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Loris Di Falco – Ieri sarà Domani
La Key Gallery apre i suoi spazi a Loris Di Falco e presenta una serie di opere inedite frutto degli ultimi mesi di ricerca.
Con i testi di Marco Fantini e Paolo Maggis.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La Key Gallery apre i suoi spazi a Loris Di Falco e presenta una serie di opere inedite frutto degli ultimi mesi di ricerca. Attraverso la sua tecnica di stampa fotografica autoprodotta, una tecnica spuria, grezza che lascia una patina antica e sofferta sull’immagine, l’artista rivisita dei classici della storia dell’arte (Tiziano, David, Velasquez, Giorgione) contaminandoli con immagini del presente e annullandone lo scarto temporale. L’attualizzazione e l’armonizzazione delle tele dei grandi maestri col presente si rafforza ulteriormente tramite la sovrapposizione di disegni infantili, realizzati da alcuni bambini con cui Di Falco ha interagito.
La mostra si avvale dei testi poetico-critici di Marco Fantini e Paolo Maggis, artisti e compagni di strada di Di Falco con i quali ha condiviso gli anni della sua esperienza come gallerista. Testi e riproduzioni delle opere compongono un libro d’artista che verrà distribuito all’inaugurazione.
_____________________________________
Tender is the light
“La vita non è quella che uno ha vissuto, ma quella che ricorda e come la ricorda per raccontarla” .
Gabriel Garcia Marquez
Di norma la mia scrittura è ironica, clinica, spesso beffarda. Non amo infatti, soprattutto nelle questioni d’arte, gli eccessi di pathos e i sentimentalismi. Quindi, questa bella faccenda dell’amico pittore che scrive dell’amico pittore, la risolverò contraddicendo le regole sottese dei rapporti amicali, evitando accuratamente aneddoti, curiosità biografiche, elogi generici ecc., per raccontare in modo diretto e conciso cosa penso degli esiti recenti del lavoro del pittore Di Falco e perché no, della pittura contemporanea in generale.
Molta della pittura contemporanea in questi ultimi anni sembra aver riscoperto l’arte antica. Gli artisti che poggiano la sostanza del loro operare sull’iconografia dei grandi classici della storia dell’arte non si contano più…sono migliaia. La storia, e forse tutte le storie, sembrano aver trovato degna sepoltura nel lifting reiterato della contemporaneità e nella sua volontà di presentarsi, volta per volta, liscia e senza segni di usura, al vertice di quella sospensione temporale che siamo soliti chiamare Attualità. Si tratta a mio giudizio di un processo di fagocitazione attraverso il quale nella maggior parte dei casi, la classicità viene recuperata, rimasticata, modificata e ritirata a lucido attraverso un violento processo di espropriazione. Nella maggioranza dei casi tutto ciò avviene per onesta vanità, solida presunzione o mancanza d’ispirazione, ma credo che una gran parte delle sue ragioni si debba attribuire alla facile riconoscibilità dei canoni ed alla presa che opere di suddetto tipo generano su un pubblico in crisi di identità; ovvero, alla loro facile commerciabilità. In altri rari casi invece il problema non si pone poiché l’immagine iconografica citata subisce da parte dell’autore un’azione estraniante i cui effetti sembrano ricadere sull’autore stesso anziché sull’opera citata. Si tratta di casi nei quali l’intimità profonda dell’artista è fortemente presente nell’opera sottoforma di struttura fondante della genesi o come sostitutivo iconografico di una memoria scomoda o comunque troppo “intima” per essere rappresentata. Loris a mio giudizio appartiene a quest’ultima fascia d’artisti e credo che nelle sue opere, il senso ultimo della citazione sia da ricercare al di fuori della pelle del dipinto, ovvero in quell’area di spazio invisibile all’occhio che determina la realizzazione del suo fantasma. (il fantasma dell’opera?). Sicuramente la citazione ne è parte estetica integrante, e su questo tendo a mantenere delle riserve di perplessità, ma, a mio giudizio, non ne costituisce il principio primo. Conosco Loris da anni e so bene che ha sempre lavorato sulla memoria (la sua) e che questa nostalgia gli appartiene profondamente. Ricordo i suoi lavori su Milano, i palazzi sui quali adagiava le veneri inquietanti della malinconia. Ricordo bene le giornate dedicate alla fotografia, alla ricerca del punto privilegiato sul quale innestare le tracce pittoriche del suo percorso personale di uomo ancor prima che di artista. So che ama questa città poiché nei momenti più difficili sembra restituirgli un appoggio fondamentale e mi sembra di intuire che, seppur conflittuale, il suo rapporto con la geografia dei suoi anni Milanesi sia il fondamento e la rete di protezione attraverso il quale riesce a dare senso e valore alle cose del suo vissuto presente. Da tale geografia non vanno escluse la passione per la Poesia, (ricordo “Zone”, la grande mostra collettiva da lui ideata sulle tracce dello spleen parigino di Apollinaire), il cinema d’autore, (Antonioni, Fellini e Wenders in primis…aggiungerei), i grandi classici della letteratura (Musil ed il suo “ Uomo senza qualità” , le “Memorie di un clown” di Böll). Gli spiriti guida di tali passioni, gli autori sopra citati hanno in comune tra loro il fatto di aver messo in scena, attraverso lo strumento mnemonico delle grandi città e dei loro monumenti, esistenze estranee a se stesse e al mondo, appese alla realtà attraverso il filo sottile della nostalgia. E di nostalgia e tenerezza, a dispetto dello scorbutico Loris, nelle opere del pittore Di Falco se ne respira tantissima.
Roberto Fantini
Lacerazioni.
Verticali e orizzontali.
Slabbrate e violate straziano la superficie disegnando una gabbia ortogonale imprecisa.
Il tempo, di o dai.
Impone il suo calcolo, rigido e inesatto sul fluire.
L’eterna corrente*.
Calcoliamo tutto secondo strutture meccaniche che si mantengono sempre uguali.
Prima così non era: le 12 sezioni scandivano dall’alba al tramonto così che le giornate estive eran più lunghe di quelle invernali.
Era il sole a decidere, sia quando girava intorno alla terra, sia quando abbiamo deciso che forse era meglio che fosse la terra a girarci attorno.
Il grigio assapora la sua vittoria sul brulicare del colore.
Il grigio freddo di un corpo che muore, tumefatto dall’assenza di calore.
Il sangue non scorre più, il movimento tace, il calore scema.
Il tempo stesso è calore, tutto passa dal caldo al freddo e non viceversa.
Viceversa è un assurdo, una frizione inadeguata, non si può ridar vita a qualcosa che è morto.
Ma cos’è poi la morte se non ghiaccio che si scioglie per diventare acqua?
Lazzaro forse era semplicemente in coma mentre il sangue di Marat si raffredda raggrumandosi sul braccio che scivola verso la piuma.
Dal rosso al bruno. E poi nero.
Forse un giorno anche i colori di un disegno di un bambino si raffredderanno, o forse è già successo.
Nella memoria il passato non esiste.
Si consolida come un presente, un pezzetto di presente sciupato e avvilito dalla mancanza di calore.
Perché il presente è pieno di desiderio.
E a volte di disperazione che poi è solo l’espressione di un desiderio spezzato.
Forse verrà domani.
Ma domani non esiste.
Solo oggi, un coagulo annerito di cose sedimentate dove pescare e mostrare (mostrarsi) per credere di aver vissuto.
La chiamano storia.
Ti ricordi cosa hai mangiato una settimana fa?
No.
Ma da piccolo correvo con la mia automobilina a pedali in zona Brera, ora solo stronzi vestiti a nuovo che pensano di valere qualcosa e non sanno di essere già coaguli neri su una piastrella in un cesso della Stazione Centrale.
Icari dalle ali di piombo.
E mentre la signora delle pulizie passa lo straccio lasciando dietro a sè l’odore della candeggina Dedalo ammazza un altro Calos.
Un altro dei tanti, di quelli che di ali non hanno mai avuto bisogno perché erano le loro opere a volare.
E il tempo se ne va, o non c’è mai stato.
C’è solo per chi non sa cosa sia vivere, o forse chi di vita non ha.
È già passato ed io son già morto anche se vivo, vivo nella mia stessa morte.
Proiettato in quel buco nero che diventa confine dello stesso senso del tempo.
Nella grammatica elementare delle cose non c’è distinzione tra “causa” ed “effetto”**, esiste solo lo stato presente, catalizzatore di futuri e passati che non cambiano, condensati nella persistenza dell’essere delle cose immutabile.
Noi guardiamo da fuori accecati, abbagliati forse e forse storditi.
Osserviamo confini sfuocati pensando di essere misura, ritaglio, griglia sgualcita e stuprata della realtà.
E mentre moriamo ci dimentichiamo della vita, ci dimeniamo mentre dovremmo solo prendere un gessetto e disegnare sull’asfalto grigio qualcosa che è esistito, o che forse esisterà, o che forse è sempre esistito.
Aspettando che la pioggia estiva con il suo odore che sa di redenzione lo porti via.
Per poi disegnare ancora.
Oggi siamo tutto, domani sarà ieri e ieri sarà domani.
Nota: questo testo è dedicato a Loris, alla grande amicizia che ci lega, per aver creduto in un sogno che era e sarà, in definitiva è il mio ma anche il suo. Perché il sogno non venga sciupato dal tempo e rimanga lì, fermo nell’eternità ad osservarci e ricordarci che nessuna categoria vale, se non quella del nostro desiderio.
* cit. Rainer Maria Rilke
**L’ordine del tempo, Carlo Rovelli, Adelphi 2015
Paolo Maggis
La mostra si avvale dei testi poetico-critici di Marco Fantini e Paolo Maggis, artisti e compagni di strada di Di Falco con i quali ha condiviso gli anni della sua esperienza come gallerista. Testi e riproduzioni delle opere compongono un libro d’artista che verrà distribuito all’inaugurazione.
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Tender is the light
“La vita non è quella che uno ha vissuto, ma quella che ricorda e come la ricorda per raccontarla” .
Gabriel Garcia Marquez
Di norma la mia scrittura è ironica, clinica, spesso beffarda. Non amo infatti, soprattutto nelle questioni d’arte, gli eccessi di pathos e i sentimentalismi. Quindi, questa bella faccenda dell’amico pittore che scrive dell’amico pittore, la risolverò contraddicendo le regole sottese dei rapporti amicali, evitando accuratamente aneddoti, curiosità biografiche, elogi generici ecc., per raccontare in modo diretto e conciso cosa penso degli esiti recenti del lavoro del pittore Di Falco e perché no, della pittura contemporanea in generale.
Molta della pittura contemporanea in questi ultimi anni sembra aver riscoperto l’arte antica. Gli artisti che poggiano la sostanza del loro operare sull’iconografia dei grandi classici della storia dell’arte non si contano più…sono migliaia. La storia, e forse tutte le storie, sembrano aver trovato degna sepoltura nel lifting reiterato della contemporaneità e nella sua volontà di presentarsi, volta per volta, liscia e senza segni di usura, al vertice di quella sospensione temporale che siamo soliti chiamare Attualità. Si tratta a mio giudizio di un processo di fagocitazione attraverso il quale nella maggior parte dei casi, la classicità viene recuperata, rimasticata, modificata e ritirata a lucido attraverso un violento processo di espropriazione. Nella maggioranza dei casi tutto ciò avviene per onesta vanità, solida presunzione o mancanza d’ispirazione, ma credo che una gran parte delle sue ragioni si debba attribuire alla facile riconoscibilità dei canoni ed alla presa che opere di suddetto tipo generano su un pubblico in crisi di identità; ovvero, alla loro facile commerciabilità. In altri rari casi invece il problema non si pone poiché l’immagine iconografica citata subisce da parte dell’autore un’azione estraniante i cui effetti sembrano ricadere sull’autore stesso anziché sull’opera citata. Si tratta di casi nei quali l’intimità profonda dell’artista è fortemente presente nell’opera sottoforma di struttura fondante della genesi o come sostitutivo iconografico di una memoria scomoda o comunque troppo “intima” per essere rappresentata. Loris a mio giudizio appartiene a quest’ultima fascia d’artisti e credo che nelle sue opere, il senso ultimo della citazione sia da ricercare al di fuori della pelle del dipinto, ovvero in quell’area di spazio invisibile all’occhio che determina la realizzazione del suo fantasma. (il fantasma dell’opera?). Sicuramente la citazione ne è parte estetica integrante, e su questo tendo a mantenere delle riserve di perplessità, ma, a mio giudizio, non ne costituisce il principio primo. Conosco Loris da anni e so bene che ha sempre lavorato sulla memoria (la sua) e che questa nostalgia gli appartiene profondamente. Ricordo i suoi lavori su Milano, i palazzi sui quali adagiava le veneri inquietanti della malinconia. Ricordo bene le giornate dedicate alla fotografia, alla ricerca del punto privilegiato sul quale innestare le tracce pittoriche del suo percorso personale di uomo ancor prima che di artista. So che ama questa città poiché nei momenti più difficili sembra restituirgli un appoggio fondamentale e mi sembra di intuire che, seppur conflittuale, il suo rapporto con la geografia dei suoi anni Milanesi sia il fondamento e la rete di protezione attraverso il quale riesce a dare senso e valore alle cose del suo vissuto presente. Da tale geografia non vanno escluse la passione per la Poesia, (ricordo “Zone”, la grande mostra collettiva da lui ideata sulle tracce dello spleen parigino di Apollinaire), il cinema d’autore, (Antonioni, Fellini e Wenders in primis…aggiungerei), i grandi classici della letteratura (Musil ed il suo “ Uomo senza qualità” , le “Memorie di un clown” di Böll). Gli spiriti guida di tali passioni, gli autori sopra citati hanno in comune tra loro il fatto di aver messo in scena, attraverso lo strumento mnemonico delle grandi città e dei loro monumenti, esistenze estranee a se stesse e al mondo, appese alla realtà attraverso il filo sottile della nostalgia. E di nostalgia e tenerezza, a dispetto dello scorbutico Loris, nelle opere del pittore Di Falco se ne respira tantissima.
Roberto Fantini
Lacerazioni.
Verticali e orizzontali.
Slabbrate e violate straziano la superficie disegnando una gabbia ortogonale imprecisa.
Il tempo, di o dai.
Impone il suo calcolo, rigido e inesatto sul fluire.
L’eterna corrente*.
Calcoliamo tutto secondo strutture meccaniche che si mantengono sempre uguali.
Prima così non era: le 12 sezioni scandivano dall’alba al tramonto così che le giornate estive eran più lunghe di quelle invernali.
Era il sole a decidere, sia quando girava intorno alla terra, sia quando abbiamo deciso che forse era meglio che fosse la terra a girarci attorno.
Il grigio assapora la sua vittoria sul brulicare del colore.
Il grigio freddo di un corpo che muore, tumefatto dall’assenza di calore.
Il sangue non scorre più, il movimento tace, il calore scema.
Il tempo stesso è calore, tutto passa dal caldo al freddo e non viceversa.
Viceversa è un assurdo, una frizione inadeguata, non si può ridar vita a qualcosa che è morto.
Ma cos’è poi la morte se non ghiaccio che si scioglie per diventare acqua?
Lazzaro forse era semplicemente in coma mentre il sangue di Marat si raffredda raggrumandosi sul braccio che scivola verso la piuma.
Dal rosso al bruno. E poi nero.
Forse un giorno anche i colori di un disegno di un bambino si raffredderanno, o forse è già successo.
Nella memoria il passato non esiste.
Si consolida come un presente, un pezzetto di presente sciupato e avvilito dalla mancanza di calore.
Perché il presente è pieno di desiderio.
E a volte di disperazione che poi è solo l’espressione di un desiderio spezzato.
Forse verrà domani.
Ma domani non esiste.
Solo oggi, un coagulo annerito di cose sedimentate dove pescare e mostrare (mostrarsi) per credere di aver vissuto.
La chiamano storia.
Ti ricordi cosa hai mangiato una settimana fa?
No.
Ma da piccolo correvo con la mia automobilina a pedali in zona Brera, ora solo stronzi vestiti a nuovo che pensano di valere qualcosa e non sanno di essere già coaguli neri su una piastrella in un cesso della Stazione Centrale.
Icari dalle ali di piombo.
E mentre la signora delle pulizie passa lo straccio lasciando dietro a sè l’odore della candeggina Dedalo ammazza un altro Calos.
Un altro dei tanti, di quelli che di ali non hanno mai avuto bisogno perché erano le loro opere a volare.
E il tempo se ne va, o non c’è mai stato.
C’è solo per chi non sa cosa sia vivere, o forse chi di vita non ha.
È già passato ed io son già morto anche se vivo, vivo nella mia stessa morte.
Proiettato in quel buco nero che diventa confine dello stesso senso del tempo.
Nella grammatica elementare delle cose non c’è distinzione tra “causa” ed “effetto”**, esiste solo lo stato presente, catalizzatore di futuri e passati che non cambiano, condensati nella persistenza dell’essere delle cose immutabile.
Noi guardiamo da fuori accecati, abbagliati forse e forse storditi.
Osserviamo confini sfuocati pensando di essere misura, ritaglio, griglia sgualcita e stuprata della realtà.
E mentre moriamo ci dimentichiamo della vita, ci dimeniamo mentre dovremmo solo prendere un gessetto e disegnare sull’asfalto grigio qualcosa che è esistito, o che forse esisterà, o che forse è sempre esistito.
Aspettando che la pioggia estiva con il suo odore che sa di redenzione lo porti via.
Per poi disegnare ancora.
Oggi siamo tutto, domani sarà ieri e ieri sarà domani.
Nota: questo testo è dedicato a Loris, alla grande amicizia che ci lega, per aver creduto in un sogno che era e sarà, in definitiva è il mio ma anche il suo. Perché il sogno non venga sciupato dal tempo e rimanga lì, fermo nell’eternità ad osservarci e ricordarci che nessuna categoria vale, se non quella del nostro desiderio.
* cit. Rainer Maria Rilke
**L’ordine del tempo, Carlo Rovelli, Adelphi 2015
Paolo Maggis
21
febbraio 2019
Loris Di Falco – Ieri sarà Domani
Dal 21 febbraio al 06 marzo 2019
arte contemporanea
Location
KEY GALLERY
Milano, Via Pietro Borsieri, 12, (Milano)
Milano, Via Pietro Borsieri, 12, (Milano)
Orario di apertura
da mar a sab 15 | 19
per appuntamenti: info@keygallery.eu
Vernissage
21 Febbraio 2019, h 18.30
Autore
Curatore