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L’Olocausto nell’arte ungherese
L’arte che sopravvive al sopruso e all’annientamento, l’arte che testimonia l’angoscia interiore e l’orrore circostante, e soprattutto l’arte come volontà di mantenere in vita la ricchezza e la varietà della cultura ebraica: è quanto comunicano le opere in mostra a Palazzo Falconieri.
Comunicato stampa
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Con questa mostra, che l’Accademia d’Ungheria ha organizzato con la collaborazione del Museo Ebraico di Budapest e i familiari degli artisti (che hanno messo a disposizione le opere), finalmente si effettua una retrospettiva di un periodo triste ma anche molto importante, un momento in cui l’arte più che mai si è espressa in forme diverse come veicolo della libertà dello spirito e autoaffermazione dell’individuo. L’arte che sopravvive al sopruso e all’annientamento, l’arte che testimonia l’angoscia interiore e l’orrore circostante, e soprattutto l’arte come volontà di mantenere in vita la ricchezza e la varietà della cultura ebraica: è quanto comunicano le opere in mostra a Palazzo Falconieri.
Nell’arte figurativa ungherese dell’inizio del ‘900 hanno avuto un ruolo fondamentale artisti di origini ebree, considerati cittadini ungheresi a tutti gli effetti. Tra il 1938 e il 1939 a causare il primo trauma per molti di loro fu “l’essere classificato ebreo”, nonostante fossero inseriti nella vita culturale e pubblica del Paese; numerosi intellettuali (Béla Bartók, Aurél Bernáth, Zsigmond Móricz) protestarono in nome della cultura magiara contro questa discriminazione. Scultori, pittori, artisti molto celebri furono chiamati ai lavori forzati o al fronte. Ecco alcuni nomi dalla lista degli intellettuali scomparsi: Dávid Jándi, István Örkényi Strasszer, János Schnitzel, Pál Berger Juhász, György Weisz Fehér, e Imre Ámos, il cosiddetto “Chagall magiaro”, che sui fogli scritti e disegnati del suo diario documentò gli orrori e le umiliazioni degli ultimi quattro anni della sua vita, trascorsi ai lavori forzati. Nelle sue opere di quel periodo sopravvive il senso etico, l’emotività, lo stile surrealista, malgrado l’ambiente di disumanità e desolazione che lo circondava.
Molti sopravvissuti hanno lasciato il paese dopo il 1945 (Péter Székely, Tibor Jankay, Béla Bán), altri sono rimasti in Ungheria e sono diventati fautori delle nuove tendenze dell’arte figurativa, come Endre Bálint e Dezső Bokros Birman. Lunga la lista dei morti nei vari campi di concentramento: József Klein, Ernő Tibor, György Goldman, Paula Porter, Bertalan Göndör, Andor Sugár, György Kondor. Uno dei più famosi è il pittore esistenzialista István Farkas, membro dell’École de Paris, che ha avuto molto successo negli anni ’20-30.
Questi i pochi sopravvissuti agli orrori del lager: György Kádár, Ágnes Lukács, Edith Fekete, Imre Pál Erdős, Gyorgy Hegyi, che non sono mai riusciti a liberarsi dai terribili ricordi delle angherie e delle violenze subite.
La vita nel ghetto ha influenzato l’arte di molti, fra cui Lili Ország, Ilka Gedő, Erzsébet Schaár. Artisti come Margit Anna, Marianne Gábor, anche in età avanzata sono stati perseguitati dai ricordi dell’assassinio dei loro cari, finiti con un colpo alla nuca nel Danubio, sotto le finestre delle loro case.
Nell’arte figurativa ungherese dell’inizio del ‘900 hanno avuto un ruolo fondamentale artisti di origini ebree, considerati cittadini ungheresi a tutti gli effetti. Tra il 1938 e il 1939 a causare il primo trauma per molti di loro fu “l’essere classificato ebreo”, nonostante fossero inseriti nella vita culturale e pubblica del Paese; numerosi intellettuali (Béla Bartók, Aurél Bernáth, Zsigmond Móricz) protestarono in nome della cultura magiara contro questa discriminazione. Scultori, pittori, artisti molto celebri furono chiamati ai lavori forzati o al fronte. Ecco alcuni nomi dalla lista degli intellettuali scomparsi: Dávid Jándi, István Örkényi Strasszer, János Schnitzel, Pál Berger Juhász, György Weisz Fehér, e Imre Ámos, il cosiddetto “Chagall magiaro”, che sui fogli scritti e disegnati del suo diario documentò gli orrori e le umiliazioni degli ultimi quattro anni della sua vita, trascorsi ai lavori forzati. Nelle sue opere di quel periodo sopravvive il senso etico, l’emotività, lo stile surrealista, malgrado l’ambiente di disumanità e desolazione che lo circondava.
Molti sopravvissuti hanno lasciato il paese dopo il 1945 (Péter Székely, Tibor Jankay, Béla Bán), altri sono rimasti in Ungheria e sono diventati fautori delle nuove tendenze dell’arte figurativa, come Endre Bálint e Dezső Bokros Birman. Lunga la lista dei morti nei vari campi di concentramento: József Klein, Ernő Tibor, György Goldman, Paula Porter, Bertalan Göndör, Andor Sugár, György Kondor. Uno dei più famosi è il pittore esistenzialista István Farkas, membro dell’École de Paris, che ha avuto molto successo negli anni ’20-30.
Questi i pochi sopravvissuti agli orrori del lager: György Kádár, Ágnes Lukács, Edith Fekete, Imre Pál Erdős, Gyorgy Hegyi, che non sono mai riusciti a liberarsi dai terribili ricordi delle angherie e delle violenze subite.
La vita nel ghetto ha influenzato l’arte di molti, fra cui Lili Ország, Ilka Gedő, Erzsébet Schaár. Artisti come Margit Anna, Marianne Gábor, anche in età avanzata sono stati perseguitati dai ricordi dell’assassinio dei loro cari, finiti con un colpo alla nuca nel Danubio, sotto le finestre delle loro case.
11
ottobre 2004
L’Olocausto nell’arte ungherese
Dall'undici ottobre al 05 novembre 2004
arte contemporanea
Location
ISTITUTO BALASSI – ACCADEMIA D’UNGHERIA – PALAZZO FALCONIERI
Roma, Via Giulia, 1, (Roma)
Roma, Via Giulia, 1, (Roma)
Vernissage
11 Ottobre 2004, ore 19.00