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Luca Bendini – Fuori scala
La sua pittura concretamente prende forma, stravolge il concetto tradizionale del dipingere che nasce come atto di sfondamento immaginario e illusionistico, e occupa non solo otticamente ma fisicamente lo spazio, attivandolo
Comunicato stampa
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Luca Bendini, anche se non si direbbe, è pittore. Usa gli strumenti tradizionali del mestiere, pennelli e spatole, e stende stucchi a base di polvere di marmo e colla, aggiunge all’impasto sabbie, sassolini, vetro sbriciolato, a seconda della ruvidità o della granulosità che vuole ottenere.
La sua pittura concretamente prende forma, stravolge il concetto tradizionale del dipingere che nasce come atto di sfondamento immaginario e illusionistico, e occupa non solo otticamente ma fisicamente lo spazio, attivandolo. Non è una finestra sull’altrove, ma luogo di un’apparizione che emerge da un infinito di materia, sconosciuto e amato, da un “oltre” dove reale e immaginario non hanno tra loro che diafani velari. Scavati dalla luce gli spazi-figure, rivelati, dettano una distanza.
I Monumenti, sogni o incubi che trovano definizione materica e i Ritratti, figure in interni “realtà viste nella dilatazione di uno spazio incantato” sono realizzati con un processo indiretto, in negativo: “per ottenere una linea non la traccio direttamente ma la otterrò costruendo lo spazio che la circonda”. Un procedere intenzionalmente tortuoso e complesso: “la mia sensazione è che ottenere indirettamente qualcosa, intendendo la pittura come una trappola per far accadere l’evento, aumenti l’erotismo e l’ostacolo accresca la sensualità della materia”. È un lavoro lento, necessario, dove tra un gesto e l’altro le pause sono essenziali, ineludibili, tra una fase e l’altra possono intercorrere talora mesi. Con carte vetrate e altri strumenti abrasivi Luca Bendini toglie materia lavorando per sottrazione. L’immagine nella sua limpidezza visionaria scaturisce da una lotta infinita tra gli opposti (etereo/incarnato, nascosto/svelato, tenebra/luce, pieno/vuoto) e si libera contrastando e assecondando, adombrando o evidenziando “gli accidenti del terreno e la resistenza della materia”.
I lavori sono decentrati rispetto alla centralità dello spettatore, e di dimensioni tali da attrarre lo sguardo a penetrare nell’asimmetria dell’inespresso. Sono opere “fuori scala”, spesso concepite per altre dimensioni, prefigurazioni potenziali, work in progress, il cui formato, contratto, può dilatarsi incontrando uno spazio diverso.
Algide o terrose, le sue opere sono sempre sensuali. Il fascino della distanza, anche nei Cammei, evoca il misterioso anelito ad una bellezza platonica, lucente, terribile.
L’immagine è ottenuta in negativo e poi “glassata” con colate di resina trasparente o colorata. Da un abisso d’ignoto emerge un idolo da cui si sprigiona una forza remota, come da un Ade o da un Limbo, da un regno dei daimon della terra, dal dominio dell’indistinto e dell’oscurità, da una notte di sospensione e languore. I Cammei mi fanno pensare alla parola greca eudaimonia che è un’accezione di “felicità” il cui etimo riunisce il buono e il demone (eu daimon), alla delizia scura di un preludio in mi minore, alla vertigine che ammalia (bene e male, sacro e profano impastano da sempre i nostri atti), alla perfezione instabile e perturbante della femminea, sinuosa metafora dell’ovale. A quello che Luca Bendini chiama la “divinità del desiderio”.
Non sono discrete le sue creazioni: “s’incuneano a forza nello spazio reale di un interno da un al di fuori immaginario che spinge, preme, tiene sotto pressione la realtà”.
Il suo lavoro è bello e ricco. Raffinato e potente. Magnetizzati, siamo risucchiati, chiamati a tuffarci, immergerci, affondare nel sottile e aguzzo fascino dell’emozione estetica fino ad entrare a sfiorarne il senso. Per poi attendere che l’opera ci si manifesti e contemplare in essa il nostro essere nel mondo.
L’arte è incanto, sostanza vitale che alimenta l’esistenza e, parafrasando lo scrittore Stephen Vizinczey, l’arte davvero “non è quella che ci dice di non giocare col fuoco, ma è quella che ci brucia le dita”.
Myriam Zerbi
La sua pittura concretamente prende forma, stravolge il concetto tradizionale del dipingere che nasce come atto di sfondamento immaginario e illusionistico, e occupa non solo otticamente ma fisicamente lo spazio, attivandolo. Non è una finestra sull’altrove, ma luogo di un’apparizione che emerge da un infinito di materia, sconosciuto e amato, da un “oltre” dove reale e immaginario non hanno tra loro che diafani velari. Scavati dalla luce gli spazi-figure, rivelati, dettano una distanza.
I Monumenti, sogni o incubi che trovano definizione materica e i Ritratti, figure in interni “realtà viste nella dilatazione di uno spazio incantato” sono realizzati con un processo indiretto, in negativo: “per ottenere una linea non la traccio direttamente ma la otterrò costruendo lo spazio che la circonda”. Un procedere intenzionalmente tortuoso e complesso: “la mia sensazione è che ottenere indirettamente qualcosa, intendendo la pittura come una trappola per far accadere l’evento, aumenti l’erotismo e l’ostacolo accresca la sensualità della materia”. È un lavoro lento, necessario, dove tra un gesto e l’altro le pause sono essenziali, ineludibili, tra una fase e l’altra possono intercorrere talora mesi. Con carte vetrate e altri strumenti abrasivi Luca Bendini toglie materia lavorando per sottrazione. L’immagine nella sua limpidezza visionaria scaturisce da una lotta infinita tra gli opposti (etereo/incarnato, nascosto/svelato, tenebra/luce, pieno/vuoto) e si libera contrastando e assecondando, adombrando o evidenziando “gli accidenti del terreno e la resistenza della materia”.
I lavori sono decentrati rispetto alla centralità dello spettatore, e di dimensioni tali da attrarre lo sguardo a penetrare nell’asimmetria dell’inespresso. Sono opere “fuori scala”, spesso concepite per altre dimensioni, prefigurazioni potenziali, work in progress, il cui formato, contratto, può dilatarsi incontrando uno spazio diverso.
Algide o terrose, le sue opere sono sempre sensuali. Il fascino della distanza, anche nei Cammei, evoca il misterioso anelito ad una bellezza platonica, lucente, terribile.
L’immagine è ottenuta in negativo e poi “glassata” con colate di resina trasparente o colorata. Da un abisso d’ignoto emerge un idolo da cui si sprigiona una forza remota, come da un Ade o da un Limbo, da un regno dei daimon della terra, dal dominio dell’indistinto e dell’oscurità, da una notte di sospensione e languore. I Cammei mi fanno pensare alla parola greca eudaimonia che è un’accezione di “felicità” il cui etimo riunisce il buono e il demone (eu daimon), alla delizia scura di un preludio in mi minore, alla vertigine che ammalia (bene e male, sacro e profano impastano da sempre i nostri atti), alla perfezione instabile e perturbante della femminea, sinuosa metafora dell’ovale. A quello che Luca Bendini chiama la “divinità del desiderio”.
Non sono discrete le sue creazioni: “s’incuneano a forza nello spazio reale di un interno da un al di fuori immaginario che spinge, preme, tiene sotto pressione la realtà”.
Il suo lavoro è bello e ricco. Raffinato e potente. Magnetizzati, siamo risucchiati, chiamati a tuffarci, immergerci, affondare nel sottile e aguzzo fascino dell’emozione estetica fino ad entrare a sfiorarne il senso. Per poi attendere che l’opera ci si manifesti e contemplare in essa il nostro essere nel mondo.
L’arte è incanto, sostanza vitale che alimenta l’esistenza e, parafrasando lo scrittore Stephen Vizinczey, l’arte davvero “non è quella che ci dice di non giocare col fuoco, ma è quella che ci brucia le dita”.
Myriam Zerbi
05
marzo 2005
Luca Bendini – Fuori scala
Dal 05 marzo al 04 aprile 2005
arte contemporanea
Location
GALLERIA MICHELA RIZZO PROJECT ROOM
Venezia, Calle Degli Albanesi, 4254, (Venezia)
Venezia, Calle Degli Albanesi, 4254, (Venezia)
Orario di apertura
martedì 10-12.30, da martedì a sabato 16.30-19.30, e su appuntamento
Vernissage
5 Marzo 2005, ore 18,30
Autore
Curatore