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Marco Bertìn – Made in China
Palazzo Victoria, con la Direzione Artistica di Manon Comerio, presenta la mostra di Marco Bertìn “Made in China”.
Comunicato stampa
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Se il “Made in Italy” è sinonimo di gusto, stile, classe, il “Made in China” è sinonimo di copia, duplicato, riproduzione. Se, al di là della crisi, in Italia la qualità del prodotto è la sua identità, in Cina l’identità coincide con la quantità. E’ necessario dimenticare il “villaggio imperiale” e le sue “leggendarie luminarie”, perchè anche la Cina è diventata ormai un villaggio globale. Come pure è necessario dimenticare il vecchio slogan maoista “guarda al futuro”, perchè esso si è trasformato in “guarda al denaro”. Non c’è più nulla di mitico o di rivoluzionario in ciò che viene prodotto, ma solo la fatale e indistinta replica di oggetti di cui si sono persi l’origine e il senso.
Il lavoro fotografico di Marco Bertìn però non vuole essere la documentazione di quella che è diventata l’ultima frontiera del plagio, in cui si può replicare tutto: profumi, auto, moda, perfino strade, palazzi, chiese. Egli fissa la propria attenzione sulle “buone cose di cattivo gusto” che già il capitalismo selvaggio, spietato e senza pudori ha svuotato di ogni valore e di ogni riferimento culturale: souvenir, gadget, articoli sacri e profani, ecc. Gli interessa ciò che si può trovare dappertutto, ciò che è omologato, ciò che risponde alla stessa straordinaria domanda di indifferenziazione.
Ma l’operazione di Bertìn si spinge oltre: egli cerca soprattutto di svelare l’inquietante struttura che regola le leggi della produzione e del consumo di questa oggettistica dei “paradisi dello shopping” . Il fatto che in Cina ogni “gingillo” venga realizzato in milioni di copie finisce per universalizzarlo e, in un certo senso, trascenderne ogni valore psicologico, sociale, storico, estetico. Esso diventa un puro stereotipo (del consumo), un cliché della cultura di massa. Ma è proprio basandosi sulla banalità dell’oggetto, che Bertìn riesce a rivelare la dimensione di “spaesamento” che è insito in esso. E’ lo stesso fotografo che racconta come gli sia venuta l’idea di questo ciclo fotografico: “smontando le varie statuine di una matrioska russa mi sono accorto che il marchio che la contraddistingueva era ‘Made in China’ ”, ricorda. E’ come se egli avesse visto improvvisamente l’abituale come “altro”, il familiare come sconosciuto. E allora ha cominciato ad allargare il campo della sua indagine, ma solo per verificare come ogni cosa quotidiana (dunque familiare) provenisse da una dimensione ignota. La domanda che egli si è fatto con insistenza è di conseguenza: “che logica può associare la Statua della Libertà, la Tour Eiffel, Biancaneve e i sette nani con la Cina?”.
Se le cose dei nostri sogni e dei nostri giochi sono come oggetti animati, dotati di un’”anima”, di una vita affettiva, che circola, si comunica, si trasmette, seppure a livello spirituale, per il cinese si tratta perlopiù di un mondo impersonale, passivo, inerte. Non sono che merci immobilizzate nella loro presenza ottusa; merci mute e senza storia. Così, per tradurre visivamente questo “scarto” Bertìn adotta la sottile strategia della “collazione”, facendo coabitare il colore rosso della bandiera cinese con le immagini degli “oggetti del cuore” (provenienti dalle più disparate culture, ma tutti realizzati in Cina). Ed è come se egli volesse ricomporre l’infranto, riunire il qui e l’altrove.
Egli colloca sul rosso del fondo le immagini dei suoi oggetti in miniatura che, in questo modo, sembrano diventare autentici stemmi o simboli araldici custoditi in una teca o in uno scrigno “astratto”. Del resto, l’utilizzo di due tonalità di rosso fanno pensare a due piani, uno orizzontale tipico di una superficie espositiva e uno verticale che funziona da fondale. Non manca neppure il marchio giallo che richiama le cinque stelle della bandiera cinese e che traduce in ideogrammi la scritta “Made in Cina”. E’ così che paradossalmente l’oggetto kitsch all’ennesima potenza consegue un suo inatteso riscatto e che, come un attore sul palcoscenico, recita il suo copione seducente e “malizioso”.
Bertìn comunque, vuole che il suo messaggio sia massimamente chiaro: perciò elimina ogni disturbo scenografico. “Come Satie, egli dice, impiego il minimo di elementi per un massimo di resa”. Ma poi, alla maniera del bambino di Benjamin, a volte si traveste da regista e mette in moto argute trasformazioni e sottili rovesciamenti visivi. Così la Statua della Libertà viene colta di schiena come se stesse guardando il rosso della bandiera cinese e suggerisse un allarme per un’eventuale invasione gialla”, oppure l’immagine della croce (e quindi del sacrificio) viene collocata di fronte a un pacioso Budda che invece se la ride di gusto, come a sottolineare le diverse modalità di porsi nei confronti del trascendente tra Oriente e Occidente. Si tratta di tanti piccoli indizi, che diventano eclatanti nel “Polittico”: autentica apoteosi di giocattoli, sommatoria dell’universo ludico occidentale, che vuole essere una sorta di allusione ad una Cina che col tempo potrebbe finire per produrre interamente il nostro immaginario, senza mai “sapere” cosa produce realmente.
Più che estetico allora il discorso si fa etico. Tra le varie immagini c’è quella di una Madonna sostenuta da due mani oranti che si stanno arrossando, quasi che il colore della bandiera cinese le stesse invadendo, conquistando. E così l’indagine partita dalle tradizioni locali tradite, finisce per coinvolgere la storia stessa del mondo: le sue origini, i suoi credi, le sue religioni. E forse la questione non finisce neppure qui …
Luigi Meneghelli
Il lavoro fotografico di Marco Bertìn però non vuole essere la documentazione di quella che è diventata l’ultima frontiera del plagio, in cui si può replicare tutto: profumi, auto, moda, perfino strade, palazzi, chiese. Egli fissa la propria attenzione sulle “buone cose di cattivo gusto” che già il capitalismo selvaggio, spietato e senza pudori ha svuotato di ogni valore e di ogni riferimento culturale: souvenir, gadget, articoli sacri e profani, ecc. Gli interessa ciò che si può trovare dappertutto, ciò che è omologato, ciò che risponde alla stessa straordinaria domanda di indifferenziazione.
Ma l’operazione di Bertìn si spinge oltre: egli cerca soprattutto di svelare l’inquietante struttura che regola le leggi della produzione e del consumo di questa oggettistica dei “paradisi dello shopping” . Il fatto che in Cina ogni “gingillo” venga realizzato in milioni di copie finisce per universalizzarlo e, in un certo senso, trascenderne ogni valore psicologico, sociale, storico, estetico. Esso diventa un puro stereotipo (del consumo), un cliché della cultura di massa. Ma è proprio basandosi sulla banalità dell’oggetto, che Bertìn riesce a rivelare la dimensione di “spaesamento” che è insito in esso. E’ lo stesso fotografo che racconta come gli sia venuta l’idea di questo ciclo fotografico: “smontando le varie statuine di una matrioska russa mi sono accorto che il marchio che la contraddistingueva era ‘Made in China’ ”, ricorda. E’ come se egli avesse visto improvvisamente l’abituale come “altro”, il familiare come sconosciuto. E allora ha cominciato ad allargare il campo della sua indagine, ma solo per verificare come ogni cosa quotidiana (dunque familiare) provenisse da una dimensione ignota. La domanda che egli si è fatto con insistenza è di conseguenza: “che logica può associare la Statua della Libertà, la Tour Eiffel, Biancaneve e i sette nani con la Cina?”.
Se le cose dei nostri sogni e dei nostri giochi sono come oggetti animati, dotati di un’”anima”, di una vita affettiva, che circola, si comunica, si trasmette, seppure a livello spirituale, per il cinese si tratta perlopiù di un mondo impersonale, passivo, inerte. Non sono che merci immobilizzate nella loro presenza ottusa; merci mute e senza storia. Così, per tradurre visivamente questo “scarto” Bertìn adotta la sottile strategia della “collazione”, facendo coabitare il colore rosso della bandiera cinese con le immagini degli “oggetti del cuore” (provenienti dalle più disparate culture, ma tutti realizzati in Cina). Ed è come se egli volesse ricomporre l’infranto, riunire il qui e l’altrove.
Egli colloca sul rosso del fondo le immagini dei suoi oggetti in miniatura che, in questo modo, sembrano diventare autentici stemmi o simboli araldici custoditi in una teca o in uno scrigno “astratto”. Del resto, l’utilizzo di due tonalità di rosso fanno pensare a due piani, uno orizzontale tipico di una superficie espositiva e uno verticale che funziona da fondale. Non manca neppure il marchio giallo che richiama le cinque stelle della bandiera cinese e che traduce in ideogrammi la scritta “Made in Cina”. E’ così che paradossalmente l’oggetto kitsch all’ennesima potenza consegue un suo inatteso riscatto e che, come un attore sul palcoscenico, recita il suo copione seducente e “malizioso”.
Bertìn comunque, vuole che il suo messaggio sia massimamente chiaro: perciò elimina ogni disturbo scenografico. “Come Satie, egli dice, impiego il minimo di elementi per un massimo di resa”. Ma poi, alla maniera del bambino di Benjamin, a volte si traveste da regista e mette in moto argute trasformazioni e sottili rovesciamenti visivi. Così la Statua della Libertà viene colta di schiena come se stesse guardando il rosso della bandiera cinese e suggerisse un allarme per un’eventuale invasione gialla”, oppure l’immagine della croce (e quindi del sacrificio) viene collocata di fronte a un pacioso Budda che invece se la ride di gusto, come a sottolineare le diverse modalità di porsi nei confronti del trascendente tra Oriente e Occidente. Si tratta di tanti piccoli indizi, che diventano eclatanti nel “Polittico”: autentica apoteosi di giocattoli, sommatoria dell’universo ludico occidentale, che vuole essere una sorta di allusione ad una Cina che col tempo potrebbe finire per produrre interamente il nostro immaginario, senza mai “sapere” cosa produce realmente.
Più che estetico allora il discorso si fa etico. Tra le varie immagini c’è quella di una Madonna sostenuta da due mani oranti che si stanno arrossando, quasi che il colore della bandiera cinese le stesse invadendo, conquistando. E così l’indagine partita dalle tradizioni locali tradite, finisce per coinvolgere la storia stessa del mondo: le sue origini, i suoi credi, le sue religioni. E forse la questione non finisce neppure qui …
Luigi Meneghelli
09
ottobre 2014
Marco Bertìn – Made in China
Dal 09 ottobre al 31 dicembre 2014
fotografia
Location
PALAZZO VICTORIA
Verona, Via Adua, 8, (Verona)
Verona, Via Adua, 8, (Verona)
Orario di apertura
sempre aperto
Vernissage
9 Ottobre 2014, ore 19.00
Autore