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L’angolo obliquo
La Galleria Effearte, in occasione della cinquantesima edizione del Salone del Mobile, presenta la mostra L’Angolo obliquo, progetto espositivo con interventi di Daniele Bacci, Andrea Facco e Giovanni Termini.
Comunicato stampa
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La Galleria EFFEARTE presenta L’angolo obliquo, progetto espositivo con interventi di Daniele Bacci, Andrea Facco e Giovanni Termini.
La mostra, presentata in concomitanza con la cinquantesima edizione del Salone del Mobile di Milano, vuole sottolineare l’importanza del disegno, qui inteso come primum movens dell’idea, ossia di quel progetto che dal concetto passa alla forma, estendendosi sia in piano sia nello spazio.
Concepita come una tripersonale, o, meglio, come una tri-angolazione tra tre differenti artisti, la mostra vuole porre l’accento direttamente sul percorso creativo che non può prescindere dalla “contemplazione della pura forma”, operazione possibile solo attraverso una fase progettuale. Le opere in mostra raccontano se stesse – dal loro concepimento alla loro realizzazione materica – creando una linea narrativa tra il processo formante e l’opera formata, tra significato e significante.
Le installazioni di Giovanni Termini invadono l’ambiente espositivo relazionandosi con l’architettura, di modo da far interagire i materiali con le linee plastiche della galleria. Lo stesso dicasi per le opere di Daniele Bacci, che dialogo con lo spazio circostante ricorrendo a supporti, sagome, colori e fonti iconografiche che mettono in parallelo l’arte analitica con il postmoderno. La progettualità-concettualità di Termini e Bacci si raccorda alle opere di Andrea Facco, il quale propone dipinti e residui di pittura che non demonizzano il processo pittorico bensì ne rivelano la promiscuità e l’ambiguità semantica.
Il segno/disegno di Termini si estrinseca quindi nel rapporto con l’ambiente, Bacci intesse invece un filo rosso tra concetto e sostanza, tra iconico e aniconico, mentre le opere di Facco si dipanano in un iperstile che conferisce alla pittura il suo statuto materico; in questo senso si può parlare di angolo obliquo, ovvero di una visione “trasversale” rispetto al semplice atto del guardare.
Daniele Bacci reinterpreta l’arte aniconica sviluppatasi in seno alle avanguardie storiche, differenziandosi però nell’approccio e nello statuto dell’opera. Esercitandosi in riflessioni estetiche che ridefiniscono i rapporti tra la geometria e la gamma cromatica, Bacci giunge a una strumentalizzazione del minimalismo per potersi “misurare” con la storia dell’arte. Parallelamente alle opere pittoriche, l’artista saccheggia gli archivi fotografici per creare degli assemblaggi in cui riflette sulla posterità del modernismo che - commisurato sia all’ergonomica sia alla società - cristallizza eventi o situazioni in strutture poliedriche.
Andrea Facco analizza il modus pingendi adattando l’idea all’esecuzione. L’artista indaga la sostanza degli oggetti, non la loro apparenza, cercando di spostare l’attenzione sulla testimonianza che essi conservano dentro di sé. L’immagine è quindi un pretesto per dar corpo alla pittura, perché il vero soggetto dell’opera è sempre e solo il metalinguaggio (capace cioè di rendere presente a se stesso quello che altrimenti sarebbe l’infigurabilità della pittura). A partire dal processo creativo, Facco racconta il “fare pittura” nei minimi dettagli, così come nei suoi inganni percettivi e nei suoi tangibili residui.
Giovanni Termini concepisce lo spazio come un “cantiere”, un ambiente dove le opere vengono definite da tautologici “lavori in corso” che non si lasciano soltanto permeare dall’architettura ma diventano essi stessi un architettare, prendendo corpo in relazione all’ambiente che li accoglierà. I “pesi” e le “misure” di Termini non hanno nulla a che vedere con la forma scolpita, quanto semmai con la forma assemblata (quindi smontabile) che intende affermare la propria im-permanenza. L’artista si trova dunque a meditare sulla pratica diretta che si dà come verifica: «Non un fare estetica, ma un fare che potrà divenire estetica».
La mostra, presentata in concomitanza con la cinquantesima edizione del Salone del Mobile di Milano, vuole sottolineare l’importanza del disegno, qui inteso come primum movens dell’idea, ossia di quel progetto che dal concetto passa alla forma, estendendosi sia in piano sia nello spazio.
Concepita come una tripersonale, o, meglio, come una tri-angolazione tra tre differenti artisti, la mostra vuole porre l’accento direttamente sul percorso creativo che non può prescindere dalla “contemplazione della pura forma”, operazione possibile solo attraverso una fase progettuale. Le opere in mostra raccontano se stesse – dal loro concepimento alla loro realizzazione materica – creando una linea narrativa tra il processo formante e l’opera formata, tra significato e significante.
Le installazioni di Giovanni Termini invadono l’ambiente espositivo relazionandosi con l’architettura, di modo da far interagire i materiali con le linee plastiche della galleria. Lo stesso dicasi per le opere di Daniele Bacci, che dialogo con lo spazio circostante ricorrendo a supporti, sagome, colori e fonti iconografiche che mettono in parallelo l’arte analitica con il postmoderno. La progettualità-concettualità di Termini e Bacci si raccorda alle opere di Andrea Facco, il quale propone dipinti e residui di pittura che non demonizzano il processo pittorico bensì ne rivelano la promiscuità e l’ambiguità semantica.
Il segno/disegno di Termini si estrinseca quindi nel rapporto con l’ambiente, Bacci intesse invece un filo rosso tra concetto e sostanza, tra iconico e aniconico, mentre le opere di Facco si dipanano in un iperstile che conferisce alla pittura il suo statuto materico; in questo senso si può parlare di angolo obliquo, ovvero di una visione “trasversale” rispetto al semplice atto del guardare.
Daniele Bacci reinterpreta l’arte aniconica sviluppatasi in seno alle avanguardie storiche, differenziandosi però nell’approccio e nello statuto dell’opera. Esercitandosi in riflessioni estetiche che ridefiniscono i rapporti tra la geometria e la gamma cromatica, Bacci giunge a una strumentalizzazione del minimalismo per potersi “misurare” con la storia dell’arte. Parallelamente alle opere pittoriche, l’artista saccheggia gli archivi fotografici per creare degli assemblaggi in cui riflette sulla posterità del modernismo che - commisurato sia all’ergonomica sia alla società - cristallizza eventi o situazioni in strutture poliedriche.
Andrea Facco analizza il modus pingendi adattando l’idea all’esecuzione. L’artista indaga la sostanza degli oggetti, non la loro apparenza, cercando di spostare l’attenzione sulla testimonianza che essi conservano dentro di sé. L’immagine è quindi un pretesto per dar corpo alla pittura, perché il vero soggetto dell’opera è sempre e solo il metalinguaggio (capace cioè di rendere presente a se stesso quello che altrimenti sarebbe l’infigurabilità della pittura). A partire dal processo creativo, Facco racconta il “fare pittura” nei minimi dettagli, così come nei suoi inganni percettivi e nei suoi tangibili residui.
Giovanni Termini concepisce lo spazio come un “cantiere”, un ambiente dove le opere vengono definite da tautologici “lavori in corso” che non si lasciano soltanto permeare dall’architettura ma diventano essi stessi un architettare, prendendo corpo in relazione all’ambiente che li accoglierà. I “pesi” e le “misure” di Termini non hanno nulla a che vedere con la forma scolpita, quanto semmai con la forma assemblata (quindi smontabile) che intende affermare la propria im-permanenza. L’artista si trova dunque a meditare sulla pratica diretta che si dà come verifica: «Non un fare estetica, ma un fare che potrà divenire estetica».
14
aprile 2011
L’angolo obliquo
Dal 14 aprile al 25 giugno 2011
arte contemporanea
Location
EFFEARTE
Milano, Via Ponte Vetero, 13, (Milano)
Milano, Via Ponte Vetero, 13, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a venerdì ore 11 - 19
sabato ore 15 - 19
Vernissage
14 Aprile 2011, ore 19
Autore
Curatore