno voluto coinvolgere nella progettazione della mostra l’artista Stefano Arienti: non per riproporre i consueti e un po’ scontati rimandi fra modernismo e primitivismo ma per capire come certe pratiche artistiche contemporanee, messe in gioco nell’allestimento della mostra, possano aiutarci ad evocare, in termini sensibili e concreti, esperienze che sono
diverse ma forse meno lontane di quel che pensiamo.
La mostra non si limita allora a proporre delle opere belle fuori contesto ma neppure vuole inondare il visitatore di informazioni etnografiche, presentando gli oggetti come documenti delle culture che li hanno creati. Al centro saranno gli oggetti e loro storie, il rapporto che hanno avuto e hanno con le persone, tanto qui quanto in Africa. Da questo punto di vista la pratica del “collezionare”, di raccogliere cioè degli oggetti conservandoli in uno spazio apposito, talvolta per esporli alla vista, che si tratti di un salotto milanese o di un santuario del Benin, diventa il filo conduttore lungo il quale indagare le somiglianze e differenze fra le culture.
La mostra lascia quindi spazio anche a più sguardi, a modi diversi di presentare, mettere in scena, catalogare mentalmente e vivere gli oggetti: quello dei collezionisti con le loro inclinazioni e l’impronta autobiografica delle loro raccolte, ma anche con un gusto socialmente definito; quello degli antropologi che tentano di restituire o di evocare l’esperienza estetica degli Africani che queste opere le hanno prodotte; quello degli Africani stessi.
Il tutto in maniera immediatamente fruibile da qualsiasi visitatore consentendo letture e interpretazioni a più livelli.
La mostra è articolata in due parti autonome ma connesse con sede a Palazzo Ducale e al Museo delle Culture di Castello d’Albertis.
La sezione di Palazzo Ducale presenta le opere in maniera piuttosto “classica”, riprendendo i modi attraverso cui gli oggetti africani trovano posto nelle nostre case e nelle gallerie così come nel nostro immaginario (come quando parliamo di “maschere” e “feticci”) per poi smontarli: il visitatore sarà così condotto attraverso la dinamica stessa del percorso espositivo (e cioè senza pesanti apparati didattici) a interrogarsi sullo sguardo che porta sugli oggetti e sull’esperienza che sta facendo.
La sezione della mostra presente al Castello D’Albertis, esso stesso casa di un collezionista, proporrà invece, attraverso installazioni apposite, un percorso che avrà come tema l’”autenticità”, tanto quella degli oggetti che delle culture da cui provengono, per riflettere intorno ai fantasmi della “purezza” e della “contaminazione” che animano i nostri desideri e paure.
PERCORSO DELLA MOSTRA
L’Africa delle meraviglie
Arti africane nelle collezioni italiane
Curata da Ivan Bargna e Giovanna Parodi da Passano con la collaborazione di Marc Augé, la mostra, che ha sede principale a Palazzo Ducale di Genova e una consistente sezione al Castello d’Albertis, raccoglie un insieme notevole, per quantità (più di 300 pezzi) e qualità estetica, di opere di arte africana tradizionale (prevalentemente maschere e statuette lignee). Opere in gran parte inedite, provenienti da importanti collezioni private italiane.
Il progetto espositivo nasce dalla collaborazione fra gli antropologi e l’artista Stefano Arienti.
Costruito su più scenari che si intersecano - quello della presenza forte degli oggetti, quello delle loro molteplici esistenze, quello dei fantasmi e desideri che suscitano in noi maschere e feticci - l’allestimento pone l’accento sulla materialità e la tattilità degli oggetti d’arte africani, creando un’ambientazione di massima immediatezza e rinunciando dove possibile a vetrine o apparati che diminuiscono l’intimità con le opere.
Bianco rosso e nero, la triade cromatica che caratterizza l’arte africana tradizionale, sono i colori che ricorrono nell’allestimento fin dall’inizio, utilizzando l’accostamento dei muri bianchi dello spazio espositivo con la presenza di opere dello stesso Arienti, tappeti tinti di rosso o di nero che rimangono comunque sempre separati dalle opere africane. Mentre libri manipolati, piume, ombre…introducono interferenze ed evocazioni che tessono una complessa serie di rapporti fra le opere, i loro doppi, le nostre ossessioni, aiutando a creare i riferimenti utili a classi di oggetti specifici.
Palazzo Ducale
Nella prima grande sala del Sottoporticato di Palazzo Ducale, pensata dai curatori come la navata centrale di una cattedrale, trovano posto e respiro - su una vasta e nitida pedana bianca che occupa tutto lo spazio tra le austere coppie di pilastri medioevali di pietra scura - settantatre opere catturanti, raggruppate per aree stilistico-culturali.
In corrispondenza di quattro nuclei di collezioni significative, alcuni elementi espositivi e video mettono il visitatore in relazione con la dimensione privata del collezionismo e con l’attuale vita degli oggetti esposti.
A chiusura e sfondo di questo primo ambiente, s’innalza una suggestiva installazione di sculture-scale dei Dogon, doppiate dalle loro ombre.
Nella seconda sala s’incontra uno dei momenti più emozionanti dell’intero percorso: il settore dei feticci, oggetti portatori di forze magiche ambivalenti percepibili anche dal visitatore non specificamente “acculturato” . In effetti, i feticci africani abitano il nostro immaginario e invadono lo spazio, come se l’uso tribale tradizionale dell’oggetto (che diventa feticcio se ci si sacrifica sopra) lasciasse una traccia indelebile di misteriosa potenza racchiusa. Trentadue sculture polimateriche schierate in una vetrina centrale, occupata in parte e circondata da piume bianche che evocano residui di sacrifici, richiamati da un video che offre immagini di inquietante bellezza dal forte impatto emotivo.
Nella terza sala, più grande, a quattro pilastri, l’allestimento gioca sulle potenzialità espressive del seriale, del multiforme, del multicolore: a tal fine 49 varietà di maschere sono affiancate a una importante collezione di colorate bandiere delle tradizionali compagnie paramilitari Asafo dei Fante del Ghana. Qui l’ambientazione allude al mercato dell’arte e al mondo dei collezionisti attraverso la scelta di grandi scaffalature-espositori che ospitano in modo apparentemente casuale e provvisorio le opere. Con effetti spettacolari, una parte delle bandiere è sospesa al soffitto seguendo l’andamento delle volte. Due i video in questa stanza: da un lato il back-stage e “l’uscita” delle famose maschere del Gelede (Patrimonio immateriale dell’Umanità UNESCO), il culto delle “madri-streghe” fra gli Yoruba, dall’altro un recente e spiazzante filmato dal Camerun: maschere attuali in un mondo globalizzato.
Nella quarta sala protagoniste sono le Bundu, insondabili maschere-elmo della società segreta femminile Sande provenienti dalla Liberia. Le loro nere sagome ci appaiono come sospese in uno spazio suggestivo. Proiezioni di ombre sulle pareti aumentano l’effetto straniante che suscitano in noi le maschere dell’Africa nera, evocando anche in questo caso le nostre proiezioni e i nostri fantasmi.
Chiude la sezione di Palazzo Ducale una quinta sala che ospita tre video. Girati appositamente per la mostra a Bandjoun negli altopiani camerunesi, documentano altrettante tipologie del collezionare in Africa: quella di un capo tradizionale; quella del direttore del museo che raccoglie il tesoro della chefferie ed è stato recentemente rinnovato guardando a modelli internazionali; e infine quella di una persona facoltosa, uomo politico e professore universitario, che ci accompagna nella sua villa mostrandoci gli oggetti raccolti in una vita.
Museo delle Culture di Castello d’Albertis
La sezione della mostra presente al Castello d’Albertis, esso stesso già dimora di un eclettico collezionista e oggi sede del Museo delle Culture del Mondo, propone un percorso che ha come tema “l’autenticità”, tanto quella degli oggetti che delle culture da cui provengono, per riflettere intorno ai fantasmi della “purezza” e della “contaminazione” che animano i nostri desideri e paure.
Una cinquantina di opere di rilevante forza estetica sono esposte nelle vetrine della grande prima stanza adibita alle collezioni temporanee. Gli oggetti sono accompagnati anche qui da un gioco di ombre, costruite per rendere l’idea della pluralità degli sguardi.
Il secondo ambiente del percorso è dominato da un’installazione a file concentriche composta da una quarantina di Ibeji Yoruba, statuette lignee che rappresentano bambini gemelli. Le piccole sculture vengono trattate come veri bambini, diventando anche oggetto di culto, essendo i gemelli considerati canali privilegiati con il mondo invisibile. Collocata al centro dell’installazione, una irradiante statua di maternità Yoruba ci parla del ruolo fondamentalmente generativo della figura femminile tradizionale, mentre su un video nella vetrina di fronte, a introdurre la dimensione di sorprendenti modernità parallele propria della mondializzazione, passano le immagini incalzanti del trailer del film di un visionario regista nigeriano girato nel più trash stile di “Nollywood”, in cui il protagonista, in un crescendo parossistico di flash di magia nera, finisce per lanciare violentemente una statuetta del tipo Ibeji.
Va infine aggiunto che lungo il percorso della collezione permanente del Castello d’Albertis sono inseriti una decina di oggetti della mostra, rappresentativi dell’inventività di forme proprie delle estetiche africane, posizionati intenzionalmente come “intrusi” nelle stanze del Castello dai curatori e dall’artista per creare cortocircuiti e interferenze…
30
dicembre 2010
L’Africa delle Meraviglie. Arti Africane nelle Collezioni Italiane
Dal 30 dicembre 2010 al 05 giugno 2011
arte contemporanea
arte etnica
arte etnica
Location
CASTELLO D’ALBERTIS – MUSEO DELLE CULTURE DEL MONDO
Genova, Corso Dogali, 18, (Genova)
Genova, Corso Dogali, 18, (Genova)
Vernissage
30 Dicembre 2010, ore 17.30 su invito
Curatore