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LUCIANO FABRO
Galleria Christian Stein presenta la mostra di Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007). Quattro opere storiche che tornano in esposizione dopo tre decenni: Il giorno mi pesa sulla notte II (1994-96), AR (1990), Cielo (Davanti, Dietro, Destra, Sinistra) (1968), Quid nihil nisi minus (1969).
Comunicato stampa
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Arte è quell’attitudine all’interno dei fenomeni naturali sia fisici che spirituali che modifica il processo aumentandone la definizione; a seguito dell’atto artistico il fenomeno non sarà più definibile come per l’innanzi.
Luciano Fabro
La prima apparizione di Luciano Fabro alla galleria Stein rimonta al 1967, quando venne invitato in una collettiva a cui presero parte tra gli altri Boetti, Kounellis, Merz, Paolini, Twombly. L’ultima mostra personale è invece del 1999. Tra queste due date sono state molte le occasioni per ammirare le opere di Fabro negli spazi Stein, sia a Torino che Milano. Merita qui ricordare la grande retrospettiva del 2015 negli storici spazi della sede centrale di corso Monforte e nell’ampia sede periferica di Pero. Si tratta dunque di una lunga relazione, di una ribadita fedeltà, non tanto a spazi, quanto a persone, amici, colleghi, a una certa idea dell’arte e a una certa pratica artistica. Adesso Gianfranco Benedetti ha deciso di presentare tre opere secche nel ‘salotto buono’ di Corso Monforte: Quid nihil nisi minus, AR e Il giorno mi pesa sulla notte II. Luciano Fabro ne sarebbe soddisfatto e felice. I titoli sono sempre stati decisamente importanti nel suo mondo. In questo caso sembrano funzionare tra loro come in un rebus. Un modo di creare relazioni tra opere e titoli che all’artista piaceva molto. Fabro amava mettere lo spettatore nelle condizioni di far uso di immaginazione, di fare collegamenti tra immagini e parole. Era il suo modo di fare dell’ironia uno strumento dell’intelligenza, di eccitare la sensibilità più libera e curiosa, di attivare il gioco di associazioni tra realtà, forme e conoscenza diverse.
Quid nihil nisi minus, è un’opera del 1969, esposta la prima volta alla Galleria La Salita; anche in uno degli sketches del videotape inciso per la mostra Gennaio ’70 al Museo Civico di Bologna a cura di R. Barilli - M. Calvesi - T. Trini, Fabro sta in posizione obliqua in parallelo con un tavolo e tiene il dito teso gridando: ”Quid nihil misi minus?”. AR è del 1990, mentre Il Giorno mi pesa sulla notte II è datato 1996.
A R deriva dalla radice indoeuropea ar (muoversi, comportarsi in modo corretto), come il latino ars (arte, abilità, qualità, mestiere) e come la parola artus (membra, braccia), cioè il prolungamento articolato del corpo verso l’esterno; originariamente quindi anche la parola ars aveva un’accezione pratica, ossia la capacità di fare armonicamente. L’opera è composta da quattro teli in garza di cotone naturale intinta parzialmente nell’inchiostro, appesi in modo da dare forma alle due lettere. Il motivo in giallo e rosso sul tessuto riprende le macchie di Rorschach, immagini speculari il cui significato è l’interpretazione stessa, in cui tutto il senso dell’immagine si sposta quindi dalla rappresentazione alla percezione di ciò che vi è rappresentato. I teli con le macchie di Rorschach sono quelli esposti in occasione della mostra personale al PAC di Milano nel 1980. In quel caso i teli intrisi di colore distesi e appesi dal soffitto segnalavano la soglia di ingresso nei diversi Habitat allestiti.
Potremmo dire che Il giorno mi pesa sulla notte sia il risultato di Ar, cioè del rapporto tra arto e arte, tra il fatto di immaginare e portare alla luce attraverso il fare artistico. La frase incisa su una lastra di marmo, Quid nihil nisi minus, allude, altresì, alla morte dell’arte per assenza di fantasia e abilità manuale, un collasso provocato dal riduzionismo radicale e concettuale che tendendo al minimo, alla banalizzazione lineare del rapporto tra significato e significante, conduce al nulla. Un percorso opposto a quello di Fabro che sosteneva come l’artista porti le cose e la materia fuori dal nulla per assumere una forma artistica, aggiungendo bellezza e meraviglia alla tecnica. Per spiegare questa opposizione Fabro amava citare una frase di padre Florenskij secondo il quale: “l’opera d’arte come tale è una realtà che supera se stessa, vale a dire che ci dice e ci dà di più di quello che essa è direttamente attraverso la percezione dei sensi”. Un di più che è il quid misterioso dell’opera d’arte (quel non so che frutto della spezzatura), la cui verità consiste nell’essere tanto cosa quanto immagine, tanto oggetto quanto metafora.
Osserviamo il primo lavoro: Il giorno mi pesa sulla notte II. Il titolo ha qualcosa di poetico, risuona, lascia spazio all’immaginazione, non si chiude in senso auto-referenziale, e funziona anche in modo didattico e autobiografico perché nasce sicuramente da un’esperienza personale, da una sensazione provata in proprio. Il giorno mi pesa sulla notte II, è realizzato con tre blocchi di pietre diverse, di cui una chiara, un’onice, gli altri due scuri in marmo Nero Marquina. L’onice, a prima vista informe, sembra una scheggia, un macigno, come quelli lasciati a terra in una cava, un masso rotolato dalla montagna verso valle. In questo senso, quel blocco, mantiene tutto del suo essere naturale, appare per quello che è, una pietra molto pesante. Poco lavorata dalla mano dello scultore che vi accenna solo delle linee di panneggio. Più che di qualità dovremmo parlare di quantità, di peso, ingombro, gravità e staticità. Nell’insieme è un lavoro di scalpellini, eseguito senza troppi abbellimenti e grazie, terminato con la prima sbozzatura. Gli altri due pezzi di marmo scuro sono invece molto lavorati dalla mano dell’uomo che con fatica, tecnica, intelligenza e creatività li ha trasformati in una forma artificiale affidandogli poi il valore di immagine. Dei piccoli inserti di puntini bianchi e un titolo hanno fatto volare nell’immaginario poetico le due colonne. Ricordando ancora le parole di padre Florenskij, questi due pezzi di marmo nero sono due semplici cilindri, come due fusti di colonna, ben torniti, levigati, lucidati con raspa, spazzole e panni cerati, gesti lenti e carezze; hanno una superficie scura, nera come la notte, che copre bellamente la materia e ne alleggerisce il peso, lasciando sparire la natura di pietra sotto il velo della metafora.
A questo proposito sosteneva Fabro: “Se la pietra diventa fiore non contiamo che sia pietra, né che sia fiore, è altro: scultura”. Una qualità espressiva e poetica che è il valore aggiunto alla materia dall’intelligenza e fantasia dell’artista. Infatti si noti che le due facce alla base del fusto presentano una serie di scanalature circolari che servono a far apparire quel tronco di colonna come un foglio di carta arrotolato su se stesso, come fosse un manifesto. Se la colonna rotolasse, il foglio potrebbe stendersi sul piano del pavimento. I piccoli segni in bianco che punteggiano la superficie, fanno immediatamente pensare al cielo stellato, come un sottile velo ricamato di stelle lontane. Un’immagine, questa del manto stellato, partorita dai poeti che contemplavano il cielo a occhio nudo di notte. Il giorno, un blocco di pietra informe, pesa sulle due colonne, che sono la notte. I due cilindri sopportano il macigno pesante come una giornata girata male. “Queste opere -ha scritto Fabro- sono nate da un modo di osservare le relazioni che intercorrono fra cosmo e immagine, o fra disordine e immagine. Mi incuriosisce il fatto che l’immagine del cosmo sia inizialmente informe e prenda forma solo attraverso la conoscenza. Spesso ho definito lo stato d’animo di questa sensazione quotidiana “il giorno mi pesa sulla notte”. Parlando di giorno e notte in scultura, non può non venire alla mente la Sagrestia Nuova di Michelangelo, dove il grande scultore rinascimentale, ha realizzato le celebri tombe dei Medici. Due tra le sculture conservate in quello spazio, raffigurano nelle intenzioni dell’artista, il Giorno e la Notte, ad arricchire la tomba di Giuliano de’ Medici di pensieri sul sonno e il sogno, sullo scorrere del tempo e la morte.
Dicevamo che i tre titoli e le opere formano una sorta di rebus, un testo composto di immagini e parole. C’è qualcosa di presocratico in queste tre opere. Qualcosa di primordiale. L’atto artistico che nasce dal desiderio di arricchire il mondo di bellezza, per dare un senso alla vita e alla morte, per continuare a contemplare il cosmo, il cielo stellato di notte anche quando il giorno pesa sulle nostre teste come un macigno. Contro la morte per disarmonia o regressione, come amava ripetere Fabro.
Tornano allora a risuonare nella testa certe sue dichiarazioni. La sua intelligenza, la sua sensibilità e morale, la sua ironia e lirica attitudine, di cui avvertiamo oggi la mancanza.
Possano i suoi fecondi pensieri accompagnare oggi ancora una volta i visitatori, soprattutto i giovani, artisti e non.
“La mia certezza: il mio senso per la mia azione. Una nuova logica che sia del particolare e dia i mezzi allo sviluppo dello spirito umano nel mondo. Scoprire l’ordine delle cose, determinarne, invece che le essenze, ai fini di un’inerte contemplazione, le utili proprietà secondarie, i modi di azione, indurre le cause dagli effetti che si fan sentire. Acuire e sistemare a questo fine l’osservazione e la riflessione. Acuire gli strumenti dello spirito ed estendere col loro mezzo in nuovi strumenti, la potenza della mano, prolungare il proprio corpo in tutte le cose del mondo, come proprie membra obbedienti, imitando la natura, ma per trasformarla secondo le umane idee. Analizzarla invece di astrarne. Sostituire al caso inventore il metodo adeguato alla proficua riformatrice invenzione.
Assumersi questa impresa infinita.
Fare questo infinito, in cui l’uomo non si perderà, né vanamente si girerà. Scegliersi questa erculea via della virtuosa fatica, lasciare la facile, seducente, fiorita via, senza frutto d’opere, della contemplazione edificante, dagli sbocchi in altitudini buone solo agli amanti di precipitarsi nel nulla.”
Luciano Fabro, Parole e pensieri di Francesco Bacone, 1963
In concomitanza con la mostra di Luciano Fabro, la Galleria Christian Stein è lieta di comunicare che prossimamente presso la Casa Degli Artisti si terrà l’evento di intitolazione di quello che era lo studio dell’artista. Per l’occasione sarà presentata un’opera nella sede di corso Garibaldi 89/A, Milano.
Luciano Fabro
La prima apparizione di Luciano Fabro alla galleria Stein rimonta al 1967, quando venne invitato in una collettiva a cui presero parte tra gli altri Boetti, Kounellis, Merz, Paolini, Twombly. L’ultima mostra personale è invece del 1999. Tra queste due date sono state molte le occasioni per ammirare le opere di Fabro negli spazi Stein, sia a Torino che Milano. Merita qui ricordare la grande retrospettiva del 2015 negli storici spazi della sede centrale di corso Monforte e nell’ampia sede periferica di Pero. Si tratta dunque di una lunga relazione, di una ribadita fedeltà, non tanto a spazi, quanto a persone, amici, colleghi, a una certa idea dell’arte e a una certa pratica artistica. Adesso Gianfranco Benedetti ha deciso di presentare tre opere secche nel ‘salotto buono’ di Corso Monforte: Quid nihil nisi minus, AR e Il giorno mi pesa sulla notte II. Luciano Fabro ne sarebbe soddisfatto e felice. I titoli sono sempre stati decisamente importanti nel suo mondo. In questo caso sembrano funzionare tra loro come in un rebus. Un modo di creare relazioni tra opere e titoli che all’artista piaceva molto. Fabro amava mettere lo spettatore nelle condizioni di far uso di immaginazione, di fare collegamenti tra immagini e parole. Era il suo modo di fare dell’ironia uno strumento dell’intelligenza, di eccitare la sensibilità più libera e curiosa, di attivare il gioco di associazioni tra realtà, forme e conoscenza diverse.
Quid nihil nisi minus, è un’opera del 1969, esposta la prima volta alla Galleria La Salita; anche in uno degli sketches del videotape inciso per la mostra Gennaio ’70 al Museo Civico di Bologna a cura di R. Barilli - M. Calvesi - T. Trini, Fabro sta in posizione obliqua in parallelo con un tavolo e tiene il dito teso gridando: ”Quid nihil misi minus?”. AR è del 1990, mentre Il Giorno mi pesa sulla notte II è datato 1996.
A R deriva dalla radice indoeuropea ar (muoversi, comportarsi in modo corretto), come il latino ars (arte, abilità, qualità, mestiere) e come la parola artus (membra, braccia), cioè il prolungamento articolato del corpo verso l’esterno; originariamente quindi anche la parola ars aveva un’accezione pratica, ossia la capacità di fare armonicamente. L’opera è composta da quattro teli in garza di cotone naturale intinta parzialmente nell’inchiostro, appesi in modo da dare forma alle due lettere. Il motivo in giallo e rosso sul tessuto riprende le macchie di Rorschach, immagini speculari il cui significato è l’interpretazione stessa, in cui tutto il senso dell’immagine si sposta quindi dalla rappresentazione alla percezione di ciò che vi è rappresentato. I teli con le macchie di Rorschach sono quelli esposti in occasione della mostra personale al PAC di Milano nel 1980. In quel caso i teli intrisi di colore distesi e appesi dal soffitto segnalavano la soglia di ingresso nei diversi Habitat allestiti.
Potremmo dire che Il giorno mi pesa sulla notte sia il risultato di Ar, cioè del rapporto tra arto e arte, tra il fatto di immaginare e portare alla luce attraverso il fare artistico. La frase incisa su una lastra di marmo, Quid nihil nisi minus, allude, altresì, alla morte dell’arte per assenza di fantasia e abilità manuale, un collasso provocato dal riduzionismo radicale e concettuale che tendendo al minimo, alla banalizzazione lineare del rapporto tra significato e significante, conduce al nulla. Un percorso opposto a quello di Fabro che sosteneva come l’artista porti le cose e la materia fuori dal nulla per assumere una forma artistica, aggiungendo bellezza e meraviglia alla tecnica. Per spiegare questa opposizione Fabro amava citare una frase di padre Florenskij secondo il quale: “l’opera d’arte come tale è una realtà che supera se stessa, vale a dire che ci dice e ci dà di più di quello che essa è direttamente attraverso la percezione dei sensi”. Un di più che è il quid misterioso dell’opera d’arte (quel non so che frutto della spezzatura), la cui verità consiste nell’essere tanto cosa quanto immagine, tanto oggetto quanto metafora.
Osserviamo il primo lavoro: Il giorno mi pesa sulla notte II. Il titolo ha qualcosa di poetico, risuona, lascia spazio all’immaginazione, non si chiude in senso auto-referenziale, e funziona anche in modo didattico e autobiografico perché nasce sicuramente da un’esperienza personale, da una sensazione provata in proprio. Il giorno mi pesa sulla notte II, è realizzato con tre blocchi di pietre diverse, di cui una chiara, un’onice, gli altri due scuri in marmo Nero Marquina. L’onice, a prima vista informe, sembra una scheggia, un macigno, come quelli lasciati a terra in una cava, un masso rotolato dalla montagna verso valle. In questo senso, quel blocco, mantiene tutto del suo essere naturale, appare per quello che è, una pietra molto pesante. Poco lavorata dalla mano dello scultore che vi accenna solo delle linee di panneggio. Più che di qualità dovremmo parlare di quantità, di peso, ingombro, gravità e staticità. Nell’insieme è un lavoro di scalpellini, eseguito senza troppi abbellimenti e grazie, terminato con la prima sbozzatura. Gli altri due pezzi di marmo scuro sono invece molto lavorati dalla mano dell’uomo che con fatica, tecnica, intelligenza e creatività li ha trasformati in una forma artificiale affidandogli poi il valore di immagine. Dei piccoli inserti di puntini bianchi e un titolo hanno fatto volare nell’immaginario poetico le due colonne. Ricordando ancora le parole di padre Florenskij, questi due pezzi di marmo nero sono due semplici cilindri, come due fusti di colonna, ben torniti, levigati, lucidati con raspa, spazzole e panni cerati, gesti lenti e carezze; hanno una superficie scura, nera come la notte, che copre bellamente la materia e ne alleggerisce il peso, lasciando sparire la natura di pietra sotto il velo della metafora.
A questo proposito sosteneva Fabro: “Se la pietra diventa fiore non contiamo che sia pietra, né che sia fiore, è altro: scultura”. Una qualità espressiva e poetica che è il valore aggiunto alla materia dall’intelligenza e fantasia dell’artista. Infatti si noti che le due facce alla base del fusto presentano una serie di scanalature circolari che servono a far apparire quel tronco di colonna come un foglio di carta arrotolato su se stesso, come fosse un manifesto. Se la colonna rotolasse, il foglio potrebbe stendersi sul piano del pavimento. I piccoli segni in bianco che punteggiano la superficie, fanno immediatamente pensare al cielo stellato, come un sottile velo ricamato di stelle lontane. Un’immagine, questa del manto stellato, partorita dai poeti che contemplavano il cielo a occhio nudo di notte. Il giorno, un blocco di pietra informe, pesa sulle due colonne, che sono la notte. I due cilindri sopportano il macigno pesante come una giornata girata male. “Queste opere -ha scritto Fabro- sono nate da un modo di osservare le relazioni che intercorrono fra cosmo e immagine, o fra disordine e immagine. Mi incuriosisce il fatto che l’immagine del cosmo sia inizialmente informe e prenda forma solo attraverso la conoscenza. Spesso ho definito lo stato d’animo di questa sensazione quotidiana “il giorno mi pesa sulla notte”. Parlando di giorno e notte in scultura, non può non venire alla mente la Sagrestia Nuova di Michelangelo, dove il grande scultore rinascimentale, ha realizzato le celebri tombe dei Medici. Due tra le sculture conservate in quello spazio, raffigurano nelle intenzioni dell’artista, il Giorno e la Notte, ad arricchire la tomba di Giuliano de’ Medici di pensieri sul sonno e il sogno, sullo scorrere del tempo e la morte.
Dicevamo che i tre titoli e le opere formano una sorta di rebus, un testo composto di immagini e parole. C’è qualcosa di presocratico in queste tre opere. Qualcosa di primordiale. L’atto artistico che nasce dal desiderio di arricchire il mondo di bellezza, per dare un senso alla vita e alla morte, per continuare a contemplare il cosmo, il cielo stellato di notte anche quando il giorno pesa sulle nostre teste come un macigno. Contro la morte per disarmonia o regressione, come amava ripetere Fabro.
Tornano allora a risuonare nella testa certe sue dichiarazioni. La sua intelligenza, la sua sensibilità e morale, la sua ironia e lirica attitudine, di cui avvertiamo oggi la mancanza.
Possano i suoi fecondi pensieri accompagnare oggi ancora una volta i visitatori, soprattutto i giovani, artisti e non.
“La mia certezza: il mio senso per la mia azione. Una nuova logica che sia del particolare e dia i mezzi allo sviluppo dello spirito umano nel mondo. Scoprire l’ordine delle cose, determinarne, invece che le essenze, ai fini di un’inerte contemplazione, le utili proprietà secondarie, i modi di azione, indurre le cause dagli effetti che si fan sentire. Acuire e sistemare a questo fine l’osservazione e la riflessione. Acuire gli strumenti dello spirito ed estendere col loro mezzo in nuovi strumenti, la potenza della mano, prolungare il proprio corpo in tutte le cose del mondo, come proprie membra obbedienti, imitando la natura, ma per trasformarla secondo le umane idee. Analizzarla invece di astrarne. Sostituire al caso inventore il metodo adeguato alla proficua riformatrice invenzione.
Assumersi questa impresa infinita.
Fare questo infinito, in cui l’uomo non si perderà, né vanamente si girerà. Scegliersi questa erculea via della virtuosa fatica, lasciare la facile, seducente, fiorita via, senza frutto d’opere, della contemplazione edificante, dagli sbocchi in altitudini buone solo agli amanti di precipitarsi nel nulla.”
Luciano Fabro, Parole e pensieri di Francesco Bacone, 1963
In concomitanza con la mostra di Luciano Fabro, la Galleria Christian Stein è lieta di comunicare che prossimamente presso la Casa Degli Artisti si terrà l’evento di intitolazione di quello che era lo studio dell’artista. Per l’occasione sarà presentata un’opera nella sede di corso Garibaldi 89/A, Milano.
30
maggio 2024
LUCIANO FABRO
Dal 30 maggio al 12 ottobre 2024
arte contemporanea
personale
personale
Location
Galleria Christian Stein
Milano, Corso Monforte, 23, (MI)
Milano, Corso Monforte, 23, (MI)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 10-19
sabato 10-13, 15-19
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