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Marco Del Re – La pittura non è pittura
Circa 40 opere tra inchiostri su carta Népal e oli su tela (anche di grandi dimensioni) di Marco Del Re : tema dominante di questa rassegna è la figura umana e il nudo.
Comunicato stampa
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Dal 17 aprile la Galleria Jz Art Trading di Milano propone circa 40 opere tra inchiostri su carta Népal e oli su tela (anche di grandi dimensioni) di Marco Del Re : tema dominante di questa rassegna è la figura umana e il nudo.
Eccentrico artista, nato a Roma del 1950, frequenta il Liceo classico a Bruxelles e quindi si iscrive ad architettura a Roma. Tra il 1971/72 viene coinvolto quasi per caso in un’avventura teatrale d’avanguardia, facendo l’attore e lo scenografo. Già dal 1974 inizia le sue prime mostre personali come pittore: dapprima alla Galleria La Bussola di Torino e l’anno successivo una più importante alla Galleria di Arturo Schwarz di Milano.
Artista con un suo profilo stilistico e con caratteristiche inconfondibili, nelle sue opere utilizza varie tecniche e differenti tipi di carta: giapponese o tibetana, schizzando colori vivi, immagini vigorose e accuratamente delimitate. Personaggi femminili e maschili in pose anatomicamente improbabili, bagnanti nude, cariatidi, lottatori, giocolieri e altri personaggi di ispirazione mitologica, bizzarre presenze di animali, ma anche nature morte e paesaggi, questi i suoi soggetti preferiti. I titoli delle sue creazioni hanno tutti un riferimento diretto o indiretto a maestri amati: da Matisse e Braque a Derain e Picabia.
Per Marco Del Re “la pittura non è pittura”: una sua dichiarazione, forse paradossale, che fa capire che per lui la pittura non è direttamente “pittura”, anche se la sua é tradizione classica, ma si sviluppa come una rielaborazione linguistica ironica.
Stabilitosi a Parigi alla fine degli anni 80 inizia una stretta collaborazione con la Galerie Maeght.
Numerose le esposizioni personali e collettive in Italia e in tutto il mondo: da New York a Pechino, da Madrid a Instanbul,da Zurigo a Copenaghen e naturalmente a Parigi e Londra.
Dal 3 aprile al 17 maggio 2008 presenta “Retour aux sources” presso la Galerie Maeght di Parigi alcune sculture in bronzo e 14 tele realizzate nel 2006/2007 nel suo atelier di Parigi, attraverso le quali ritorna alle sue origini e rende omaggio a George Braque.
La mostra a Milano , realizzata con la collaborazione della Galerie Maeght , è arricchita dal catalogo in italiano, inglese e francese pubblicato da Prearo Editore con testi a cura di Francesco Poli.
***
MARCO DEL RE
“LA PEINTURE N’EST PAS PEINTURE”
Francesco Poli
Per cercare di capire la particolare posizione eccentrica di un artista come Marco Del Re si può partire da una sua dichiarazione che ha una valenza apparentemente paradossale: “la pittura non è pittura”.
Questa affermazione può essere letta almeno in due modi connessi fra loro. Significa da un lato che la sua pittura non va interpretata come “vera pittura”, secondo i criteri tradizionali e dall’altro lato, che per lui la pittura in generale, e in particolare quella del Novecento che più gli interessa, è soprattutto una stratificazione di memorie iconografiche, un territorio dell’immaginario culturale che si configura come una grande narrazione a cui attingere liberamente, come stimolo per altri e nuovi frammenti di racconti visivi, la cui attualità deriva precisamente, e principalmente, dallo scarto temporale che segna inesorabilmente la distanza con il passato. Si tratta di una visone dell’arte che nasce da un’attitudine fondamentalmente malinconica , dalla coscienza dell’impossibilità di concepire, ormai, una visione pittorica ancora carica di energie avanguardistiche.
Ma questo non vuol dire affatto essere risucchiati dal gorgo nostalgico passatista. Al contrario, la scommessa su cui l’artista ha basato la sua ricerca è quella di collocarsi, per così dire, in una zona franca che gli permette attraverso una ironica rilettura di temi e stilemi prediletti, pescati nel suo personale archivio di immagini dell’arte, di creare un produttivo e sorprendente corto circuito con la cultura del presente.
In altri termini, l’aspetto paradossale , a cui si è accennato, sta nel fatto che Del Re fa della pittura che non è direttamente “pittura”, anche se eseguita con tecniche classiche, ma è per molti versi “meta-pittura” che si sviluppa (senza però connotazioni esplicitamente concettuali) come rielaborazione e reinvenzione linguistica fondamentalmente ironica.
Ma una lunga pratica in questa direzione ha determinato risultati che sempre più si allontanano dalla logica postmoderna del più o meno libero citazionismo. Tanto che ormai (ironia dell’ironia) anche senza volerlo (e nonostante la su resistenza) Del Re sta diventando pittore tout court, con un suo originale profilo stilistico e con caratteristiche inconfondibili.
Nelle sue composizioni a olio su tela , a tempera su carta, o realizzate con varie tecniche grafiche (tra cui in particolare il monotipo) si è accentuata progressivamente negli anni la sua predisposizione per un linguaggio che vuole esprimere la sua identità, e verità esclusivamente a livello bidimensionale, nei limiti “assoluti” definiti dalle misure del supporto. Il lavoro si è sviluppato attraverso la messa in atto di un complesso e affascinante gioco compositivo basato su articolate elaborazioni tese a risolvere specifici problemi pittorici relativi al rapporto fra figure e sfondi, fra campiture materiche di colore e contorni lineari, e fra intersezioni e stratificazioni delle varie componenti. In una pratica operativa di questo genere il piano dei contenuti, apparentemente, sembra perdere importanza, diventando al limite un piacevole e suggestivo pretesto rispetto alle preoccupazioni formali.
Il suo repertorio iconografico sembra essersi definitivamente e felicemente fissato su un certo numero di elementi sinteticamente figurativi. La scena dei quadri è frequentata da vuoti e impassibili personaggi femminili e maschili bloccati in pose anatomicamente improbabili: nude bagnanti, cariatidi, solide ninfe boscaiole, lottatori, domatori, giocolieri e altri eventuali comprimari, che abitano paesaggi pseudoarcadici ( con montagne, boschi e acque, e architetture classiche) oppure interni con arredi decorativi. Ci sono poi anche nature morte con oggetti di tradizione più o meno cubista, e bizzarre presenze di animali, tra cui scimmie, pesci e aragoste, di piatta e araldica configurazione.
Il tutto si accampa sulle superfici dei supporti con sovrana indifferenza espressiva, e con una quasi imbarazzante assenza intenzionale di relazione con la realtà contemporanea.
I titoli sono carichi di rimandi colti e letterari, spesso ironicamente spiazzanti, e i riferimenti diretti o indiretti ad artisti amati (da Matisse e Braque a Derain e Picabia) abbondano.
Per arrivare a costruire questo singolare mondo pittorico, il percorso è stato lungo e piuttosto articolato, ma contrassegnato nelle varie fasi da alcune costanti di fondo che emergono fin dall’inizio.
Pittori si nasce o si diventa?. Del Re già da bambino, come succede, sogna di fare il pittore (e vince anche una medaglia d’argento in un concorso scolastico nazionale), ma prima di diventarlo sul serio, dopo aver fatto il liceo classico a Bruxelles ed essersi iscritto ad architettura a Roma, le sue energie e le sue speranze creative prendono altre strade per qualche anno.
All’università erano gli anni dell’immaginazione al potere, e anche Del Re è trascinato dalle scelte alternative e dagli entusiasmi libertari, venendo coinvolto quasi per caso in un’avventura teatrale d’avanguardia. Da vita nel
1971-72, insieme a degli amici, al Patagruppo (in omaggio a Jarry), facendo l’attore e lo scenografo. Da Ubu Roi a La Conquista del Messico di Artaud: i germi della parodia grottesca e dell’inquietante nichilismo dell’assurdo entrano in circolazione nell’immaginario del futuro pittore.
Il quale, nel frattempo continua a disegnare per conto suo, facendo un lavoro ironico su temi dell’architettura, arrivando a risultati non propriamente ortodossi, con curiosi scivolamenti neosurreali che successivamente daranno vita all’interessante fase di figurazioni caratterizzate dall’ibridazione fra forme architettoniche e figure umane.
Conclusa l’esperienza teatrale, che contribuisce anche ad allargare l’orizzonte degli interessi letterari (che saranno sempre fonte vitale di suggestioni ) Del Re entra fatalmente e definitivamente nell’ambiente più specifico delle arti visive, attraverso percorsi legati all’happening e alle pratiche performative, che gli danno non poche soddisfazioni, e anche la possibilità di realizzare alcuni video prodotti a Firenze dalla Art Tapes di Maria Gloria Bicocchi (con la quale collaborava all’epoca anche Bill Viola).
Ma già nel 1974 arriva l’ora della prima mostra personale come pittore alla Galleria La Bussola di Torino, seguita l’anno successivo da una più importante esposizione nella galleria di Arturo Schwarz a Milano. Vengono esposti in queste occasioni dei dipinti e dei disegni basati sulla suggestiva idea della “perversione dell’errore” (definizione elaborarata insieme all’amico Simone Carella), e cioè sulle sorprese estetiche che possono emergere dall’assecondare, per così dire, le derive degli sbagli. E c’è anche una serie di foto polaroid ritoccate (presentate anche alla Biennale di Parigi) in cui le immagini quasi scompaiono a causa delle tracce graffite
Nei dipinti e soprattutto nei lavori su carta disegnati e graffiati troviamo già alcuni elementi caratteristici della visione dell’artista: il gusto per configurazioni che si giustappongono e si sovrappongono creando strane fusioni metamorfiche; la presenza di silhouettes che emergono dal nero; l’incidenza di tracce grafiche in positivo e in negativo.
Certe connotazioni segniche più o meno automatiche vengono abbandonate, e intorno al 1979-80 ( con il trasferimento a Venezia) si consolida la definitiva virata verso una pratica figurativa che prende forma attraverso disegni e quadri caratterizzati da drammatiche atmosfere buie e nerastre e da teatrali scenari architettonici: paesaggi industriali, piazze italiane, memorie classiche e novecentiste. A dominare sono soprattutto le spesse tracce a carboncino che disegnano esasperate prospettive dechirichiane o cupi spazi sironiani, reinventati con disinvolta nonchalance.
A un certo punto, nel 1985, entrano in scena anche animali e mostri mitici: “ Gli antichi animali - ha scritto Massimo Cacciari – in furibonda lotta fra loro, avevano fatto irruzione nelle piazze romane di Del Re. Di volta in volta, queste piazze, sotto la sferza della loro presenza, erano apparse altari sacrificali, prigioni, luoghi d’agguato (…) Le loro prospettive erano lacerate dalla forza arcaica dell’animale o erano minacciate da lontano dallo loro violenza. In questo ciclo interessava a Del Re l’incessante sforzo che gli spazi dell’uomo debbono compiere per tentare di formare, immaginare, , comporre, l’irrompere dell’animale”.
Questa foga carica di foschi bagliori fantastici trova la sua massima espressione nella grande opera ambientale dall’apocalittico titolo Martirio architettonico (1986). E’ una stanza intera con i muri ricoperti da neri fregi disegnati a carboncino dove sconnesse e fluttuanti strutture architettoniche si fondono parzialmente con teste, occhi e corpi umani con una spettacolarità drammatica volutamente esagerata.
Nei quadri successivi, fino al 1990 circa, le composizioni incentrate sull’ibridazione metamorfica di figure e volti e elementi architettonici (tra cui in particolare fughe di archi di dechirichiane memoria), dipinte sempre con toni lividi fuligginosi, bruni e giallastri, tendono a definirsi attraverso contorni e profili più precisi e con valenze plastiche più evidenti.
Alla fine degli anni ’80 l’artista si trasferisce stabilmente a Parigi iniziando la sua stretta collaborazione con la Galerie Maeght, che diventa la sua principale galleria di riferimento, senza interruzioni, fino ad oggi.
L’aria di Parigi ripulisce progressivamente le tele dell’artista dalle atmosfere cupe e dai fantasmi metafisici e novecentisti italiani. Pur mantenendo una coerenza di fondo con la precedente produzione, Del Re inaugura una nuova stagione della sua pittura, che ha come referenze privilegiate le opere di grandi nomi della pittura francese del ‘900, in particolare (come si è detto) Matisse, Braque, Derain e Picabia.
Uno sviluppo decisivo della sua ricerca è determinato anche da un impegno sempre più intenso nel campo delle sperimentazioni grafiche, avendo a disposizione gli straordinari torchi della stamperia Maeght. Di particolare importanza è la scoperta della tecnica del monotipo che gli consente di realizzare delle composizioni, anche di dimensioni molto grandi, caratterizzate da una straordinaria sinteticità formale e cromatica e da una linearità secca e nitida: composizioni, su fogli di carta fatta amano, che sono allo stesso tempo rigorosamente bidimensionali e in un certo senso anche monumentali, pur nella loro leggerezza.
Questa pratica grafica del monotipo accentua anche nei quadri, in molti casi, una cerca sinteticità di matrice decorativa, ed è stata sicuramente un’esperienza molto utile per la recente realizzazione della sua opera pubblica più importante, vale a dire i tre grandissimi lavori murali (con composizioni incise a graffito) destinati alla decorazione del foyer della Salle Pleyel, tempio della musica parigina.
Eccentrico artista, nato a Roma del 1950, frequenta il Liceo classico a Bruxelles e quindi si iscrive ad architettura a Roma. Tra il 1971/72 viene coinvolto quasi per caso in un’avventura teatrale d’avanguardia, facendo l’attore e lo scenografo. Già dal 1974 inizia le sue prime mostre personali come pittore: dapprima alla Galleria La Bussola di Torino e l’anno successivo una più importante alla Galleria di Arturo Schwarz di Milano.
Artista con un suo profilo stilistico e con caratteristiche inconfondibili, nelle sue opere utilizza varie tecniche e differenti tipi di carta: giapponese o tibetana, schizzando colori vivi, immagini vigorose e accuratamente delimitate. Personaggi femminili e maschili in pose anatomicamente improbabili, bagnanti nude, cariatidi, lottatori, giocolieri e altri personaggi di ispirazione mitologica, bizzarre presenze di animali, ma anche nature morte e paesaggi, questi i suoi soggetti preferiti. I titoli delle sue creazioni hanno tutti un riferimento diretto o indiretto a maestri amati: da Matisse e Braque a Derain e Picabia.
Per Marco Del Re “la pittura non è pittura”: una sua dichiarazione, forse paradossale, che fa capire che per lui la pittura non è direttamente “pittura”, anche se la sua é tradizione classica, ma si sviluppa come una rielaborazione linguistica ironica.
Stabilitosi a Parigi alla fine degli anni 80 inizia una stretta collaborazione con la Galerie Maeght.
Numerose le esposizioni personali e collettive in Italia e in tutto il mondo: da New York a Pechino, da Madrid a Instanbul,da Zurigo a Copenaghen e naturalmente a Parigi e Londra.
Dal 3 aprile al 17 maggio 2008 presenta “Retour aux sources” presso la Galerie Maeght di Parigi alcune sculture in bronzo e 14 tele realizzate nel 2006/2007 nel suo atelier di Parigi, attraverso le quali ritorna alle sue origini e rende omaggio a George Braque.
La mostra a Milano , realizzata con la collaborazione della Galerie Maeght , è arricchita dal catalogo in italiano, inglese e francese pubblicato da Prearo Editore con testi a cura di Francesco Poli.
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MARCO DEL RE
“LA PEINTURE N’EST PAS PEINTURE”
Francesco Poli
Per cercare di capire la particolare posizione eccentrica di un artista come Marco Del Re si può partire da una sua dichiarazione che ha una valenza apparentemente paradossale: “la pittura non è pittura”.
Questa affermazione può essere letta almeno in due modi connessi fra loro. Significa da un lato che la sua pittura non va interpretata come “vera pittura”, secondo i criteri tradizionali e dall’altro lato, che per lui la pittura in generale, e in particolare quella del Novecento che più gli interessa, è soprattutto una stratificazione di memorie iconografiche, un territorio dell’immaginario culturale che si configura come una grande narrazione a cui attingere liberamente, come stimolo per altri e nuovi frammenti di racconti visivi, la cui attualità deriva precisamente, e principalmente, dallo scarto temporale che segna inesorabilmente la distanza con il passato. Si tratta di una visone dell’arte che nasce da un’attitudine fondamentalmente malinconica , dalla coscienza dell’impossibilità di concepire, ormai, una visione pittorica ancora carica di energie avanguardistiche.
Ma questo non vuol dire affatto essere risucchiati dal gorgo nostalgico passatista. Al contrario, la scommessa su cui l’artista ha basato la sua ricerca è quella di collocarsi, per così dire, in una zona franca che gli permette attraverso una ironica rilettura di temi e stilemi prediletti, pescati nel suo personale archivio di immagini dell’arte, di creare un produttivo e sorprendente corto circuito con la cultura del presente.
In altri termini, l’aspetto paradossale , a cui si è accennato, sta nel fatto che Del Re fa della pittura che non è direttamente “pittura”, anche se eseguita con tecniche classiche, ma è per molti versi “meta-pittura” che si sviluppa (senza però connotazioni esplicitamente concettuali) come rielaborazione e reinvenzione linguistica fondamentalmente ironica.
Ma una lunga pratica in questa direzione ha determinato risultati che sempre più si allontanano dalla logica postmoderna del più o meno libero citazionismo. Tanto che ormai (ironia dell’ironia) anche senza volerlo (e nonostante la su resistenza) Del Re sta diventando pittore tout court, con un suo originale profilo stilistico e con caratteristiche inconfondibili.
Nelle sue composizioni a olio su tela , a tempera su carta, o realizzate con varie tecniche grafiche (tra cui in particolare il monotipo) si è accentuata progressivamente negli anni la sua predisposizione per un linguaggio che vuole esprimere la sua identità, e verità esclusivamente a livello bidimensionale, nei limiti “assoluti” definiti dalle misure del supporto. Il lavoro si è sviluppato attraverso la messa in atto di un complesso e affascinante gioco compositivo basato su articolate elaborazioni tese a risolvere specifici problemi pittorici relativi al rapporto fra figure e sfondi, fra campiture materiche di colore e contorni lineari, e fra intersezioni e stratificazioni delle varie componenti. In una pratica operativa di questo genere il piano dei contenuti, apparentemente, sembra perdere importanza, diventando al limite un piacevole e suggestivo pretesto rispetto alle preoccupazioni formali.
Il suo repertorio iconografico sembra essersi definitivamente e felicemente fissato su un certo numero di elementi sinteticamente figurativi. La scena dei quadri è frequentata da vuoti e impassibili personaggi femminili e maschili bloccati in pose anatomicamente improbabili: nude bagnanti, cariatidi, solide ninfe boscaiole, lottatori, domatori, giocolieri e altri eventuali comprimari, che abitano paesaggi pseudoarcadici ( con montagne, boschi e acque, e architetture classiche) oppure interni con arredi decorativi. Ci sono poi anche nature morte con oggetti di tradizione più o meno cubista, e bizzarre presenze di animali, tra cui scimmie, pesci e aragoste, di piatta e araldica configurazione.
Il tutto si accampa sulle superfici dei supporti con sovrana indifferenza espressiva, e con una quasi imbarazzante assenza intenzionale di relazione con la realtà contemporanea.
I titoli sono carichi di rimandi colti e letterari, spesso ironicamente spiazzanti, e i riferimenti diretti o indiretti ad artisti amati (da Matisse e Braque a Derain e Picabia) abbondano.
Per arrivare a costruire questo singolare mondo pittorico, il percorso è stato lungo e piuttosto articolato, ma contrassegnato nelle varie fasi da alcune costanti di fondo che emergono fin dall’inizio.
Pittori si nasce o si diventa?. Del Re già da bambino, come succede, sogna di fare il pittore (e vince anche una medaglia d’argento in un concorso scolastico nazionale), ma prima di diventarlo sul serio, dopo aver fatto il liceo classico a Bruxelles ed essersi iscritto ad architettura a Roma, le sue energie e le sue speranze creative prendono altre strade per qualche anno.
All’università erano gli anni dell’immaginazione al potere, e anche Del Re è trascinato dalle scelte alternative e dagli entusiasmi libertari, venendo coinvolto quasi per caso in un’avventura teatrale d’avanguardia. Da vita nel
1971-72, insieme a degli amici, al Patagruppo (in omaggio a Jarry), facendo l’attore e lo scenografo. Da Ubu Roi a La Conquista del Messico di Artaud: i germi della parodia grottesca e dell’inquietante nichilismo dell’assurdo entrano in circolazione nell’immaginario del futuro pittore.
Il quale, nel frattempo continua a disegnare per conto suo, facendo un lavoro ironico su temi dell’architettura, arrivando a risultati non propriamente ortodossi, con curiosi scivolamenti neosurreali che successivamente daranno vita all’interessante fase di figurazioni caratterizzate dall’ibridazione fra forme architettoniche e figure umane.
Conclusa l’esperienza teatrale, che contribuisce anche ad allargare l’orizzonte degli interessi letterari (che saranno sempre fonte vitale di suggestioni ) Del Re entra fatalmente e definitivamente nell’ambiente più specifico delle arti visive, attraverso percorsi legati all’happening e alle pratiche performative, che gli danno non poche soddisfazioni, e anche la possibilità di realizzare alcuni video prodotti a Firenze dalla Art Tapes di Maria Gloria Bicocchi (con la quale collaborava all’epoca anche Bill Viola).
Ma già nel 1974 arriva l’ora della prima mostra personale come pittore alla Galleria La Bussola di Torino, seguita l’anno successivo da una più importante esposizione nella galleria di Arturo Schwarz a Milano. Vengono esposti in queste occasioni dei dipinti e dei disegni basati sulla suggestiva idea della “perversione dell’errore” (definizione elaborarata insieme all’amico Simone Carella), e cioè sulle sorprese estetiche che possono emergere dall’assecondare, per così dire, le derive degli sbagli. E c’è anche una serie di foto polaroid ritoccate (presentate anche alla Biennale di Parigi) in cui le immagini quasi scompaiono a causa delle tracce graffite
Nei dipinti e soprattutto nei lavori su carta disegnati e graffiati troviamo già alcuni elementi caratteristici della visione dell’artista: il gusto per configurazioni che si giustappongono e si sovrappongono creando strane fusioni metamorfiche; la presenza di silhouettes che emergono dal nero; l’incidenza di tracce grafiche in positivo e in negativo.
Certe connotazioni segniche più o meno automatiche vengono abbandonate, e intorno al 1979-80 ( con il trasferimento a Venezia) si consolida la definitiva virata verso una pratica figurativa che prende forma attraverso disegni e quadri caratterizzati da drammatiche atmosfere buie e nerastre e da teatrali scenari architettonici: paesaggi industriali, piazze italiane, memorie classiche e novecentiste. A dominare sono soprattutto le spesse tracce a carboncino che disegnano esasperate prospettive dechirichiane o cupi spazi sironiani, reinventati con disinvolta nonchalance.
A un certo punto, nel 1985, entrano in scena anche animali e mostri mitici: “ Gli antichi animali - ha scritto Massimo Cacciari – in furibonda lotta fra loro, avevano fatto irruzione nelle piazze romane di Del Re. Di volta in volta, queste piazze, sotto la sferza della loro presenza, erano apparse altari sacrificali, prigioni, luoghi d’agguato (…) Le loro prospettive erano lacerate dalla forza arcaica dell’animale o erano minacciate da lontano dallo loro violenza. In questo ciclo interessava a Del Re l’incessante sforzo che gli spazi dell’uomo debbono compiere per tentare di formare, immaginare, , comporre, l’irrompere dell’animale”.
Questa foga carica di foschi bagliori fantastici trova la sua massima espressione nella grande opera ambientale dall’apocalittico titolo Martirio architettonico (1986). E’ una stanza intera con i muri ricoperti da neri fregi disegnati a carboncino dove sconnesse e fluttuanti strutture architettoniche si fondono parzialmente con teste, occhi e corpi umani con una spettacolarità drammatica volutamente esagerata.
Nei quadri successivi, fino al 1990 circa, le composizioni incentrate sull’ibridazione metamorfica di figure e volti e elementi architettonici (tra cui in particolare fughe di archi di dechirichiane memoria), dipinte sempre con toni lividi fuligginosi, bruni e giallastri, tendono a definirsi attraverso contorni e profili più precisi e con valenze plastiche più evidenti.
Alla fine degli anni ’80 l’artista si trasferisce stabilmente a Parigi iniziando la sua stretta collaborazione con la Galerie Maeght, che diventa la sua principale galleria di riferimento, senza interruzioni, fino ad oggi.
L’aria di Parigi ripulisce progressivamente le tele dell’artista dalle atmosfere cupe e dai fantasmi metafisici e novecentisti italiani. Pur mantenendo una coerenza di fondo con la precedente produzione, Del Re inaugura una nuova stagione della sua pittura, che ha come referenze privilegiate le opere di grandi nomi della pittura francese del ‘900, in particolare (come si è detto) Matisse, Braque, Derain e Picabia.
Uno sviluppo decisivo della sua ricerca è determinato anche da un impegno sempre più intenso nel campo delle sperimentazioni grafiche, avendo a disposizione gli straordinari torchi della stamperia Maeght. Di particolare importanza è la scoperta della tecnica del monotipo che gli consente di realizzare delle composizioni, anche di dimensioni molto grandi, caratterizzate da una straordinaria sinteticità formale e cromatica e da una linearità secca e nitida: composizioni, su fogli di carta fatta amano, che sono allo stesso tempo rigorosamente bidimensionali e in un certo senso anche monumentali, pur nella loro leggerezza.
Questa pratica grafica del monotipo accentua anche nei quadri, in molti casi, una cerca sinteticità di matrice decorativa, ed è stata sicuramente un’esperienza molto utile per la recente realizzazione della sua opera pubblica più importante, vale a dire i tre grandissimi lavori murali (con composizioni incise a graffito) destinati alla decorazione del foyer della Salle Pleyel, tempio della musica parigina.
17
aprile 2008
Marco Del Re – La pittura non è pittura
Dal 17 aprile al 31 maggio 2008
arte contemporanea
Location
GALLERIA JZ ART TRADING
Milano, Via Fiori Chiari, 16, (Milano)
Milano, Via Fiori Chiari, 16, (Milano)
Orario di apertura
da lunedì pomeriggio a sabato 10/13 – 14/19
Editore
PREARO
Ufficio stampa
CRISTINA PARISET
Autore
Curatore