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Marc Riboud – Istanbul, 1950-2000
Per me le città sono come le amiche, ho voglia di sapere che ne sarà di loro. Quando si allontanano, mi mancano, e il forte desiderio di rivedere quelle che amo mi ha portato spesso a rivisitarle.
Comunicato stampa
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Per me le città sono come le amiche, ho voglia di sapere che ne sarà di loro. Quando si allontanano, mi mancano, e il forte desiderio di rivedere quelle che amo mi ha portato spesso a rivisitarle. Questo vale per Istanbul, Napoli, Shanghai, Amsterdam e anche per Algeri, così bella, eppure così lontana.
Tutte queste città sono in riva all’acqua, è forse per questo che le amo?
Quando avevo trent’anni, il viaggio in Oriente era ancora un mito e, dopo molti altri, ho ceduto anch’io alla tentazione. Al volante di una Land Rover sono partito per l’India e, nella mia impazienza, ho attraversato l’Europa a tutta velocità. La mia corsa si è decisamente fermata sulle rive del Bosforo. L’Orient Express si ferma ai piedi del muro del Topkapi. Giovane provinciale ignaro dei sortilegi di Istanbul, pensavo di farvi tappa tre giorni. Ci sono rimasto tre mesi, quando solo un braccio di mare mi separava dall’agognata Asia e dalle sue prime colline che ogni mattina vedevo profilarsi nella nebbia. Ma Istanbul non è una tappa, è un mondo, un altro mondo. Lo avrei scoperto sin dal quel primo soggiorno, a cui ne sarebbero seguiti molti altri…
Giorno dopo giorno, ho camminato, ho fotografato, dall’alba fino al calare della notte sulle rive del Corno d’Oro, del Bosforo e di Marmara, sulle sette colline e lungo la muraglia che avanza nelle acque, sedotto da questa foresta di minareti che si stagliano nel cielo, sorprendono l’Occidentale e rallegrano lo sguardo del fotografo.
Non vi è niente di meglio per conoscere una città che perdersi in essa; e le strade buie della città vecchia, intrecciate come quelle di una Casbah, sono il luogo ideale di tutti gli smarrimenti. Mi sono perso nei caravanserragli e nelle loro botteghe annidate sui tetti, eppure buie come caverne. Nell’oscurità e “al buio” si fondono i lingotti d’oro, si tesse la seta, si soffia il vetro e gli uomini e i ragazzi dai volti anneriti accolgono lo straniero con un bicchiere di tè. Mi sono perso anche nel quartiere armeno, in cui la festa è quotidiana davanti alle case in legno pericolanti, bruciate mille volte e mille volte ricostruite. Perso ancora nel quartiere di Fatih, intorno alla sua moschea in cui le donne velate sono sempre più numerose. Ah, quanto mi ha rimproverato Fatos, la mia amica di Istanbul, giovane, bella, femminile e femminista, per aver fotografato quei veli! Ma mi piacciono i drappeggi, quelli delle statue greche, delle Indiane e delle donne di Istanbul anche se, per Fatos, queste donne velate, spesso appena giunte dall’Anatolia, o persino quelle Islamiche fortunate, adorne dei loro lussuosi foulard, non rappresentano la Turchia protesa verso quell’Europa tanto sognata.
Istanbul, è soprattutto la bellezza decantata da tutti i viaggiatori. Bellezza della patina delle pietre consumate dalle civiltà che si sono succedute, bellezza delle calligrafie persiane ed arabe, dei cimiteri sui pendii delle colline, ma Istanbul è innanzitutto la vita. E’ il cigolio dei vecchi tram della via Istiklâl, le sirene delle barche e delle navi cisterne che hanno sostituito i velieri, la confusione del Gran Bazar, gli odori del mercato delle spezie, la folla che si accalca nelle strade in pendenza e, simbolo e parossismo di questo movimento incessante, il ponte Galata in cui gli uomini trasportano sulle spalle a qualsiasi ora lavatrici, armadi o pianoforti.
La vitalità di Istanbul si estende sempre più oltre le mura. Verso est, a Eyüp, patria delle feste, dei matrimoni, delle circoncisioni e delle sepolture. E soprattutto verso nord, in cui milioni di famiglie venute dall’Anatolia oggi si accalcano in baraccopoli e case popolari costruite in fretta. I ragazzi giocano a calcio in campi improbabili ed è proprio lì che uno di loro mi ha apostrofato con un “Io Kurdo!” con grande fierezza. Da questi quartieri a nord venivano, un altro giorno, centinaia di giovani Kurdi che risalivano la via Istiklâl (via dell’Indipendenza), rivendicando la loro indipendenza e sfidando la repressione. Foto vietate.
Ara Güler, il leggendario fotografo, è un pesce pilota ineguagliato. Mi ha trascinato nell’hammam più antico, in una cerimonia di dervisci sofisti e persino nel famoso yali del conte Ostrorog, che non era a casa sua, ma che ho trovato sei mesi dopo al mio arrivo a Delhi, dove era diventato ambasciatore di Francia e da dove mi ha aperto la porta della Cina.
Tutte le strade passano per Istanbul, e la città è sempre quel crocevia in cui due civiltà si mescolano e rivaleggiano. Nel 1953, arrivavo esattamente cinque secoli dopo la data fatidica conosciuta da tutti gli studenti. Oggi, come nel 1453, la città è sempre la posta in gioco tra l’Europa e l’Oriente. Vi si vede convivere il modernismo europeo e l’Islam rinascente, le antenne paraboliche delle televisioni e le frecce dei minareti, le tee-shirt Adidas e i mosaici di Smirne, le Natasce russe delle discoteche e le donne velate delle moschee. All’epoca ottomana, i sultani gustavano i loro kebab in preziosi piatti Song dell’XI secolo, oggi agli abitanti di Istanbul piacerebbe sedersi alla tavola dell’Europa.
Un desiderio: che questa tentazione dell’Occidente non impedisca a Istanbul di rimanere questo crogiuolo esclusivo in cui Turchi, Greci, Ebrei, Armeni, Kurdi, Russi, Levantini ed altri vivono insieme da secoli per diventare domani quello che fu ieri, la capitale di un metissage riuscito, e rivaleggiare così con New York.
Marc Riboud
Chi non sarebbe sbalordito, soggiogato, frastornato da questa città frenetica e al contempo dolce, di dieci milioni di abitanti, diecimila taxi, due milioni di turisti e miliardi di rumori, che emerge alla fine della strada? E ancora di più quando si arriva piano piano col treno, questo fantasma risuscitato dell’Orient Express di un tempo che oggi non ha più né velluti pelosi, né carrozze salotto dal lusso kitsch, né menu scritti con la piuma d’oca. Del resto, molto prima di Istanbul, vi vengono incontro in un centro senso i rumori degli immensi cantieri delle “città nuove”, snodi di strade e stazioni, che portano fino alle campagne della Tracia il respiro del dinamismo di Istanbul.
Chi non rimarrebbe abbagliato da questa Istanbul moderna, esplosione di vita e di progetti? I nuovi commercianti privati della Bulgaria, dell’Ucraina, della Georgia o dei Carpazi romani, vengono ormai ad approvvigionarsi sul Bosforo. Eserciti di finti turisti musulmani, accorsi dalle repubbliche sorelle del Kirgistan, del Turkmenistan o dell'Azerbaidjan, sbarcano senza sosta all’aeroporto di Istanbul con enormi valigie vuote e si precipitano a riempirle al Gran Bazar della città vecchia. Pullman pieni di pensionati europei fanno costantemente strada verso Santa Sofia, Topkapi o la Moschea blu. E tutte queste persone possono sfregarsi gli occhi con la stessa incredulità. Alcuni luoghi sembrano designati dalla Storia per stupire l’universo. Questo è uno di quelli. Di nuovo, oggi come ieri.
Fondata, nella notte dei tempi, con il nome di Bisanzio (sette secoli avanti Cristo), ribattezzata nel 325 da Costantino, l'imperatore convertito al cristianesimo, è diventata la capitale dell’Impero romano d’Oriente, la “seconda Roma” quando l’Occidente sprofondava nella decadenza e Roma? la vera? era ridotta nel caos dalle rivoluzioni e le invasioni dei Germani o degli Unni. Barricata dietro le sue muraglie, protetta a oriente dal Bosforo, Costantinopoli è riuscita a resistere per secoli alle minacce e ai saccheggi. Quando la potenza dei bastioni o dell’enorme catena che sbarrava il Corno d’Oro, quella dei fuochi greci e delle armi non bastavano più, rimaneva sempre abbastanza oro per comprare la cupidigia dei barbari che se ne tornavano indietro? come fecero gli Unni? verso le loro steppe dell’Asia centrale, con i muli carichi di “regali”. A Istanbul, più che in qualsiasi altro luogo, la straordinaria vitalità del presente rimanda ad un passato prodigioso che fa decisamente di questa “città delle città” un luogo magico quasi senza eguali nel mondo.
Jean-Claude Guillebaud
Estratto della prefazione del libro “Istanbul, 1950-2000”
Biografie
Marc Riboud nasce a Lione nel 1923. Dopo aver fatto la resistenza, la guerra e gli studi di ingegneria, nel 1947 si dedica alla fotografia. Nel 1952 entra a far parte dell’agenzia Magnum, che lascerà nel 1979 per rimanere indipendente. Ha fatto frequenti soggiorni in Oriente e in Medio Oriente e lunghi soggiorni in India e in Cina e ha spesso fotografato in Europa dell’Est, negli Stati Uniti, in Africa e in Francia. Tra le sue pubblicazioni citiamo: Les trois Bannières de Chine, 1996, Face of North Vietnam, 1972, Chine, instantanés de voyages, 1980, Marc Riboud, journal, 1986, Huang Shan. La montagne des peintres chinois, 1989, Angkor, sérénité boudhique, 1993, Quarante ans de photographies en Chine, 1996, Istanbul, 1950-2000, Edizioni Imprimerie Nationale, 2003. Demain Shangai, 2003 (di prossima pubblicazione)
Jean-Claude Guillebaud, 58 anni. Saggista, giornalista, editore. E’ stato a lungo un grande reporter di Le Monde. Direttore letterario delle Edizioni Seuil e cofondatore della casa editrice Arlea. Cronista del «Nouvel Observateur». Ha pubblicato una ventina di opere. Premio Renaudot-saggistica nel 1998 per «la Tyrannie du plaisir» e gran premio europeo della saggistica nel 2002 per «Principe d'humanité».
Tutte queste città sono in riva all’acqua, è forse per questo che le amo?
Quando avevo trent’anni, il viaggio in Oriente era ancora un mito e, dopo molti altri, ho ceduto anch’io alla tentazione. Al volante di una Land Rover sono partito per l’India e, nella mia impazienza, ho attraversato l’Europa a tutta velocità. La mia corsa si è decisamente fermata sulle rive del Bosforo. L’Orient Express si ferma ai piedi del muro del Topkapi. Giovane provinciale ignaro dei sortilegi di Istanbul, pensavo di farvi tappa tre giorni. Ci sono rimasto tre mesi, quando solo un braccio di mare mi separava dall’agognata Asia e dalle sue prime colline che ogni mattina vedevo profilarsi nella nebbia. Ma Istanbul non è una tappa, è un mondo, un altro mondo. Lo avrei scoperto sin dal quel primo soggiorno, a cui ne sarebbero seguiti molti altri…
Giorno dopo giorno, ho camminato, ho fotografato, dall’alba fino al calare della notte sulle rive del Corno d’Oro, del Bosforo e di Marmara, sulle sette colline e lungo la muraglia che avanza nelle acque, sedotto da questa foresta di minareti che si stagliano nel cielo, sorprendono l’Occidentale e rallegrano lo sguardo del fotografo.
Non vi è niente di meglio per conoscere una città che perdersi in essa; e le strade buie della città vecchia, intrecciate come quelle di una Casbah, sono il luogo ideale di tutti gli smarrimenti. Mi sono perso nei caravanserragli e nelle loro botteghe annidate sui tetti, eppure buie come caverne. Nell’oscurità e “al buio” si fondono i lingotti d’oro, si tesse la seta, si soffia il vetro e gli uomini e i ragazzi dai volti anneriti accolgono lo straniero con un bicchiere di tè. Mi sono perso anche nel quartiere armeno, in cui la festa è quotidiana davanti alle case in legno pericolanti, bruciate mille volte e mille volte ricostruite. Perso ancora nel quartiere di Fatih, intorno alla sua moschea in cui le donne velate sono sempre più numerose. Ah, quanto mi ha rimproverato Fatos, la mia amica di Istanbul, giovane, bella, femminile e femminista, per aver fotografato quei veli! Ma mi piacciono i drappeggi, quelli delle statue greche, delle Indiane e delle donne di Istanbul anche se, per Fatos, queste donne velate, spesso appena giunte dall’Anatolia, o persino quelle Islamiche fortunate, adorne dei loro lussuosi foulard, non rappresentano la Turchia protesa verso quell’Europa tanto sognata.
Istanbul, è soprattutto la bellezza decantata da tutti i viaggiatori. Bellezza della patina delle pietre consumate dalle civiltà che si sono succedute, bellezza delle calligrafie persiane ed arabe, dei cimiteri sui pendii delle colline, ma Istanbul è innanzitutto la vita. E’ il cigolio dei vecchi tram della via Istiklâl, le sirene delle barche e delle navi cisterne che hanno sostituito i velieri, la confusione del Gran Bazar, gli odori del mercato delle spezie, la folla che si accalca nelle strade in pendenza e, simbolo e parossismo di questo movimento incessante, il ponte Galata in cui gli uomini trasportano sulle spalle a qualsiasi ora lavatrici, armadi o pianoforti.
La vitalità di Istanbul si estende sempre più oltre le mura. Verso est, a Eyüp, patria delle feste, dei matrimoni, delle circoncisioni e delle sepolture. E soprattutto verso nord, in cui milioni di famiglie venute dall’Anatolia oggi si accalcano in baraccopoli e case popolari costruite in fretta. I ragazzi giocano a calcio in campi improbabili ed è proprio lì che uno di loro mi ha apostrofato con un “Io Kurdo!” con grande fierezza. Da questi quartieri a nord venivano, un altro giorno, centinaia di giovani Kurdi che risalivano la via Istiklâl (via dell’Indipendenza), rivendicando la loro indipendenza e sfidando la repressione. Foto vietate.
Ara Güler, il leggendario fotografo, è un pesce pilota ineguagliato. Mi ha trascinato nell’hammam più antico, in una cerimonia di dervisci sofisti e persino nel famoso yali del conte Ostrorog, che non era a casa sua, ma che ho trovato sei mesi dopo al mio arrivo a Delhi, dove era diventato ambasciatore di Francia e da dove mi ha aperto la porta della Cina.
Tutte le strade passano per Istanbul, e la città è sempre quel crocevia in cui due civiltà si mescolano e rivaleggiano. Nel 1953, arrivavo esattamente cinque secoli dopo la data fatidica conosciuta da tutti gli studenti. Oggi, come nel 1453, la città è sempre la posta in gioco tra l’Europa e l’Oriente. Vi si vede convivere il modernismo europeo e l’Islam rinascente, le antenne paraboliche delle televisioni e le frecce dei minareti, le tee-shirt Adidas e i mosaici di Smirne, le Natasce russe delle discoteche e le donne velate delle moschee. All’epoca ottomana, i sultani gustavano i loro kebab in preziosi piatti Song dell’XI secolo, oggi agli abitanti di Istanbul piacerebbe sedersi alla tavola dell’Europa.
Un desiderio: che questa tentazione dell’Occidente non impedisca a Istanbul di rimanere questo crogiuolo esclusivo in cui Turchi, Greci, Ebrei, Armeni, Kurdi, Russi, Levantini ed altri vivono insieme da secoli per diventare domani quello che fu ieri, la capitale di un metissage riuscito, e rivaleggiare così con New York.
Marc Riboud
Chi non sarebbe sbalordito, soggiogato, frastornato da questa città frenetica e al contempo dolce, di dieci milioni di abitanti, diecimila taxi, due milioni di turisti e miliardi di rumori, che emerge alla fine della strada? E ancora di più quando si arriva piano piano col treno, questo fantasma risuscitato dell’Orient Express di un tempo che oggi non ha più né velluti pelosi, né carrozze salotto dal lusso kitsch, né menu scritti con la piuma d’oca. Del resto, molto prima di Istanbul, vi vengono incontro in un centro senso i rumori degli immensi cantieri delle “città nuove”, snodi di strade e stazioni, che portano fino alle campagne della Tracia il respiro del dinamismo di Istanbul.
Chi non rimarrebbe abbagliato da questa Istanbul moderna, esplosione di vita e di progetti? I nuovi commercianti privati della Bulgaria, dell’Ucraina, della Georgia o dei Carpazi romani, vengono ormai ad approvvigionarsi sul Bosforo. Eserciti di finti turisti musulmani, accorsi dalle repubbliche sorelle del Kirgistan, del Turkmenistan o dell'Azerbaidjan, sbarcano senza sosta all’aeroporto di Istanbul con enormi valigie vuote e si precipitano a riempirle al Gran Bazar della città vecchia. Pullman pieni di pensionati europei fanno costantemente strada verso Santa Sofia, Topkapi o la Moschea blu. E tutte queste persone possono sfregarsi gli occhi con la stessa incredulità. Alcuni luoghi sembrano designati dalla Storia per stupire l’universo. Questo è uno di quelli. Di nuovo, oggi come ieri.
Fondata, nella notte dei tempi, con il nome di Bisanzio (sette secoli avanti Cristo), ribattezzata nel 325 da Costantino, l'imperatore convertito al cristianesimo, è diventata la capitale dell’Impero romano d’Oriente, la “seconda Roma” quando l’Occidente sprofondava nella decadenza e Roma? la vera? era ridotta nel caos dalle rivoluzioni e le invasioni dei Germani o degli Unni. Barricata dietro le sue muraglie, protetta a oriente dal Bosforo, Costantinopoli è riuscita a resistere per secoli alle minacce e ai saccheggi. Quando la potenza dei bastioni o dell’enorme catena che sbarrava il Corno d’Oro, quella dei fuochi greci e delle armi non bastavano più, rimaneva sempre abbastanza oro per comprare la cupidigia dei barbari che se ne tornavano indietro? come fecero gli Unni? verso le loro steppe dell’Asia centrale, con i muli carichi di “regali”. A Istanbul, più che in qualsiasi altro luogo, la straordinaria vitalità del presente rimanda ad un passato prodigioso che fa decisamente di questa “città delle città” un luogo magico quasi senza eguali nel mondo.
Jean-Claude Guillebaud
Estratto della prefazione del libro “Istanbul, 1950-2000”
Biografie
Marc Riboud nasce a Lione nel 1923. Dopo aver fatto la resistenza, la guerra e gli studi di ingegneria, nel 1947 si dedica alla fotografia. Nel 1952 entra a far parte dell’agenzia Magnum, che lascerà nel 1979 per rimanere indipendente. Ha fatto frequenti soggiorni in Oriente e in Medio Oriente e lunghi soggiorni in India e in Cina e ha spesso fotografato in Europa dell’Est, negli Stati Uniti, in Africa e in Francia. Tra le sue pubblicazioni citiamo: Les trois Bannières de Chine, 1996, Face of North Vietnam, 1972, Chine, instantanés de voyages, 1980, Marc Riboud, journal, 1986, Huang Shan. La montagne des peintres chinois, 1989, Angkor, sérénité boudhique, 1993, Quarante ans de photographies en Chine, 1996, Istanbul, 1950-2000, Edizioni Imprimerie Nationale, 2003. Demain Shangai, 2003 (di prossima pubblicazione)
Jean-Claude Guillebaud, 58 anni. Saggista, giornalista, editore. E’ stato a lungo un grande reporter di Le Monde. Direttore letterario delle Edizioni Seuil e cofondatore della casa editrice Arlea. Cronista del «Nouvel Observateur». Ha pubblicato una ventina di opere. Premio Renaudot-saggistica nel 1998 per «la Tyrannie du plaisir» e gran premio europeo della saggistica nel 2002 per «Principe d'humanité».
15
dicembre 2003
Marc Riboud – Istanbul, 1950-2000
Dal 15 dicembre 2003 al 14 febbraio 2004
fotografia
Location
FNAC
Napoli, Via Luca Giordano, 59, (Napoli)
Napoli, Via Luca Giordano, 59, (Napoli)