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Luca De Leva – Ho perso gli anelli, ma mi restano le dita
In occasione dell’apertura della nuova sede di Room Galleria, via Francesco Hayez n.4 Milano, inizia la programmazione con la mostra personale di Luca De Leva.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Tutto è iniziato mercoledì 21 settembre 2011, dopo il mio arrivo nella casa di Gemmayze, sopra il
ristorante InBeirut, al secondo piano. Entrambi credevamo di conoscere quello che stava per accadere,
ma non era cosi, niente poteva essere prevedibile, niente pianificabile, come in qualsiasi viaggio dove le
tappe sono decise, a differenza degli imprevisti. Parlavamo, i sorrisi erano sommessi, gli occhi
sembravano graffi, quei momenti mi ricordavano le cene con una donna, dove ogni battuta, ogni
sguardo incrociato e ogni movimento impacciato rimandano all’inesorabile finale pieno di carne. La
prima cosa che ci siamo scambiati sono state le chiavi di casa, ognuno leggeva la lista che l’altro gli
aveva scritto, la mia era sul retro di un manifesto recuperato nel palazzo dov’ero in residenza, la sua era
blu: password, email, nome, età, impegni imminenti, amici, chi è chi, chi è cosa per te, chi sei tu per loro.
La mia: password, email, pochi impegni, modi per dimenticare, meditazioni autodidatte, chi è chi, chi sei
tu per loro, ricerca forzata di abitudini libanesi. Ci scambiamo le scarpe, avevamo entrambi il 44, i vestiti
erano così diversi, io non mi sposto dall’anonimato, lui invece adora le fantasie a righe e a quadri, i
colori sgargianti e il gusto pacchiano che si riflette nel caldo mediterraneo, ma lui è norvegese.
Jorgen Ekvoll
http://www.facebook.com/ekvoll
http://www.aljarida.it/articolo/14-motivi-per-camminare
norvegese, 1981, Oslo,
Appena ci saremmo svegliati tutto sarebbe iniziato. Quella notte i sogni sono stati pazzi, io ero una testa
all’altezza del soffitto di questa stanza gialla, parlavo con un’altra testa vagamente mora e giapponese,
da sotto il suo collo si estendeva un panneggio bianco messo come se lei lo stesse tenendo con le mani
nella posizione della riverenza. Non ricordo cosa ci stessimo dicendo, so solo che lei si muoveva
ondeggiando e ogni volta che sfiorava il soffitto con i capelli lasciava una traccia grigia fumosa, che
sporcava l’intonaco con odore di grafite. Aperti gli occhi mi sono ritrovato solo in quello che doveva
essere ufficialmente il mio letto, come poter sentire mie una serie di abitudini cosi definite da un altro?
Ricordarsi di preparare un buon ritorno al mio coinquilino nonché mio migliore amico con cui ho
attraversato a piedi il libano da nord a sud, non gettare la carta nel water, non alzare la musica nel lato
destro della casa, spegnere sempre la bombola del gas per evitare che saltasse tutto in aria, succhiare
snuss al posto delle sigarette, vestirmi in modo assurdo sentendomi una specie di arlecchino in versione
pappone in miseria, il poco cibo in casa, formaggio spalmabile, pane da arrotolare e tutte le altre
particolari attenzioni che sapevo avrei dovuto avere erano una questione di pura apparenza, un
involucro che avrebbe dovuto raccogliere e tenere unita una persona la cui coscienza desiderava essere
una ballerina tra corpi da riempire. Dire scambiamoci la vita, può voler dire tutto e niente, era chiaro nel
progetto, ma nella realtà si è rivelato molto più intenso, molto più lungo e molto più l’opposto di quello
che credevo essere. Volevo dimenticarmi, volevo fare un regalo al figlio che ancora non ho, iniziare ad
iniettarmi la memoria di un cambiamento, della mutazione guidata e voluta, non ho nessun desiderio
megalomane, odio gli esaltati e nessun ideale mi spinge. La mia è una necessità biopersonale. Volevo
dimenticare luca de leva, volevo iniziare a far esistere solo un corpo abile a svuotarsi e ricomporsi ogni
volta che lo volessi, non basta ricordare, facciamolo. E quindi tutto era iniziato. Dopo una serie di
pensieri tra le lenzuola mi sono messo a lavorare al computer, con penna e tavoletta, nel mio ufficio, che
era costellato di libri sul medioriente, gli ebrei, teorie di complotto, bibbie, storie sacre di varie culture e
tecniche varie di meditazione, leggendo i titoli pensavo che alcuni sarebbero potuti essere anche miei,
no, così non andava, perchè io non ero più io, non c’era quell’io cui mi riferivo, ma anche se Luca non
esisteva non potevo sentirmi Jorgen, cercavo di sentirmi chiunque, un campo sterminato di zolle
spalancate. Mentre camminavo per strada il secondo giorno ho avuto la prima crisi, indossavo dei
pinocchietti a righe verde pisello e una maglietta bianca, scarpe nere e cuffie gialle, la musica elettronica
picchiava le mie orecchie, ero confuso, avevo mangiato pesante come sempre in Libano, carne
maledetta, camminavo da un paio d’ore, ma il Beirut art center non lo trovavo , ero stanco, stanco morto,
faceva un caldo improponibile, ho visto bianco, un cerchio alla testa fortissimo, mi sono dovuto
appoggiare al muretto al mio fianco, non capivo più niente, ma che stavo facendo? Aveva senso?
Smettila di giocare con le parole, entra nel linguaggio e modificalo da dentro, il linguaggio siamo io e te,
perchè noi lo comprendiamo, il nostro corpo è un ottimo materiale, con tutto quello che ne consegue.
Quella è stata la prima crisi, non era facile curarla, mi mancavo molto, forse sono conservatore dentro
ed è per questo che necessitavo di DMF, ero combattuto, non volevo trasgredire all’unica regola che mi
ero dato, non ero luca, non ero nessuno, non mi importa di quello che è gia sentito, io ero il pioniere
della mutazione ed ero riuscito a trovare un ignaro adepto della mia teoria, tutto quello che cerco di far
passare per strampalato in me, di inattendibile, di inaffidabile, è solo la scorza che i veri amanti possono
scalfire; parente di chi muta e che dal passato ha soffiato fino ai nostri giorni. Avevo mal di pancia, un
senso di distanza primitiva da tutto quello che conoscevo di me, ed erano passati solo due giorni, stavo
accasciato al muretto sul bordo di quella stradona larga, avvelenata e trafficata, quanto rumore facevano
i clacson e quanto rumore faceva la mia testa. Implodevo ed esplodevo, forse è per questo che tornato
in Italia pesavo cinque chili in meno, mi stavo schiacciando, mi stavo spremendo, avrei dovuto
raccogliere l’olio e farne dei ghiaccioli. Andando in giro per i locali di Beirut, vestito in quel modo diciamo
carnevalesco, incontrai diverse persone, a volte mi presentavo come jorgen il norvegese, a volte evitavo
le risposte. I momenti migliori erano pero quelli in cui incontravo Luca, si finiva spesso intorno ai tavoli
dell’Em Nazhim, ubriaco di arak, a parlare in gruppo, ecco, non è facile parlare di sè stessi in terza
persona, soprattutto se chi ti fa le domande non capisci se le sta facendo a te o a chi abitava
quell’immagine prima di te, chiedere come sta la sua ragazza e avere in questo unico modo informazioni
su di lei, si generavano bolle di confusione in noi e in tutte le persone intorno, l’esperimento si
espandeva a macchia d’olio, siamo un’intrecciata mailing list dal vivo, ci formiamo come unico
organismo e solo cosi possiamo essere, la percentuale dell’idea che non mi appartiene è quella che la
mette in relazione con il mondo e le da significato, non posso pensare una cosa che non conosco,
sicchè quello che non conosco non esiste, è per questo che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del
mio tempo. Ci sono stati molti momenti divertenti, come quando ho fatto gli auguri a mio padre per il suo
compleanno, non credevo che riuscissi a creare battute in norvegese, ma sembrava divertirsi dalle
risposte che mi dava, si parlava di un suo viaggio in Egitto durante i mesi successivi e della possibilità di
ballare con i coccodrilli del Nilo. Lo stesso fece Luca in quel momento, rispondendo alle mail, la cosa
strana è che iniziavano sempre con un italiano corretto per poi finire in frasi che pur impegnandosi non
avevano nessuna logica costruttiva, noi decostruivamo noi stessi tanto quanto la sintassi grammaticale
della lingua dell’altro. Fantastico leggere tutto questo una volta tornato indietro nel mio corpo, inutile
farlo leggere ad altri, l’esperienza funziona nel momento in cui avviene, solo ripetendola se ne può
carpire il senso profondo. Esperienza profonda, molto più di quanto pensassi, alternavo momenti di
eccitamento infantile a fasi di vuoti totali; mia madre e Carolina, senza essersi mai parlate mi hanno
riportato la stessa cosa –tu eri come morto, era una distanza siderale quella tra noi, incolmabile,
inarrivabile, il fatto che ci fosse un altro al tuo posto rendeva impossibile elaborare il lutto, perché ad
ogni tentativo di contatto arrivava puntuale una risposta, che talaltro aveva sempre il tono adatto al tipo
di domanda, i tentativi di contatto non hanno mai smesso di arrivare, una tomba virtuale, il profilo di un
angelo. Una settimana può sembrare poco, non lo è. La prima volta che incrociai luca lui recitava a fare
l’italiano, metteva in atto tutti gli stereotipi tipici, la seconda volta che l’ho incontrato stava impazzendo,
era scuro in viso e non riusciva più a vivere mentendo, credo che li la cosa stesse iniziando a funzionare
anche per lui, è un viaggio nel ghiaccio, la cosa più fredda che abbia mai provato. La profondità abissale
in cui ci si spinge porta la temperatura sotto la soglia sopportabile. Più cercavo di dimenticare me stesso
e più mi calavo in profondità, verso gli ultimi giorni mi ritrovai perso nei miei pensieri, avevo ricordi della
mia adolescenza che riaffioravano alla mente in modo spontaneo, cose quasi rimosse, alle quali non
avrei mai pensato, è stato forte, forse la cosa più assurda di tutte, gli occhi rovesciati, non abbiamo
bisogno di specchi per guardarci le spalle. L’interzona non mi era mai stata così familiare, mi sentivo la
sezione tra gli insiemi, la deriva necessaria allo scopo, ho provato a unire orizzontalmente le due chiavi
degli appartamenti e guardare nello spazio che ne deriva, lo continuo a fare circa ogni giorno. Non
crediamo più nei telescopi, ma nelle trasparenze della pelle che mi hanno fatto scoprire il quorum
sensig, parole prima sconosciute mi hanno fatto pensare alla vera natura che mi gonfia la fronte, ho
raccolto parecchio materiale da questa esperienza, posso soddisfare il bisogno di oggetti con varie
forme e in modi diversi, ma quelli che preferisco sono due. Parzialmente convinto di possedere solo il
mio corpo e il mio tempo, in ogni caso sono le sole due cose che percepisco esserci con certezza, gli
unici materiale necessari da plasmare – e come piace a loro farsi toccare, godono urlando quando le
mie mani ne afferrano le forme viscide in un bavoso attaccamento ad una bolla di gomma –
rappresentare, nel senso di svolgere le proprie funzioni in nome di altri, quello che davvero può saziarmi
è sapere che la mia stessa volontà possa ripetersi in altre storie, sto creando un’agenzia di viaggi
chiamata Thy Self People, persone che vogliono passare un periodo nella vita di un’altra, mentre l’altra
ne stupra la propria, per ora siamo in una ventina.
Affronto fisicamente un’idea, finché questa mi possiede.
LDL
ristorante InBeirut, al secondo piano. Entrambi credevamo di conoscere quello che stava per accadere,
ma non era cosi, niente poteva essere prevedibile, niente pianificabile, come in qualsiasi viaggio dove le
tappe sono decise, a differenza degli imprevisti. Parlavamo, i sorrisi erano sommessi, gli occhi
sembravano graffi, quei momenti mi ricordavano le cene con una donna, dove ogni battuta, ogni
sguardo incrociato e ogni movimento impacciato rimandano all’inesorabile finale pieno di carne. La
prima cosa che ci siamo scambiati sono state le chiavi di casa, ognuno leggeva la lista che l’altro gli
aveva scritto, la mia era sul retro di un manifesto recuperato nel palazzo dov’ero in residenza, la sua era
blu: password, email, nome, età, impegni imminenti, amici, chi è chi, chi è cosa per te, chi sei tu per loro.
La mia: password, email, pochi impegni, modi per dimenticare, meditazioni autodidatte, chi è chi, chi sei
tu per loro, ricerca forzata di abitudini libanesi. Ci scambiamo le scarpe, avevamo entrambi il 44, i vestiti
erano così diversi, io non mi sposto dall’anonimato, lui invece adora le fantasie a righe e a quadri, i
colori sgargianti e il gusto pacchiano che si riflette nel caldo mediterraneo, ma lui è norvegese.
Jorgen Ekvoll
http://www.facebook.com/ekvoll
http://www.aljarida.it/articolo/14-motivi-per-camminare
norvegese, 1981, Oslo,
Appena ci saremmo svegliati tutto sarebbe iniziato. Quella notte i sogni sono stati pazzi, io ero una testa
all’altezza del soffitto di questa stanza gialla, parlavo con un’altra testa vagamente mora e giapponese,
da sotto il suo collo si estendeva un panneggio bianco messo come se lei lo stesse tenendo con le mani
nella posizione della riverenza. Non ricordo cosa ci stessimo dicendo, so solo che lei si muoveva
ondeggiando e ogni volta che sfiorava il soffitto con i capelli lasciava una traccia grigia fumosa, che
sporcava l’intonaco con odore di grafite. Aperti gli occhi mi sono ritrovato solo in quello che doveva
essere ufficialmente il mio letto, come poter sentire mie una serie di abitudini cosi definite da un altro?
Ricordarsi di preparare un buon ritorno al mio coinquilino nonché mio migliore amico con cui ho
attraversato a piedi il libano da nord a sud, non gettare la carta nel water, non alzare la musica nel lato
destro della casa, spegnere sempre la bombola del gas per evitare che saltasse tutto in aria, succhiare
snuss al posto delle sigarette, vestirmi in modo assurdo sentendomi una specie di arlecchino in versione
pappone in miseria, il poco cibo in casa, formaggio spalmabile, pane da arrotolare e tutte le altre
particolari attenzioni che sapevo avrei dovuto avere erano una questione di pura apparenza, un
involucro che avrebbe dovuto raccogliere e tenere unita una persona la cui coscienza desiderava essere
una ballerina tra corpi da riempire. Dire scambiamoci la vita, può voler dire tutto e niente, era chiaro nel
progetto, ma nella realtà si è rivelato molto più intenso, molto più lungo e molto più l’opposto di quello
che credevo essere. Volevo dimenticarmi, volevo fare un regalo al figlio che ancora non ho, iniziare ad
iniettarmi la memoria di un cambiamento, della mutazione guidata e voluta, non ho nessun desiderio
megalomane, odio gli esaltati e nessun ideale mi spinge. La mia è una necessità biopersonale. Volevo
dimenticare luca de leva, volevo iniziare a far esistere solo un corpo abile a svuotarsi e ricomporsi ogni
volta che lo volessi, non basta ricordare, facciamolo. E quindi tutto era iniziato. Dopo una serie di
pensieri tra le lenzuola mi sono messo a lavorare al computer, con penna e tavoletta, nel mio ufficio, che
era costellato di libri sul medioriente, gli ebrei, teorie di complotto, bibbie, storie sacre di varie culture e
tecniche varie di meditazione, leggendo i titoli pensavo che alcuni sarebbero potuti essere anche miei,
no, così non andava, perchè io non ero più io, non c’era quell’io cui mi riferivo, ma anche se Luca non
esisteva non potevo sentirmi Jorgen, cercavo di sentirmi chiunque, un campo sterminato di zolle
spalancate. Mentre camminavo per strada il secondo giorno ho avuto la prima crisi, indossavo dei
pinocchietti a righe verde pisello e una maglietta bianca, scarpe nere e cuffie gialle, la musica elettronica
picchiava le mie orecchie, ero confuso, avevo mangiato pesante come sempre in Libano, carne
maledetta, camminavo da un paio d’ore, ma il Beirut art center non lo trovavo , ero stanco, stanco morto,
faceva un caldo improponibile, ho visto bianco, un cerchio alla testa fortissimo, mi sono dovuto
appoggiare al muretto al mio fianco, non capivo più niente, ma che stavo facendo? Aveva senso?
Smettila di giocare con le parole, entra nel linguaggio e modificalo da dentro, il linguaggio siamo io e te,
perchè noi lo comprendiamo, il nostro corpo è un ottimo materiale, con tutto quello che ne consegue.
Quella è stata la prima crisi, non era facile curarla, mi mancavo molto, forse sono conservatore dentro
ed è per questo che necessitavo di DMF, ero combattuto, non volevo trasgredire all’unica regola che mi
ero dato, non ero luca, non ero nessuno, non mi importa di quello che è gia sentito, io ero il pioniere
della mutazione ed ero riuscito a trovare un ignaro adepto della mia teoria, tutto quello che cerco di far
passare per strampalato in me, di inattendibile, di inaffidabile, è solo la scorza che i veri amanti possono
scalfire; parente di chi muta e che dal passato ha soffiato fino ai nostri giorni. Avevo mal di pancia, un
senso di distanza primitiva da tutto quello che conoscevo di me, ed erano passati solo due giorni, stavo
accasciato al muretto sul bordo di quella stradona larga, avvelenata e trafficata, quanto rumore facevano
i clacson e quanto rumore faceva la mia testa. Implodevo ed esplodevo, forse è per questo che tornato
in Italia pesavo cinque chili in meno, mi stavo schiacciando, mi stavo spremendo, avrei dovuto
raccogliere l’olio e farne dei ghiaccioli. Andando in giro per i locali di Beirut, vestito in quel modo diciamo
carnevalesco, incontrai diverse persone, a volte mi presentavo come jorgen il norvegese, a volte evitavo
le risposte. I momenti migliori erano pero quelli in cui incontravo Luca, si finiva spesso intorno ai tavoli
dell’Em Nazhim, ubriaco di arak, a parlare in gruppo, ecco, non è facile parlare di sè stessi in terza
persona, soprattutto se chi ti fa le domande non capisci se le sta facendo a te o a chi abitava
quell’immagine prima di te, chiedere come sta la sua ragazza e avere in questo unico modo informazioni
su di lei, si generavano bolle di confusione in noi e in tutte le persone intorno, l’esperimento si
espandeva a macchia d’olio, siamo un’intrecciata mailing list dal vivo, ci formiamo come unico
organismo e solo cosi possiamo essere, la percentuale dell’idea che non mi appartiene è quella che la
mette in relazione con il mondo e le da significato, non posso pensare una cosa che non conosco,
sicchè quello che non conosco non esiste, è per questo che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del
mio tempo. Ci sono stati molti momenti divertenti, come quando ho fatto gli auguri a mio padre per il suo
compleanno, non credevo che riuscissi a creare battute in norvegese, ma sembrava divertirsi dalle
risposte che mi dava, si parlava di un suo viaggio in Egitto durante i mesi successivi e della possibilità di
ballare con i coccodrilli del Nilo. Lo stesso fece Luca in quel momento, rispondendo alle mail, la cosa
strana è che iniziavano sempre con un italiano corretto per poi finire in frasi che pur impegnandosi non
avevano nessuna logica costruttiva, noi decostruivamo noi stessi tanto quanto la sintassi grammaticale
della lingua dell’altro. Fantastico leggere tutto questo una volta tornato indietro nel mio corpo, inutile
farlo leggere ad altri, l’esperienza funziona nel momento in cui avviene, solo ripetendola se ne può
carpire il senso profondo. Esperienza profonda, molto più di quanto pensassi, alternavo momenti di
eccitamento infantile a fasi di vuoti totali; mia madre e Carolina, senza essersi mai parlate mi hanno
riportato la stessa cosa –tu eri come morto, era una distanza siderale quella tra noi, incolmabile,
inarrivabile, il fatto che ci fosse un altro al tuo posto rendeva impossibile elaborare il lutto, perché ad
ogni tentativo di contatto arrivava puntuale una risposta, che talaltro aveva sempre il tono adatto al tipo
di domanda, i tentativi di contatto non hanno mai smesso di arrivare, una tomba virtuale, il profilo di un
angelo. Una settimana può sembrare poco, non lo è. La prima volta che incrociai luca lui recitava a fare
l’italiano, metteva in atto tutti gli stereotipi tipici, la seconda volta che l’ho incontrato stava impazzendo,
era scuro in viso e non riusciva più a vivere mentendo, credo che li la cosa stesse iniziando a funzionare
anche per lui, è un viaggio nel ghiaccio, la cosa più fredda che abbia mai provato. La profondità abissale
in cui ci si spinge porta la temperatura sotto la soglia sopportabile. Più cercavo di dimenticare me stesso
e più mi calavo in profondità, verso gli ultimi giorni mi ritrovai perso nei miei pensieri, avevo ricordi della
mia adolescenza che riaffioravano alla mente in modo spontaneo, cose quasi rimosse, alle quali non
avrei mai pensato, è stato forte, forse la cosa più assurda di tutte, gli occhi rovesciati, non abbiamo
bisogno di specchi per guardarci le spalle. L’interzona non mi era mai stata così familiare, mi sentivo la
sezione tra gli insiemi, la deriva necessaria allo scopo, ho provato a unire orizzontalmente le due chiavi
degli appartamenti e guardare nello spazio che ne deriva, lo continuo a fare circa ogni giorno. Non
crediamo più nei telescopi, ma nelle trasparenze della pelle che mi hanno fatto scoprire il quorum
sensig, parole prima sconosciute mi hanno fatto pensare alla vera natura che mi gonfia la fronte, ho
raccolto parecchio materiale da questa esperienza, posso soddisfare il bisogno di oggetti con varie
forme e in modi diversi, ma quelli che preferisco sono due. Parzialmente convinto di possedere solo il
mio corpo e il mio tempo, in ogni caso sono le sole due cose che percepisco esserci con certezza, gli
unici materiale necessari da plasmare – e come piace a loro farsi toccare, godono urlando quando le
mie mani ne afferrano le forme viscide in un bavoso attaccamento ad una bolla di gomma –
rappresentare, nel senso di svolgere le proprie funzioni in nome di altri, quello che davvero può saziarmi
è sapere che la mia stessa volontà possa ripetersi in altre storie, sto creando un’agenzia di viaggi
chiamata Thy Self People, persone che vogliono passare un periodo nella vita di un’altra, mentre l’altra
ne stupra la propria, per ora siamo in una ventina.
Affronto fisicamente un’idea, finché questa mi possiede.
LDL
29
gennaio 2013
Luca De Leva – Ho perso gli anelli, ma mi restano le dita
Dal 29 gennaio al 28 febbraio 2013
arte contemporanea
Location
ROOM ARTE CONTEMPORANEA
Milano, Via Alessandro Stradella, 4, (Milano)
Milano, Via Alessandro Stradella, 4, (Milano)
Orario di apertura
martedì a sabato 10-13 e 15-19
Vernissage
29 Gennaio 2013, ore 18.30
Autore
Curatore