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L’eresia del folklore
“L’eresia del folklore” una mostra di Armenia, Bruno Benuzzi, Felice Levini, Vettor Pisani. È credibile, alla luce dei giorni nostri, un ripescaggio spurio della cosiddetta cultura folk affinché coltivare un cortocircuito con la sensibilità contemporanea?
Comunicato stampa
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Non è più il tempo dell'infuocato dibattito sul confronto, nonché sull'eventuale osmosi, tra le culture dominanti e quelle a suo tempo defnite “subalterne” così come analizzato da Gramsci, poi ripreso da Ginzburg nei suoi testi seminali. Tuttavia, dopo l'abbuffata degli anni '70, letteraria e musicale più che altro, ecco riaffacciarsi un quesito caro ad una certa frangia d'artisti: è credibile, alla luce dei giorni nostri, un ripescaggio spurio della cosiddetta cultura folk affnché coltivare un cortocircuito con la sensibilità contemporanea?
Se in precedenza, a partire da un nebuloso passato, vigeva una stretta distinzione tra la cultura delle classi dominanti e la cultura materiale, pagana, agraria, già fgure come Rabelais e Bruegel, facili esempi, hanno dimostrato che non sempre si tratta di un percorso a senso unico dall'alto verso il basso, e che il conto del dare e dell'avere non è poi così scontato (illuminanti al riguardo le pagine de L'Antirinascimento dello storico dell'arte Eugenio Battisti). Allo stesso modo esiste oggi vita su Marte, vita al di là dello stile internazionale che pare dominare il mondo dell'arte contemporanea. Sorta di razzismo sovranazionale intento a perorare una dieta che esclude il diverso da sé, che esclude l'eros, il colore e tutto quanto appare in grado d'esprimersi senza il ricorso a sfancanti didascaliche, indispensabili a condurre per mano il fruitore e, nella peggiore dell'ipotesi, ad illustrare la più risibile delle trovate. Un'arte standart dove tra la più affermata delle star e l'ultimo degli arrivati svapora la differenza culturale (permane quella economica).
Meno convenzionale appare, allora, l'opzione di cavalcare la tigre di un meticciato da dosare in forma d'antidoto chessò, si fa per dire, all'Arte povera brasiliana, al Minimalismo aborigeno, al Concettuale metodista. Antidoto da pescare ciclicamente – si pensi, tanto per fare qualche esempio, all'islamico Matisse, all'africano cuore di tenebra di Picasso e, per venire ai giorni nostri, ai fantasmagorici totem di Aj Fosik – nei meandri dell'etnologia, antidoto da ricercare nel nocciolo duro del folklore, sacro o profano, non ancora del tutto vanifcato dal turismo. Certo non mancano gli artisti portati al sincretismo, al mélange culturale, sennonché gli artisti capaci di coltivare simili “piaceri sovversivi”, simili vocazioni sensibili al folklore (e, casomai, a quel tanto di decorazione che ciò può comportare) sono stimati alla stessa stregua di zingari dell'arte, sdegnati e tenuti a distanza di sicurezza in base all'ahimè sempreverde interdetto dell'architetto Loos, caso emblematico, secondo il quale “l'ornamento è peccato”. Strano ma vero, ancora ai giorni nostri tutto ciò che concerne il folklore e l'ornamento nei campi alati dell'arte viene salutato come qualcosa di trascurabile
e, casomai, infantile anche se, almeno questo, non di femminile come accadeva sino a non molto tempo fa. Signifcativa di contro la mostra What Wonderful World a cura di Pierluca Nardoni e Claudio Franzoni, attualmente in corso presso la fondazione Magnani di Reggio Emilia, che analizza il tema dell'ornamento a partire dal punto di vista antropologico senza perdersi in pregiudizi, e signifcativa la lettura del saggio Il fantasma del decorativo della critica d'arte Giuliana Altea.
Ragion per cui in un momento in cui il presente non ci mette granché, bastano poche ore, a trasformarsi in passato tanto vale rifarsi a qualcosa di stratifcato nel tempo che in qualche misura meriti di tornare agli onori della cronaca artistica (male che vada – per i più temerari e “digital sciamanici” – in forma di archaic revival sulle orme di Terence McKenna). E questo qualcosa può essere la quintessenza di un folklore in grado di riaffermare “la mitologia degli uomini con un passato”, di tramandare una tradizione che è anche “tradimento”, come afferma l'antropologo Marino Niola, giacché è soltanto in virtù del tradimento – non della rispettosa flologia identitaria – che la tradizione mitico folklorica può sperare di rivendicare un ruolo. Di dire la sua attraverso gli occhi tecnologici del presente o, chissà, attraverso una sorta di futurismo archeologico o, a scelta, di archeologia del futuro.
Ecco allora, per venire alla mostra, il folklore del nostro meridione incrociare le armi col sentimento religioso, e relativo eros perturbante, modello Bataille, grazie alle opere oggettuali di Vettor Pisani già sostenitore dell'ora non più (per dirla con Agamben) e capace di stigmatizzare alla sua maniera – attraverso le fgure più o meno addolorate di Madonne calate in un paradossale bagno di elettrodomestici e psicanalisi freudiana – la perdita del sacro.
Folklore sincretico nella ricerca performativa della giovane Armenia capace d'intavolare, isola per isola, una rêverie ierogamica tra il siciliano Teatro dei pupi e il Teatro dell'ombre di Bali (Bali con i pupi) sino a vagheggiare un'etnopsichiatria a cui non è estranea la passione per i tableau vivant ieratici del regista armeno Paradžanov, sempre da incrociare con qualcosa di lambito in prima persona.
Felice Levini riprende il tema popolare dell'Albero della Cuccagna che, nel trattamento dell'artista, subisce una miniaturizzazione che lo trasforma nella dimensione ludica del giocattolo che a sua volta, fate conto, subisce un rovesciamento giacché, appeso al sofftto, il suo sviluppo non è più verso l'alto bensì verso il basso. Come del resto si conviene alla fabula del Mondo alla rovescia, nient'altro che un surrogato popolare del mito dell'Età dell'oro.
Appartengono al repertorio di Bruno Benuzzi una serie di nudi bucrani erotizzati tenendo a mente l'abitudine dei vaccari alpini di rivestire con fori, ghirlande, nastrini, testa e corna del bestiame al rientro dall'alpeggio. Ma se si guarda al meridione qualcosa di simile accade pure per gli addobbi, a metà strada tra il sacro e il profano agrario, che improntano i primaverili carri e buoi (traccas) in occasione dei festeggiamenti dedicati a Sant'Efsio a Cagliari e dintorni.
E, dulcis in fundo, come non pensare a certi video musicali che rivisitano il folklore bulgaro a cura degli australiani Dead Can Dance o, spulciando dalle nostre parti, alle Canzoni della Cupa dello svisciolato Vinicio Capossela... ma queste sono altre storie e non si trovano in mostra anche se... anche se cadrebbero a fagiolo...
Se in precedenza, a partire da un nebuloso passato, vigeva una stretta distinzione tra la cultura delle classi dominanti e la cultura materiale, pagana, agraria, già fgure come Rabelais e Bruegel, facili esempi, hanno dimostrato che non sempre si tratta di un percorso a senso unico dall'alto verso il basso, e che il conto del dare e dell'avere non è poi così scontato (illuminanti al riguardo le pagine de L'Antirinascimento dello storico dell'arte Eugenio Battisti). Allo stesso modo esiste oggi vita su Marte, vita al di là dello stile internazionale che pare dominare il mondo dell'arte contemporanea. Sorta di razzismo sovranazionale intento a perorare una dieta che esclude il diverso da sé, che esclude l'eros, il colore e tutto quanto appare in grado d'esprimersi senza il ricorso a sfancanti didascaliche, indispensabili a condurre per mano il fruitore e, nella peggiore dell'ipotesi, ad illustrare la più risibile delle trovate. Un'arte standart dove tra la più affermata delle star e l'ultimo degli arrivati svapora la differenza culturale (permane quella economica).
Meno convenzionale appare, allora, l'opzione di cavalcare la tigre di un meticciato da dosare in forma d'antidoto chessò, si fa per dire, all'Arte povera brasiliana, al Minimalismo aborigeno, al Concettuale metodista. Antidoto da pescare ciclicamente – si pensi, tanto per fare qualche esempio, all'islamico Matisse, all'africano cuore di tenebra di Picasso e, per venire ai giorni nostri, ai fantasmagorici totem di Aj Fosik – nei meandri dell'etnologia, antidoto da ricercare nel nocciolo duro del folklore, sacro o profano, non ancora del tutto vanifcato dal turismo. Certo non mancano gli artisti portati al sincretismo, al mélange culturale, sennonché gli artisti capaci di coltivare simili “piaceri sovversivi”, simili vocazioni sensibili al folklore (e, casomai, a quel tanto di decorazione che ciò può comportare) sono stimati alla stessa stregua di zingari dell'arte, sdegnati e tenuti a distanza di sicurezza in base all'ahimè sempreverde interdetto dell'architetto Loos, caso emblematico, secondo il quale “l'ornamento è peccato”. Strano ma vero, ancora ai giorni nostri tutto ciò che concerne il folklore e l'ornamento nei campi alati dell'arte viene salutato come qualcosa di trascurabile
e, casomai, infantile anche se, almeno questo, non di femminile come accadeva sino a non molto tempo fa. Signifcativa di contro la mostra What Wonderful World a cura di Pierluca Nardoni e Claudio Franzoni, attualmente in corso presso la fondazione Magnani di Reggio Emilia, che analizza il tema dell'ornamento a partire dal punto di vista antropologico senza perdersi in pregiudizi, e signifcativa la lettura del saggio Il fantasma del decorativo della critica d'arte Giuliana Altea.
Ragion per cui in un momento in cui il presente non ci mette granché, bastano poche ore, a trasformarsi in passato tanto vale rifarsi a qualcosa di stratifcato nel tempo che in qualche misura meriti di tornare agli onori della cronaca artistica (male che vada – per i più temerari e “digital sciamanici” – in forma di archaic revival sulle orme di Terence McKenna). E questo qualcosa può essere la quintessenza di un folklore in grado di riaffermare “la mitologia degli uomini con un passato”, di tramandare una tradizione che è anche “tradimento”, come afferma l'antropologo Marino Niola, giacché è soltanto in virtù del tradimento – non della rispettosa flologia identitaria – che la tradizione mitico folklorica può sperare di rivendicare un ruolo. Di dire la sua attraverso gli occhi tecnologici del presente o, chissà, attraverso una sorta di futurismo archeologico o, a scelta, di archeologia del futuro.
Ecco allora, per venire alla mostra, il folklore del nostro meridione incrociare le armi col sentimento religioso, e relativo eros perturbante, modello Bataille, grazie alle opere oggettuali di Vettor Pisani già sostenitore dell'ora non più (per dirla con Agamben) e capace di stigmatizzare alla sua maniera – attraverso le fgure più o meno addolorate di Madonne calate in un paradossale bagno di elettrodomestici e psicanalisi freudiana – la perdita del sacro.
Folklore sincretico nella ricerca performativa della giovane Armenia capace d'intavolare, isola per isola, una rêverie ierogamica tra il siciliano Teatro dei pupi e il Teatro dell'ombre di Bali (Bali con i pupi) sino a vagheggiare un'etnopsichiatria a cui non è estranea la passione per i tableau vivant ieratici del regista armeno Paradžanov, sempre da incrociare con qualcosa di lambito in prima persona.
Felice Levini riprende il tema popolare dell'Albero della Cuccagna che, nel trattamento dell'artista, subisce una miniaturizzazione che lo trasforma nella dimensione ludica del giocattolo che a sua volta, fate conto, subisce un rovesciamento giacché, appeso al sofftto, il suo sviluppo non è più verso l'alto bensì verso il basso. Come del resto si conviene alla fabula del Mondo alla rovescia, nient'altro che un surrogato popolare del mito dell'Età dell'oro.
Appartengono al repertorio di Bruno Benuzzi una serie di nudi bucrani erotizzati tenendo a mente l'abitudine dei vaccari alpini di rivestire con fori, ghirlande, nastrini, testa e corna del bestiame al rientro dall'alpeggio. Ma se si guarda al meridione qualcosa di simile accade pure per gli addobbi, a metà strada tra il sacro e il profano agrario, che improntano i primaverili carri e buoi (traccas) in occasione dei festeggiamenti dedicati a Sant'Efsio a Cagliari e dintorni.
E, dulcis in fundo, come non pensare a certi video musicali che rivisitano il folklore bulgaro a cura degli australiani Dead Can Dance o, spulciando dalle nostre parti, alle Canzoni della Cupa dello svisciolato Vinicio Capossela... ma queste sono altre storie e non si trovano in mostra anche se... anche se cadrebbero a fagiolo...
25
gennaio 2020
L’eresia del folklore
Dal 25 gennaio al primo febbraio 2020
arte contemporanea
Location
PALAZZO GNUDI
Bologna, Via Riva Di Reno, 77, (Bologna)
Bologna, Via Riva Di Reno, 77, (Bologna)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 18,30
Vernissage
25 Gennaio 2020, h 18,30
Autore