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Leonardo Santoli / Gianfranco Sergio – Servitore di due padroni
Cosa accomuna i due artisti? Nella fase attuale, oltre all’uso della pittura, una poetica ludica, irriverente ma al tempo stesso colta e consapevole, che li collega alla parte migliore della tradizione culturale italiana, quella che parla al presente conscia della lezione del passato e poco incline a piegarsi al dettato globale dell’”international style”, sinonimo di “politicamente corretto”
Comunicato stampa
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In un’epoca di ridefinizione dei generi la pittura mantiene la sua centralità riuscendo, nei casi
migliori, a rinnovarsi da un punto di vista iconografico, quindi conservando quella caratteristica
che le è propria, implicita al concetto di “technè”, di tirocinio artigianale visto in una dimensione
di sublimazione dell’agire artistico, con modalità attente e riflessive, abbinando a questa antica
vocazione la capacità di osservare con occhio partecipe e disincantato al tempo stesso l’esistente,
decontestualizzandolo dalla sua effimera contingenza materiale per dargli forma nella dimensione
del simbolo. Da quando l’arte si è calata in una nuova realtà sociale, che le ha mutato diversi
connotati ponendola all’interno di un diverso e più complesso sistema relazionale, cioè dall’inizio
dell’ 800, la pittura si è posta in due occasioni, ovviamente tra loro diverse, a salvaguardia dei suoi
valori fondativi : all’esordio della rivoluzione industriale, con le correnti del Romanticismo che ne
difendevano il livello auratico, e dopo il 1975, a seguito dell’ingresso nella società postindustriale
e della crisi del Concettuale. Seguo con partecipazione le vicende della pittura sin dagli esordi
della mio mestiere di critico ed organizzatore culturale, quindi dal 1984.
Negli anni Zero la mia ricerca è proseguita culminando, nel 2005, con la curatela, presso la Fusion
Art Gallery di Torino de “La contemporaneità evocata”, e, nel 2012, di “22 pittori italiani”, presso
la Pow Gallery, rassegne nella quali ho colto alcuni spunti di parziale mutazione stilistica che mi
paiono validi a tutt’oggi. Essendo, sin dall’antichità remota, lo strumento mimetico per eccellenza,
la pittura riesce a metabolizzare, con procedimento metamorfico, tutto quanto proviene
dall’esterno, e sta riuscendo nell’impresa anche relativamente a strumenti come la fotografia,
l’immagine digitale e, più in generale, tutto l’inesauribile armamentario di simulacri della
contemporaneità. Quindi il termine “evocazione” in questo caso è interpretabile in una duplice
accezione. Da un lato il ritorno di un’attenzione curiosa e partecipe nei confronti degli stereotipi
mediali, come avvenne negli anni’80, ma mantenendo molte caratteristiche di quell’atteggiamento
di freddo ed algido distacco mentale tipico, almeno secondo la mia lettura, degli anni ’90. La
contemporaneità appare nuovamente come narrazione iconografica prevalente, ma sfumata in un
atteggiamento evocativo di suggestioni che furono un tempo intense e nel “qui ed ora” si
ripropongono come sfocate dalla consapevolezza e dal disincanto.
La premessa di taglio storico vale ad inquadrare il lavoro di due protagonisti della scena artistica
contemporanea, attualmente impegnati sul fronte pittorico, come Leonardo Santoli e Gianfranco
Sergio, che ho il piacere di presentare, insieme ad Alessandro Novazio, in questa bi – personale,
che inaugura la sede espositiva della Sala della Vasca, presso l'ampio immobile che ospita, a
Torino, i locali dell'Ex Birrificio Metzger – Centro di Cultura Contemporanea.
Seguo il lavoro di entrambi gli autori da molti anni, con Gianfranco Sergio abbiamo avuto varie
occasioni di collaborazione mentre con Leonardo Santoli, di cui ho sempre stimato il coerente
percorso artistico e le qualità umane e professionali, è il primo ed atteso momento di confronto
diretto.
Cosa accomuna i due artisti?. Nella fase attuale, oltre all'uso della pittura, una poetica ludica,
irriverente ma al tempo stesso colta e consapevole, che li collega alla parte migliore della
tradizione culturale italiana, quella che parla al presente conscia della lezione del passato e poco
incline a piegarsi al dettato globale dell'”international style”, sinonimo di “politicamente corretto”.
Leonardo Santoli appare alla ribalta dell'arte italiana negli anni Ottanta, caratterizzati da una decisa
virata verso il clima della post modernità. La formazione dell'artista è, per sua stessa ammissione
nell'ambito di una intervista corollario di un progetto a quattro mani sviluppato con Lucio Dalla,
grande amante dell'arte, in quel periodo, influenzata dalla linea concettuale e comportamentista
degli anni Settanta. Santoli non si limità, però, ad una diligente opera di ricalco di schemi
precedenti, ma ribalta i termini della questione collocandosi nella scia di autori atipici come Boetti,
Mondino ed Ontani, quest'ultimo in particolare per la linea espressiva sviluppata nelle sculture e
nell'ampio repertorio oggettuale. Il percorso di Santoli si articola in alcuni precisi filoni di ricerca
iconografica. Nella parte finale degli anni Ottanta abbiamo la serie “Arcaica”, caratterizzata da
composizioni aniconiche risolte con la modalità di una astrazione concreta, sul modello del MAC
anni Cinquanta. In seguito l'autore sviluppa le “Mappe” , cartografie bizzarre e variopinte che si
ispirano all'incerta ricerca dei confini del mondo tipica dei tempi antichi, per passare a quelle dei
“Personaggi” e degli “Animali”, dove il registro dell'autore opera un corto circuito tra passato e
presente, tra repertorio pop e mitologia, con un effetto finale di indubbia coinvolgente originalità.
Questa ricerca costante rivolta verso gli stereotipi culturali, abilmente condotti nella dimensione
globale del presente, è evidente nella serie degli “Arlecchini”, che sarà presentata in mostra a
Torino. In queste composizioni la tradizionale maschera italiana, ubiqua ed irrequieta, calza i panni
di svariati personaggi calati in pose di quotidianità, di balletto e di sfida, sullo sfondo di intensi e
fitti patterns cromatici. L'anonimato del volto, maschera senza occhi nè fattezze umane, sta ad
indicarne l'intercambiabilità e la predisposizione ad interpretare molte parti in commedia.
Gianfranco Sergio è un autore che esordisce giovanissimo nei primi anni Ottanta, presentandosi
alla ribalta con una importante personale presso la storica galleria Rinaldo Rotta di Genova. I
lavori di quegli anni si pongono in sintonia più che con gli autori della generazione a lui coeva, con
cui Sergio gioca di anticipo, con la fase del post concettuale emerso a partire dalla fine degli anni
Settanta. Sono evidenti analogie con autori appartenti al gruppo dei Nuovi Nuovi teorizzato da
Renato Barilli. Si tratta di opere che oscillano da una campitura larga di martice astratto –
organicista, ad altre vivacizzate da un dinamico puntinismo che evoca i pixel dell'immagine
digitale. La fase successiva degli anni Novanta, dove avviene il mio incontro con l'autore, è quella
dello svilupparsi di un ampio repertorio oggettuale ed installativo. L'artista racchiude frammenti di
memoria all'interno di contenitori che assumono le vesti di scrigni del vissuto personale ed al pari
si cimenta nella creazione di macchine e velivoli che potremmo definire di “archeologia
futuribile”, sulla scia di un campione di questo genere di progetti come Gianni Piacentino. Dopo
questa fondamentale ricerca tridimensionale Sergio decide che è ora di ritornare nell'ambito, in
fondo prediletto, della tela, dove riproporrà quell'interesse per le forme sinuose, curvilinee, aguzze
e coniche che aveva già sperimentato in precedenza. L'artista si pone anch'egli, come Santoli, nella
scia della tradizione italiana, proponendo uno stile figurativo sorprendente e pirotecnico, dove
elementi tratti dalla sperimentazione del Secondo Futurismo, Balla, Depero l'aereopittura, si
congelano talvolta in interni e paesaggi di maggiore volumetria formale e sospensione metafisica,
sempre contraddistinti da una giocosa e non banale ironia, in grado di parlare del presente
adoperando lo strumento dell'allegoria. Come da me sottolineato in una delle varie presentazioni
che gli ho dedicato : “Sergio contestualizza gli elementi che da sempre caratterizzano la sua arte
all'interno di una figurazione gioiosa e neo barocca perchè caratterizzata dallìipotassi dei piani, un
vero e proprio inventario umano e culturale dotato di una precisa nervatura concettuale”.
Con Alessandro Novazio, prendendo spunto dalle affinità dei due autori e dagli Arlecchini di
Santoli, abbiamo deciso di intitolare la mostra “Servitori di due padroni”.
Edoardo Di Mauro, marzo 2014.
Il servitore di “due” padroni
Il servitore di “due” padroni, oltre che il titolo della mostra, è una celebre commedia di Carlo Goldoni. Arlecchino che “duetta” con Beatrice è il soggetto che Santoli pittore presenta in “doppia” personale con un altro pittore che ama stupire con immagini fantastiche o forse meglio psichedeliche (che rivelano la psiche), dove uomini “incravattati” quindi strozzati o improbabili aerei/fallo “penetrano” altrettante improbabili “mega pinze per il bucato”, insomma come di quelle che usa la mamma per stendere i panni ad asciugare. Il tema del doppio e dell’inconscio. Servitore e servito. Significante e significato. Padre, madre. Allo steso tempo servitori e padroni di se stessi. Servitori di “due” padroni o forse tre: ES, IO, SUPER IO.
Per “entrambi” l’impressione è che vi è una mancanza strutturale di godimento, infatti come potrebbe godere “un incravattato” cioè uno strozzato dagli usurai? Al posto di questo godimento perduto, irrecuperabile, c'è un nulla. Il significante di questo vuoto per Sergio è il fallo nella sua astrazione (è un significante molto particolare così come vedremo tra poco per Santoli, perché il suo significato non c'è, ma è comunque sempre un significante, non è né un fantasma, né un oggetto, né tantomeno un organo ma è/sono appunto il fallo/gli attori). Per Santoli lo stesso significate sono gli attori, il fallo della commedia, che vivono in uno spazio vuoto dove i personaggi per svelarsi hanno bisogno di “fare il giro delle quinte” della sua invenzione criptata, di svelare le carte del suo fantasma, del suo oggetto e o significante padrone.
In ogni caso oltre le opinabili interpretazioni, la costruzione del campo della realtà funziona e non necessita di decostruire, decodificare, quanto piuttosto di ordinare, diciamo d’inventare un'estrazione. Il quadro, o meglio i quadri in mostra, sono quindi non frammenti ma estratti del/dal campo della realtà, di cui e per cui (e mi si passi il gioco di parole) ne divengono il quadro e la cornice. Concludendo, in entrambe i casi il “Vero” è il linguaggio che permette “agli autori” (in questo caso pittori) di considerarsi “come il macchinista cioè …. il regista di tutta la cattura immaginaria di cui altrimenti non sarebbe che la marionetta vivente." (J. Lacan "La direzione della cura e i principi del suo potere", 1957, inÉcrits, p. 633).
(A.N.)
migliori, a rinnovarsi da un punto di vista iconografico, quindi conservando quella caratteristica
che le è propria, implicita al concetto di “technè”, di tirocinio artigianale visto in una dimensione
di sublimazione dell’agire artistico, con modalità attente e riflessive, abbinando a questa antica
vocazione la capacità di osservare con occhio partecipe e disincantato al tempo stesso l’esistente,
decontestualizzandolo dalla sua effimera contingenza materiale per dargli forma nella dimensione
del simbolo. Da quando l’arte si è calata in una nuova realtà sociale, che le ha mutato diversi
connotati ponendola all’interno di un diverso e più complesso sistema relazionale, cioè dall’inizio
dell’ 800, la pittura si è posta in due occasioni, ovviamente tra loro diverse, a salvaguardia dei suoi
valori fondativi : all’esordio della rivoluzione industriale, con le correnti del Romanticismo che ne
difendevano il livello auratico, e dopo il 1975, a seguito dell’ingresso nella società postindustriale
e della crisi del Concettuale. Seguo con partecipazione le vicende della pittura sin dagli esordi
della mio mestiere di critico ed organizzatore culturale, quindi dal 1984.
Negli anni Zero la mia ricerca è proseguita culminando, nel 2005, con la curatela, presso la Fusion
Art Gallery di Torino de “La contemporaneità evocata”, e, nel 2012, di “22 pittori italiani”, presso
la Pow Gallery, rassegne nella quali ho colto alcuni spunti di parziale mutazione stilistica che mi
paiono validi a tutt’oggi. Essendo, sin dall’antichità remota, lo strumento mimetico per eccellenza,
la pittura riesce a metabolizzare, con procedimento metamorfico, tutto quanto proviene
dall’esterno, e sta riuscendo nell’impresa anche relativamente a strumenti come la fotografia,
l’immagine digitale e, più in generale, tutto l’inesauribile armamentario di simulacri della
contemporaneità. Quindi il termine “evocazione” in questo caso è interpretabile in una duplice
accezione. Da un lato il ritorno di un’attenzione curiosa e partecipe nei confronti degli stereotipi
mediali, come avvenne negli anni’80, ma mantenendo molte caratteristiche di quell’atteggiamento
di freddo ed algido distacco mentale tipico, almeno secondo la mia lettura, degli anni ’90. La
contemporaneità appare nuovamente come narrazione iconografica prevalente, ma sfumata in un
atteggiamento evocativo di suggestioni che furono un tempo intense e nel “qui ed ora” si
ripropongono come sfocate dalla consapevolezza e dal disincanto.
La premessa di taglio storico vale ad inquadrare il lavoro di due protagonisti della scena artistica
contemporanea, attualmente impegnati sul fronte pittorico, come Leonardo Santoli e Gianfranco
Sergio, che ho il piacere di presentare, insieme ad Alessandro Novazio, in questa bi – personale,
che inaugura la sede espositiva della Sala della Vasca, presso l'ampio immobile che ospita, a
Torino, i locali dell'Ex Birrificio Metzger – Centro di Cultura Contemporanea.
Seguo il lavoro di entrambi gli autori da molti anni, con Gianfranco Sergio abbiamo avuto varie
occasioni di collaborazione mentre con Leonardo Santoli, di cui ho sempre stimato il coerente
percorso artistico e le qualità umane e professionali, è il primo ed atteso momento di confronto
diretto.
Cosa accomuna i due artisti?. Nella fase attuale, oltre all'uso della pittura, una poetica ludica,
irriverente ma al tempo stesso colta e consapevole, che li collega alla parte migliore della
tradizione culturale italiana, quella che parla al presente conscia della lezione del passato e poco
incline a piegarsi al dettato globale dell'”international style”, sinonimo di “politicamente corretto”.
Leonardo Santoli appare alla ribalta dell'arte italiana negli anni Ottanta, caratterizzati da una decisa
virata verso il clima della post modernità. La formazione dell'artista è, per sua stessa ammissione
nell'ambito di una intervista corollario di un progetto a quattro mani sviluppato con Lucio Dalla,
grande amante dell'arte, in quel periodo, influenzata dalla linea concettuale e comportamentista
degli anni Settanta. Santoli non si limità, però, ad una diligente opera di ricalco di schemi
precedenti, ma ribalta i termini della questione collocandosi nella scia di autori atipici come Boetti,
Mondino ed Ontani, quest'ultimo in particolare per la linea espressiva sviluppata nelle sculture e
nell'ampio repertorio oggettuale. Il percorso di Santoli si articola in alcuni precisi filoni di ricerca
iconografica. Nella parte finale degli anni Ottanta abbiamo la serie “Arcaica”, caratterizzata da
composizioni aniconiche risolte con la modalità di una astrazione concreta, sul modello del MAC
anni Cinquanta. In seguito l'autore sviluppa le “Mappe” , cartografie bizzarre e variopinte che si
ispirano all'incerta ricerca dei confini del mondo tipica dei tempi antichi, per passare a quelle dei
“Personaggi” e degli “Animali”, dove il registro dell'autore opera un corto circuito tra passato e
presente, tra repertorio pop e mitologia, con un effetto finale di indubbia coinvolgente originalità.
Questa ricerca costante rivolta verso gli stereotipi culturali, abilmente condotti nella dimensione
globale del presente, è evidente nella serie degli “Arlecchini”, che sarà presentata in mostra a
Torino. In queste composizioni la tradizionale maschera italiana, ubiqua ed irrequieta, calza i panni
di svariati personaggi calati in pose di quotidianità, di balletto e di sfida, sullo sfondo di intensi e
fitti patterns cromatici. L'anonimato del volto, maschera senza occhi nè fattezze umane, sta ad
indicarne l'intercambiabilità e la predisposizione ad interpretare molte parti in commedia.
Gianfranco Sergio è un autore che esordisce giovanissimo nei primi anni Ottanta, presentandosi
alla ribalta con una importante personale presso la storica galleria Rinaldo Rotta di Genova. I
lavori di quegli anni si pongono in sintonia più che con gli autori della generazione a lui coeva, con
cui Sergio gioca di anticipo, con la fase del post concettuale emerso a partire dalla fine degli anni
Settanta. Sono evidenti analogie con autori appartenti al gruppo dei Nuovi Nuovi teorizzato da
Renato Barilli. Si tratta di opere che oscillano da una campitura larga di martice astratto –
organicista, ad altre vivacizzate da un dinamico puntinismo che evoca i pixel dell'immagine
digitale. La fase successiva degli anni Novanta, dove avviene il mio incontro con l'autore, è quella
dello svilupparsi di un ampio repertorio oggettuale ed installativo. L'artista racchiude frammenti di
memoria all'interno di contenitori che assumono le vesti di scrigni del vissuto personale ed al pari
si cimenta nella creazione di macchine e velivoli che potremmo definire di “archeologia
futuribile”, sulla scia di un campione di questo genere di progetti come Gianni Piacentino. Dopo
questa fondamentale ricerca tridimensionale Sergio decide che è ora di ritornare nell'ambito, in
fondo prediletto, della tela, dove riproporrà quell'interesse per le forme sinuose, curvilinee, aguzze
e coniche che aveva già sperimentato in precedenza. L'artista si pone anch'egli, come Santoli, nella
scia della tradizione italiana, proponendo uno stile figurativo sorprendente e pirotecnico, dove
elementi tratti dalla sperimentazione del Secondo Futurismo, Balla, Depero l'aereopittura, si
congelano talvolta in interni e paesaggi di maggiore volumetria formale e sospensione metafisica,
sempre contraddistinti da una giocosa e non banale ironia, in grado di parlare del presente
adoperando lo strumento dell'allegoria. Come da me sottolineato in una delle varie presentazioni
che gli ho dedicato : “Sergio contestualizza gli elementi che da sempre caratterizzano la sua arte
all'interno di una figurazione gioiosa e neo barocca perchè caratterizzata dallìipotassi dei piani, un
vero e proprio inventario umano e culturale dotato di una precisa nervatura concettuale”.
Con Alessandro Novazio, prendendo spunto dalle affinità dei due autori e dagli Arlecchini di
Santoli, abbiamo deciso di intitolare la mostra “Servitori di due padroni”.
Edoardo Di Mauro, marzo 2014.
Il servitore di “due” padroni
Il servitore di “due” padroni, oltre che il titolo della mostra, è una celebre commedia di Carlo Goldoni. Arlecchino che “duetta” con Beatrice è il soggetto che Santoli pittore presenta in “doppia” personale con un altro pittore che ama stupire con immagini fantastiche o forse meglio psichedeliche (che rivelano la psiche), dove uomini “incravattati” quindi strozzati o improbabili aerei/fallo “penetrano” altrettante improbabili “mega pinze per il bucato”, insomma come di quelle che usa la mamma per stendere i panni ad asciugare. Il tema del doppio e dell’inconscio. Servitore e servito. Significante e significato. Padre, madre. Allo steso tempo servitori e padroni di se stessi. Servitori di “due” padroni o forse tre: ES, IO, SUPER IO.
Per “entrambi” l’impressione è che vi è una mancanza strutturale di godimento, infatti come potrebbe godere “un incravattato” cioè uno strozzato dagli usurai? Al posto di questo godimento perduto, irrecuperabile, c'è un nulla. Il significante di questo vuoto per Sergio è il fallo nella sua astrazione (è un significante molto particolare così come vedremo tra poco per Santoli, perché il suo significato non c'è, ma è comunque sempre un significante, non è né un fantasma, né un oggetto, né tantomeno un organo ma è/sono appunto il fallo/gli attori). Per Santoli lo stesso significate sono gli attori, il fallo della commedia, che vivono in uno spazio vuoto dove i personaggi per svelarsi hanno bisogno di “fare il giro delle quinte” della sua invenzione criptata, di svelare le carte del suo fantasma, del suo oggetto e o significante padrone.
In ogni caso oltre le opinabili interpretazioni, la costruzione del campo della realtà funziona e non necessita di decostruire, decodificare, quanto piuttosto di ordinare, diciamo d’inventare un'estrazione. Il quadro, o meglio i quadri in mostra, sono quindi non frammenti ma estratti del/dal campo della realtà, di cui e per cui (e mi si passi il gioco di parole) ne divengono il quadro e la cornice. Concludendo, in entrambe i casi il “Vero” è il linguaggio che permette “agli autori” (in questo caso pittori) di considerarsi “come il macchinista cioè …. il regista di tutta la cattura immaginaria di cui altrimenti non sarebbe che la marionetta vivente." (J. Lacan "La direzione della cura e i principi del suo potere", 1957, inÉcrits, p. 633).
(A.N.)
03
aprile 2014
Leonardo Santoli / Gianfranco Sergio – Servitore di due padroni
Dal 03 al 19 aprile 2014
arte contemporanea
Location
CCC-T EX BIRRIFICIO METZGER – CENTRO DI CULTURA CONTEMPORANEA TORINO
Torino, Via Pier Dionigi Pinelli, 63a, (Torino)
Torino, Via Pier Dionigi Pinelli, 63a, (Torino)
Orario di apertura
su appuntamento
Vernissage
3 Aprile 2014, ore 18
Autore
Curatore