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L’oeil gourmand. Un percorso nella natura morta dal Cinquecento al Novecento
La Fondazione Credito Bergamasco presenta una mostra raffinata e assieme
spettacolare: quaranta dipinti provenienti da una collezione privata che hanno per
soggetto il tema della tavola imbandita.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
“L’oeil gourmand. Un percorso nella natura morta dal Cinquecento al
Novecento”.
La tavola imbandita da Fede Galizia a Evaristo Baschenis, da Giacomo Ceruti a
Ennio Morlotti.
La Fondazione Credito Bergamasco presenta una mostra raffinata e assieme
spettacolare: quaranta dipinti provenienti da una collezione privata che hanno per
soggetto il tema della tavola imbandita.
La volontà è di mettere in luce un collegamento – seppure indiretto – con il tema
sacro trattato dall’Ultima Cena di Alessandro Allori (datata 1582), opera
contemporaneamente esposta nel Palazzo del Credito Bergamasco a seguito del
suo restauro.
La rassegna darà la possibilità di osservare come il genere della tavola imbandita si
renda indipendente e autonomo proprio a partire dalla fine del Cinquecento,
seguendo uno sviluppo articolato che lo porterà fino alle sperimentazioni
novecentesche.
Il tema della tavola imbandita è un sottogenere della categoria della natura morta.
L’argomento allude al rituale del pasto, alla sua preparazione o al suo avvenuto
consumo. Solo in alcuni casi il soggetto confina con il tema simbolico della Vanitas.
Negli antichi inventari opere di questo genere erano citate con il titolo più semplice
che si possa immaginare, come ad esempio: tavole con il mangiar sopra.
L’ordinamento delle opere tiene conto il più possibile della suddivisione per scuole e
aree geografiche (dalla Lombardia alla Spagna, dalla Roma caravaggesca ai Paesi
Bassi), semplificando alcuni snodi apparentemente frammentati (come nel caso del
percorso del Novecento) tramite la sola scansione diacronica.
Sono molte le opere rare e importanti eccezionalmente presenti, alcune mai prima
d’ora esposte in pubblico. Oltre ai nomi celebri di Fede Galizia, Evaristo Baschenis,
Giacomo Ceruti e Ennio Morlotti la mostra ospita un nucleo rilevante di dipinti
eseguiti nella Roma caravaggesca, direttamente ispirati al magistero del grande
lombardo; la testimonianza del Novecento è affidata ad alcuni dei principali
protagonisti del tempo: da Piero Marussig a Fortunato Depero, da Arturo Tosi a Gino
Severini, da Achille Funi a Giovanni Testori.
Bergamo, 25 Settembre 2012
Si allegano:
- sedi e orari della mostra – notizie utili
- dichiarazioni dei Curatori (è autorizzata la pubblicazione – anche per singoli capoversi o per stralci –
purchè con virgolettatura e con espressa indicazione del soggetto dichiarante)
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Sede e orari
Palazzo del Credito Bergamasco
Bergamo, Largo Porta Nuova, 2
Da lunedì a venerdì (8.20 – 13.20 / 14.50 – 15.50)
Sabato 29 settembre, 6 ottobre e 13 ottobre (14.30 – 20.30) con visite guidate
gratuite (ogni ora, a partire dalle 14.30)
Domenica 30 settembre, 7 ottobre e 14 ottobre (10.30 – 19.30) con visite guidate
gratuite (ogni ora, a partire dalle 10.30)
Ingresso libero
Catalogo in distribuzione gratuita
Evento inaugurale
Giovedi 27 settembre 2012 (ore 18.00)
Organizzazione
Fondazione Credito Bergamasco (Bergamo)
Curatori
Simone Facchinetti - Angelo Piazzoli
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Angelo Piazzoli – Segretario Generale del Credito Bergamasco e della
Fondazione Creberg
Curatore della mostra “L’Oeil Gourmand”
“Da quella summa di splendide nature morte che si è appalesata, già dopo la prima
sommaria pulitura, la tavolata dell’Ultima Cena di Allori, ci è sorta l’idea di presentare
al pubblico – contestualmente all’esposizione del grande dipinto di Allori in corso di
restauro – il tema della tavola imbandita nei suoi sviluppi nella storia dell’arte
attingendo da una importante collezione privata, approfondendo la tematica – così
brillantemente affrontata dal grande fiorentino in un’opera religiosa – durante i secoli
successivi (dal Cinquecento di Vincenzo Campi, al Seicento di Evaristo Baschenis, al
Settecento di Giacomo Ceruti, all’Ottocento di Cesare Tallone, al Novecento di
Fortunato Depero, Giovanni Testori ed Ennio Morlotti)”.
“L’oeil gourmand” (letteralmente, L’occhio goloso) è una mostra è di altissima qualità,
con opere eccellenti ed artisti di grande livello, con un percorso suggestivo ed
accattivante. Essa rappresenta una opportunità unica per ammirare quaranta opere
tratte da una importante collezione privata la cui visione è privilegio di pochi, esteso a
tutti – solamente nel periodo della mostra – grazie alla generosità del mecenate
prestatario”.
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Simone Facchinetti – Storico dell’arte e critico
Curatore della mostra “L’Oeil Gourmand”
“Il visitatore incontra una sequenza di dipinti collocati alle pareti, senza soluzione di
continuità. Solo alcuni di essi sono stati isolati, a rimarcarne l’importanza. Qui
l’osservatore è sollecitato a fare una sosta maggiore. La visita può iniziare dalla
prima di queste soste.
Tra gli incunaboli della natura morta lombarda figurano due opere che hanno
un’ampia letteratura alle spalle. La prima costituisce uno dei tanti casi irrisolti nella
storia del genere, senza perdere l’importanza che continua a occupare tra le
testimonianze che stanno alla sua origine. Non esiste il dipinto che segna il
passaggio tra la pittura di storia e l’invenzione della natura morta come genere
autonomo. Ma se esistesse avrebbe proprio questa faccia (così almeno è stato
immaginato fin’ora). Credo che tale intuizione risieda nel fatto che l’opera ha un’aria
primitiva e moderna allo stesso tempo. Non a caso intorno al gruppo con cui è stata
associata ogni tanto spunta il nome del cremonese Vincenzo Campi, uno dei
capostipiti della materia. Ma non darei troppo peso a questa attribuzione che spiega
più i meccanismi del mercato contemporaneo piuttosto che l’argomento storico che ci
interessa. Rimane il fatto che rispetto alle prime nature morte di Fede Galizia, tutte
impaginate con un taglio più concentrato e rivestite da ombre dense e profonde, qui
siamo di fronte a un’opera luminosa, quasi metafisica. Ecco l’aspetto che non si può
trovare nella Galizia, di cui risentiamo nei quadri persino il movimento contristato
della messa in posa degli oggetti della sua solitaria rappresentazione. Non si trova
quell’aria tersa e luminosa che dà corpo ai colori freddi e di ghiaccio (da Nuova
Oggettività) del nostro anonimo. In genere si ripete che il primo che avrebbe riferito il
quadro alla scuola del bresciano Alessandro Bonvicino detto “il Moretto” (cioè al suo
allievo Luca Mombello) è stato Stefano Bottari nel 1963. In realtà il riferimento –
acuto e scaltro allo stesso tempo – risale a Giovanni Testori e da allora la vicenda
non ha fatto molti progressi.
Con il quadro di Fede Galizia entriamo in un ambito che comincia a prendere dei
contorni più precisi. L’opera è dipinta su tavola (rispetto alla precedente su tela), un
supporto che rende più smaltate le trasparenze dei colori, intuibili a un’osservazione
ravvicinata (che è quella imposta dalle caratteristiche del dipinto). Non nasce da sola
ma aveva un compagno. Molti di questi quadri in origine erano infatti dipinti in coppia.
È stato detto che il nostro quadro sarebbe di una fase avanzata, forse estrema, nella
carriera della Galizia. Tuttavia i punti fermi nella storia della pittrice sono talmente rari
da suggerire più cautela: esiste un’unica natura morta firmata e datata 1602. Troppo
poco per fare dei ragionamenti cronologici interni, sapendo che l’artista morirà a
Milano verso il 1630.
Per capire qualcosa sul senso del dipinto di Fede Galizia è utile rifarsi a un altro
celebre incunabolo della natura morta lombarda, ovvero alle Pesche, foglie di vite e
piatto argentato di Giovanni Ambrogio Figino, dipinto tra il 1591 e il 1594 e illustrato
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
da un madrigale di Gregorio Comanini che ha per titolo Sopra la Pittura di alcuni
persichi naturalissimi.
“Madre a noi fu Natura in su’l secondo ramo: / Hor figli a la Pittura, / Frutti in legno
infrutifero qui siamo / E pur s’al color credi, / Spira odor ciò che vedi: / E molli, e dolci,
e morbidetti ogn’hora / L’occhio tuo ne divora. / O’ gentil accortezza, / De la man
ch’eternò fragil bellezza”. Il concetto è abbastanza chiaro e mette in seria crisi l’idea
che dietro le opere della Galizia si nascondano contorti significati religiosi.
Siamo ancora, come diceva Roberto Longhi, “sulla soglia della vera natura morta”.
Per il grande storico dell’arte il punto che segnava simbolicamente il discrimine della
soglia era rappresentato dalle opere di Caravaggio e dalla sua dichiarazione d’intenti
(riferita, intorno al 1617-1618, da Vincenzo Giustiniani) che rompeva ogni tentativo di
gerarchizzazione dei generi: “Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare
un quadro buono di fiori, come di figure”.
Tra le opere del giro caravaggesco figurano qui alcune testimonianze singolari, per la
maggior parte ancora in cerca d’autore. La prima è stata presentata per la prima
volta da Carlo Volpe alla mostra napoletana della Natura morta italiana del 1964. Per
lo studioso il dipinto andava considerato tra i “più importanti ritrovamenti recenti di
nature morte della più antica cerchia caravaggesca”. Il riferimento secco a
Bartolomeo Manfredi significava dargli una datazione nel secondo decennio del
Seicento e, di conseguenza, uno statuto di grande rilievo. Volpe rimarcava
l’essenzialità della rappresentazione, tutta giocata in un risentito gorgo chiaroscurale.
L’unico confronto possibile era stabilito con l’Allegoria delle quattro stagioni di
Bartolomeo Manfredi, nota in due versioni, oggi considerate entrambe autografe.
Fino a qualche tempo fa il pendant con i Tavoli da cucina sarebbe stato schedato
sotto il nome convenzionale del Maestro della fiasca fiorita, l’autore dell’omonimo
dipinto ai Musei Civici di Forlì (almeno per chi credeva all’integrità di quel gruppo
strampalato). Oggi tutto il raggruppamento (fuso con il corpus del Maestro del vaso a
grottesche) è confluito, temporaneamente, nel catalogo di Tommaso Salini. Mao,
com’era chiamato all’epoca, era particolarmente disprezzato da Caravaggio (“può
essere che se diletti e che impiastri lui ancora”) anche se le fonti lo ricordano come
uno specialista del genere: “si mise a far de’ fiori, e de’ frutti e d’altre cose dal
naturale ben’espresse; e fu il primo, che pingesse, e accomodasse i fiori con le foglie
ne’ vasi, con diverse inventioni molto capricciose, e bizzarre, li quali a tutti arrecano
gusto, e con gran genio sì bravamente li faceva, che ne trasse buonissimo
guadagno”. La prima testimonianza risale al processo del 1603 intentato da Giovanni
Baglione, per diffamazione, contro Caravaggio; la seconda è del medesimo Baglione,
contenuta nel volume sulle Vite de’ pittori del 1642. Sono entrambi fonti molto
orientate, nei due sensi opposti.
Ancora più problematico il caso dell’autore della Cesta di zucche, un quadro
d’intensità e qualità non comuni, tanto che ha fatto venire in mente una girandola di
nomi, da Orazio Borgianni a Battistello Caracciolo, fino al Maestro S.B. (PseudoLargo
Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Salini). I nomi di Borgianni e Battistello sono stati avanzati con l’idea che l’autore del
quadro sia da ricercare tra i seguaci di Caravaggio e che l’opera rappresenti una
sorta di unicum, un’incursione nell’ambito della natura morta fatta da un pittore di
figura. Il Maestro S.B. (Pseudo-Salini) è il nome convenzionale che si dà a un gruppo
di opere di scuola centro-italiana di metà Seicento, in passato riferite a Tommaso
Salini (ecco perché Pseudo-Salini) e che si legherebbero a un dipinto che porta la
sigla S.B. (ecco perché Maestro S.B.). La questione, come si intuisce, è molto
intricata, tuttavia bisognerà forse riflettere sul “grado” di caravaggismo del quadro. Mi
chiedo cioè se era ancora possibile, a Roma, dipingere un’opera con così alta carica
vitale intorno alla metà del secolo? La domanda può risultare oziosa ma forse serve
a mettere in luce la perspicuità della regia luministica che è alla base della
costruzione dell’immagine. L’idea, cioè, di oscurare completamente il fondale, di
rialzare la cesta e di animare la danza delle zucche a trombetta come fossero dei
serpenti che rispondono a un suono incantatorio”.
Novecento”.
La tavola imbandita da Fede Galizia a Evaristo Baschenis, da Giacomo Ceruti a
Ennio Morlotti.
La Fondazione Credito Bergamasco presenta una mostra raffinata e assieme
spettacolare: quaranta dipinti provenienti da una collezione privata che hanno per
soggetto il tema della tavola imbandita.
La volontà è di mettere in luce un collegamento – seppure indiretto – con il tema
sacro trattato dall’Ultima Cena di Alessandro Allori (datata 1582), opera
contemporaneamente esposta nel Palazzo del Credito Bergamasco a seguito del
suo restauro.
La rassegna darà la possibilità di osservare come il genere della tavola imbandita si
renda indipendente e autonomo proprio a partire dalla fine del Cinquecento,
seguendo uno sviluppo articolato che lo porterà fino alle sperimentazioni
novecentesche.
Il tema della tavola imbandita è un sottogenere della categoria della natura morta.
L’argomento allude al rituale del pasto, alla sua preparazione o al suo avvenuto
consumo. Solo in alcuni casi il soggetto confina con il tema simbolico della Vanitas.
Negli antichi inventari opere di questo genere erano citate con il titolo più semplice
che si possa immaginare, come ad esempio: tavole con il mangiar sopra.
L’ordinamento delle opere tiene conto il più possibile della suddivisione per scuole e
aree geografiche (dalla Lombardia alla Spagna, dalla Roma caravaggesca ai Paesi
Bassi), semplificando alcuni snodi apparentemente frammentati (come nel caso del
percorso del Novecento) tramite la sola scansione diacronica.
Sono molte le opere rare e importanti eccezionalmente presenti, alcune mai prima
d’ora esposte in pubblico. Oltre ai nomi celebri di Fede Galizia, Evaristo Baschenis,
Giacomo Ceruti e Ennio Morlotti la mostra ospita un nucleo rilevante di dipinti
eseguiti nella Roma caravaggesca, direttamente ispirati al magistero del grande
lombardo; la testimonianza del Novecento è affidata ad alcuni dei principali
protagonisti del tempo: da Piero Marussig a Fortunato Depero, da Arturo Tosi a Gino
Severini, da Achille Funi a Giovanni Testori.
Bergamo, 25 Settembre 2012
Si allegano:
- sedi e orari della mostra – notizie utili
- dichiarazioni dei Curatori (è autorizzata la pubblicazione – anche per singoli capoversi o per stralci –
purchè con virgolettatura e con espressa indicazione del soggetto dichiarante)
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Sede e orari
Palazzo del Credito Bergamasco
Bergamo, Largo Porta Nuova, 2
Da lunedì a venerdì (8.20 – 13.20 / 14.50 – 15.50)
Sabato 29 settembre, 6 ottobre e 13 ottobre (14.30 – 20.30) con visite guidate
gratuite (ogni ora, a partire dalle 14.30)
Domenica 30 settembre, 7 ottobre e 14 ottobre (10.30 – 19.30) con visite guidate
gratuite (ogni ora, a partire dalle 10.30)
Ingresso libero
Catalogo in distribuzione gratuita
Evento inaugurale
Giovedi 27 settembre 2012 (ore 18.00)
Organizzazione
Fondazione Credito Bergamasco (Bergamo)
Curatori
Simone Facchinetti - Angelo Piazzoli
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Angelo Piazzoli – Segretario Generale del Credito Bergamasco e della
Fondazione Creberg
Curatore della mostra “L’Oeil Gourmand”
“Da quella summa di splendide nature morte che si è appalesata, già dopo la prima
sommaria pulitura, la tavolata dell’Ultima Cena di Allori, ci è sorta l’idea di presentare
al pubblico – contestualmente all’esposizione del grande dipinto di Allori in corso di
restauro – il tema della tavola imbandita nei suoi sviluppi nella storia dell’arte
attingendo da una importante collezione privata, approfondendo la tematica – così
brillantemente affrontata dal grande fiorentino in un’opera religiosa – durante i secoli
successivi (dal Cinquecento di Vincenzo Campi, al Seicento di Evaristo Baschenis, al
Settecento di Giacomo Ceruti, all’Ottocento di Cesare Tallone, al Novecento di
Fortunato Depero, Giovanni Testori ed Ennio Morlotti)”.
“L’oeil gourmand” (letteralmente, L’occhio goloso) è una mostra è di altissima qualità,
con opere eccellenti ed artisti di grande livello, con un percorso suggestivo ed
accattivante. Essa rappresenta una opportunità unica per ammirare quaranta opere
tratte da una importante collezione privata la cui visione è privilegio di pochi, esteso a
tutti – solamente nel periodo della mostra – grazie alla generosità del mecenate
prestatario”.
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Simone Facchinetti – Storico dell’arte e critico
Curatore della mostra “L’Oeil Gourmand”
“Il visitatore incontra una sequenza di dipinti collocati alle pareti, senza soluzione di
continuità. Solo alcuni di essi sono stati isolati, a rimarcarne l’importanza. Qui
l’osservatore è sollecitato a fare una sosta maggiore. La visita può iniziare dalla
prima di queste soste.
Tra gli incunaboli della natura morta lombarda figurano due opere che hanno
un’ampia letteratura alle spalle. La prima costituisce uno dei tanti casi irrisolti nella
storia del genere, senza perdere l’importanza che continua a occupare tra le
testimonianze che stanno alla sua origine. Non esiste il dipinto che segna il
passaggio tra la pittura di storia e l’invenzione della natura morta come genere
autonomo. Ma se esistesse avrebbe proprio questa faccia (così almeno è stato
immaginato fin’ora). Credo che tale intuizione risieda nel fatto che l’opera ha un’aria
primitiva e moderna allo stesso tempo. Non a caso intorno al gruppo con cui è stata
associata ogni tanto spunta il nome del cremonese Vincenzo Campi, uno dei
capostipiti della materia. Ma non darei troppo peso a questa attribuzione che spiega
più i meccanismi del mercato contemporaneo piuttosto che l’argomento storico che ci
interessa. Rimane il fatto che rispetto alle prime nature morte di Fede Galizia, tutte
impaginate con un taglio più concentrato e rivestite da ombre dense e profonde, qui
siamo di fronte a un’opera luminosa, quasi metafisica. Ecco l’aspetto che non si può
trovare nella Galizia, di cui risentiamo nei quadri persino il movimento contristato
della messa in posa degli oggetti della sua solitaria rappresentazione. Non si trova
quell’aria tersa e luminosa che dà corpo ai colori freddi e di ghiaccio (da Nuova
Oggettività) del nostro anonimo. In genere si ripete che il primo che avrebbe riferito il
quadro alla scuola del bresciano Alessandro Bonvicino detto “il Moretto” (cioè al suo
allievo Luca Mombello) è stato Stefano Bottari nel 1963. In realtà il riferimento –
acuto e scaltro allo stesso tempo – risale a Giovanni Testori e da allora la vicenda
non ha fatto molti progressi.
Con il quadro di Fede Galizia entriamo in un ambito che comincia a prendere dei
contorni più precisi. L’opera è dipinta su tavola (rispetto alla precedente su tela), un
supporto che rende più smaltate le trasparenze dei colori, intuibili a un’osservazione
ravvicinata (che è quella imposta dalle caratteristiche del dipinto). Non nasce da sola
ma aveva un compagno. Molti di questi quadri in origine erano infatti dipinti in coppia.
È stato detto che il nostro quadro sarebbe di una fase avanzata, forse estrema, nella
carriera della Galizia. Tuttavia i punti fermi nella storia della pittrice sono talmente rari
da suggerire più cautela: esiste un’unica natura morta firmata e datata 1602. Troppo
poco per fare dei ragionamenti cronologici interni, sapendo che l’artista morirà a
Milano verso il 1630.
Per capire qualcosa sul senso del dipinto di Fede Galizia è utile rifarsi a un altro
celebre incunabolo della natura morta lombarda, ovvero alle Pesche, foglie di vite e
piatto argentato di Giovanni Ambrogio Figino, dipinto tra il 1591 e il 1594 e illustrato
Largo Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
da un madrigale di Gregorio Comanini che ha per titolo Sopra la Pittura di alcuni
persichi naturalissimi.
“Madre a noi fu Natura in su’l secondo ramo: / Hor figli a la Pittura, / Frutti in legno
infrutifero qui siamo / E pur s’al color credi, / Spira odor ciò che vedi: / E molli, e dolci,
e morbidetti ogn’hora / L’occhio tuo ne divora. / O’ gentil accortezza, / De la man
ch’eternò fragil bellezza”. Il concetto è abbastanza chiaro e mette in seria crisi l’idea
che dietro le opere della Galizia si nascondano contorti significati religiosi.
Siamo ancora, come diceva Roberto Longhi, “sulla soglia della vera natura morta”.
Per il grande storico dell’arte il punto che segnava simbolicamente il discrimine della
soglia era rappresentato dalle opere di Caravaggio e dalla sua dichiarazione d’intenti
(riferita, intorno al 1617-1618, da Vincenzo Giustiniani) che rompeva ogni tentativo di
gerarchizzazione dei generi: “Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare
un quadro buono di fiori, come di figure”.
Tra le opere del giro caravaggesco figurano qui alcune testimonianze singolari, per la
maggior parte ancora in cerca d’autore. La prima è stata presentata per la prima
volta da Carlo Volpe alla mostra napoletana della Natura morta italiana del 1964. Per
lo studioso il dipinto andava considerato tra i “più importanti ritrovamenti recenti di
nature morte della più antica cerchia caravaggesca”. Il riferimento secco a
Bartolomeo Manfredi significava dargli una datazione nel secondo decennio del
Seicento e, di conseguenza, uno statuto di grande rilievo. Volpe rimarcava
l’essenzialità della rappresentazione, tutta giocata in un risentito gorgo chiaroscurale.
L’unico confronto possibile era stabilito con l’Allegoria delle quattro stagioni di
Bartolomeo Manfredi, nota in due versioni, oggi considerate entrambe autografe.
Fino a qualche tempo fa il pendant con i Tavoli da cucina sarebbe stato schedato
sotto il nome convenzionale del Maestro della fiasca fiorita, l’autore dell’omonimo
dipinto ai Musei Civici di Forlì (almeno per chi credeva all’integrità di quel gruppo
strampalato). Oggi tutto il raggruppamento (fuso con il corpus del Maestro del vaso a
grottesche) è confluito, temporaneamente, nel catalogo di Tommaso Salini. Mao,
com’era chiamato all’epoca, era particolarmente disprezzato da Caravaggio (“può
essere che se diletti e che impiastri lui ancora”) anche se le fonti lo ricordano come
uno specialista del genere: “si mise a far de’ fiori, e de’ frutti e d’altre cose dal
naturale ben’espresse; e fu il primo, che pingesse, e accomodasse i fiori con le foglie
ne’ vasi, con diverse inventioni molto capricciose, e bizzarre, li quali a tutti arrecano
gusto, e con gran genio sì bravamente li faceva, che ne trasse buonissimo
guadagno”. La prima testimonianza risale al processo del 1603 intentato da Giovanni
Baglione, per diffamazione, contro Caravaggio; la seconda è del medesimo Baglione,
contenuta nel volume sulle Vite de’ pittori del 1642. Sono entrambi fonti molto
orientate, nei due sensi opposti.
Ancora più problematico il caso dell’autore della Cesta di zucche, un quadro
d’intensità e qualità non comuni, tanto che ha fatto venire in mente una girandola di
nomi, da Orazio Borgianni a Battistello Caracciolo, fino al Maestro S.B. (PseudoLargo
Porta Nuova, 2 – 24122 Bergamo – Tel. 035 393230 – Cod. Fisc. 95018020164
Salini). I nomi di Borgianni e Battistello sono stati avanzati con l’idea che l’autore del
quadro sia da ricercare tra i seguaci di Caravaggio e che l’opera rappresenti una
sorta di unicum, un’incursione nell’ambito della natura morta fatta da un pittore di
figura. Il Maestro S.B. (Pseudo-Salini) è il nome convenzionale che si dà a un gruppo
di opere di scuola centro-italiana di metà Seicento, in passato riferite a Tommaso
Salini (ecco perché Pseudo-Salini) e che si legherebbero a un dipinto che porta la
sigla S.B. (ecco perché Maestro S.B.). La questione, come si intuisce, è molto
intricata, tuttavia bisognerà forse riflettere sul “grado” di caravaggismo del quadro. Mi
chiedo cioè se era ancora possibile, a Roma, dipingere un’opera con così alta carica
vitale intorno alla metà del secolo? La domanda può risultare oziosa ma forse serve
a mettere in luce la perspicuità della regia luministica che è alla base della
costruzione dell’immagine. L’idea, cioè, di oscurare completamente il fondale, di
rialzare la cesta e di animare la danza delle zucche a trombetta come fossero dei
serpenti che rispondono a un suono incantatorio”.
27
settembre 2012
L’oeil gourmand. Un percorso nella natura morta dal Cinquecento al Novecento
Dal 27 settembre al 19 ottobre 2012
arte antica
Location
PALAZZO CREBERG
Bergamo, Largo Porta Nuova, 2, (Bergamo)
Bergamo, Largo Porta Nuova, 2, (Bergamo)
Orario di apertura
Da lunedì a venerdì (8.20 – 13.20 / 14.50 – 15.50)
Sabato 29 settembre, 6 ottobre e 13 ottobre (14.30 – 20.30) con visite guidate
gratuite (ogni ora, a partire dalle 14.30)
Domenica 30 settembre, 7 ottobre e 14 ottobre (10.30 – 19.30) con visite guidate
gratuite (ogni ora, a partire dalle 10.30)
Vernissage
27 Settembre 2012, h 18
Ufficio stampa
YES PLEASE!
Curatore