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Marco Menduni – Tibet. Natura e spiritualità
Il maestoso aspetto geografico, la cultura locale unica al mondo, il fascino di un popolo meraviglioso, rendono un viaggio in Tibet, non una vacanza, ma un’esperienza di vita singolare
Comunicato stampa
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Spiritualità e Tibet; Buddismo e Tibet: binomi indissolubili. Impossibile immaginare la regione sud-occidentale della Cina senza. Qui la dottrina buddista Vajrayana si è sovrapposta alla religione animista e sciamanica Bon, dando vita a una forma di buddismo intensa, mistica e profonda, che non può lasciare indifferente, anche solo da un punto di vista culturale, nemmeno il più convinto ateo. E così questo aspetto religioso permea la vita quotidiana di questa luogo e del suo meraviglioso popolo, mite e cordiale, ancorché profondamente ferito da una occupazione cinese che ha visto nell’aspetto religioso una connotazione culturale da cancellare, nel tentativo di una totale omologazione alle altre etnie cinesi, in primis quella han, la più diffusa nel Paese. Una tragedia che si è perpetrata in circa venti anni durante i quali la nazione tibetana è stata quasi del tutto annientata: insurrezioni represse nel sangue, circa 6500 monasteri distrutti con tutto ciò che contenevano, migliaia di monaci imprigionati o uccisi. Colpo di grazia fu la rivoluzione culturale di Mao Tse Tung. Il Tibet è stato governato per secoli da una successione di uomini ritenuti reincarnati e denominati “Dalai Lama”. Rappresenta una delle maggiori civiltà religiose di tutti i tempi ed esprime una spiritualità che trova nell’aspetto geografico una collocazione d’eccezione. Più ancora che nei templi, presenti ovunque e molto suggestivi, chi ha avuto la fortuna e la possibilità di ammirare le elevatissime vette, ritenute la dimora degli dei, di attraversare le immense vallate, di risalire i passi seguendo percorsi appena accennati, di ammirare i colori improbabili di fiumi e corsi d’acqua di questo Paese, proprio in questi elementi può comprendere il senso mistico di una natura che si manifesta in tutta la sua grandiosità e potenza.
Ed allora ecco che anche un semplice sasso, magari con l’iscrizione di una invocazione, diventa esso stesso sacro, in quanto emanazione del divino attraverso la natura. Le stesse “bandiere di preghiera”, fazzoletti di stoffa colorati recanti orazioni, diventano suppliche ripetute all’infinito con il semplice soffiare del vento che, sventolandole ininterrottamente, le eleva al cielo. Come non ricordare, di ritorno da quei luoghi, il bisbiglio continuo e pacato delle folle di fedeli che recitano antichi “mantra”, brevi preghiere dotate di potere mistico e ripetute a mò di litania, attraversando le sale dei templi illuminate solo da ceri e lumini, pervase dall’odore acre e persistente dell’incenso, adornate con immagini di importanti lama viventi e non, e sovrastate dalle onnipresenti statue del Buddha Sakyamuni. Folle di fedeli instancabili che non pregano solo con la parola, ma anche con la rotazione dei cosiddetti “mulini di preghiera”, cilindri recanti all’esterno incisioni di “mantra” e contenenti all’interno strisce, sempre di stoffa, sulle quali vengono scritte invocazioni. Questi “mulini”, attraverso la rotazione impressa dalla mano, elevano al divino le preghiere.
In questo paese gli inverni sono in assoluto tra i più rigidi al mondo; si verificano sbalzi termici anche di 20 o 30 gradi nell’arco di un solo giorno, eppure non è difficile incontrare pellegrini che percorrono distanze spesso notevoli, di sovente a piedi, per raggiungere le numerose mete di preghiera. Affrontando strade malamente ed approssimativamente battute e grandi distanze, singoli fedeli, o anche intere famiglie, si spostano per raggiungere importanti luoghi di culto, come, ad esempio, il Potala in Lhasa, l’ex residenza estiva del Dalai Lama, prima che questi fosse costretto a scappare in India nel 1959 sotto la repressione militare cinese. Episodio, quest’ultimo, culmine del dramma politico, culturale e religioso di questo popolo. Un altro aspetto di questo popolo che colpisce il visitatore è l’attenzione che esso ripone nella cura del proprio aspetto estetico, in particolar modo le donne. Gli uomini lasciano crescere molto i capelli, che spesso sono raccolti in capienti copricapo che ricordano un po’ le nostre coppole e legati da fili di stoffa rossa intrecciata. Molti indossano orecchini di turchese, di corallo o di osso, spesso accostati tra loro. Taluni indossano coloratissimi gambali di stoffa con suola di pelle che hanno la particolarità di non avere una sinistra ed una destra, in quanto terminano indifferentemente con una punta squadrata. Nei periodi più freddi si utilizzano cappotti di pelle di yak foderati di pelo dello stesso, con maniche lunghe fino anche alle ginocchia, all’interno delle quali i viandanti non solo riparano le mani, ma possono anche custodire, durante piccoli spostamenti, oggetti, cibo o altro. Per il resto abiti occidentali trovano sempre maggiormente impiego. Le donne, viceversa, conservano molto di più la tradizione nell’abbigliamento, vestendo gonne di stoffa spessa, prevalentemente scura, coperta immancabilmente sul davanti da una sorta di grembiulino a righe orizzontali colorate; come cintura utilizzano una placca di metallo decorata a bassorilievo, la quale, nella parte posteriore, reca all’estremità due piccoli ganci che affondano nella stoffa tenendola ferma. Diffusissimi i monili di tutti i generi: anelli, ciondoli, bracciali, collane ed altro ancora. Anche in questo caso i materiali più utilizzati sono il turchese, il corallo e l’osso, abbinati in splendide composizioni. Particolari alcuni ferma capelli formati da pietre di turchese legate in fila l’una all’altra con al centro un sorta di fermaglio metallico color oro o argento sovrastato da una pietra anch’essa di turchese ma più grande, che richiama le altre. A proposito dei succitati yak, animali via di mezzo tra mucche e bisonti o tori, è importante capire la loro importanza e funzione nella comunità tibetena. Questi rappresentano, infatti, ciò che per gli Indiani d’America significavano i bisonti: animali indispensabili per la loro stessa esistenza.
Lo yak è estremamente resistente all’avverso habitat in cui vive: resiste, infatti, grazie al folto e spesso pelo, a temperature di molto inferiori allo zero.
Può inoltre sopportare periodi di magra relativamente lunghi. Insomma un animale coriaceo, ma tutto sommato mite, che viene utilizzato in tantissimi modi: per il trasporto di persone o merci, come animale da soma, come fornitore di pelli da concia e di pelo per l’abbigliamento. Naturalmente risulta indispensabile per l’alimentazione. La sua carne, infatti, è estremamente nutriente; con il suo latte si producono formaggio e burro. In particolar modo quest’ultimo è una vera particolarità in tutto l’altopiano tibetano, essendo consumato spessissimo ed in ogni occasione conviviale: è un’ enorme fonte energetica alimentare, utilissima in quelle condizioni ambientali.
Per quello che riguarda il sapore…forse è l’unica cosa di cui non si ha nostalgia di ritorno da quei luoghi. Difficile, poi, parlare dei bambini senza scivolare nel banale o nel già detto mille e mille volte. Del resto sono meravigliosi in tutto il mondo, ma i bambini tibetani sono davvero magnetici. Avendo ben poco, ripongono una grande curiosità, ma allo stesso tempo discrezione, per qualsiasi oggetto che, non conoscendo o non possedendo, attiri la loro attenzione.
In definitiva il Tibet è un luogo per il quale risulta difficile spiegare le sensazioni e le emozioni che provoca. Il maestoso aspetto geografico, la cultura locale unica al mondo, il fascino di un popolo meraviglioso, rendono un viaggio in Tibet, non una vacanza, ma un’ esperienza di vita singolare: il contatto e confronto con un modo di vivere, ancorché duro, molto semplice e naturale;
proprio come è connaturato nella natura dell’uomo, fin da che questo esiste, il rapporto, mistico e misterioso, con il sovrannaturale.
Accenni tecnici:
tutte le foto sono diapositive; nessuna è stata manipolata digitalmente; le pellicole utilizzate sono Fuji Velia e Provia , e Kodak VS.
La macchina utilizzata è una Nikon F100 con obbiettivi Nikon e Sigma, e una Leica M6 con lenti Leica e Voightlander.
Marco Menduni nasce a Napoli nel 1972. Scopre la fotografia relativamente tardi. In breve tempo, però, se ne innamora e diviene per lui qualcosa di più di una semplice passione. Il suo approccio fotografico si propone come sintesi di due grandi interessi: il viaggio e l’incontro con l’altro. Questo secondo aspetto si manifesta con forza ed immediatezza nei ritratti, con i quali riesce a stabilire, anche se per un attimo, un contatto con il soggetto. La lente dell’obiettivo diventa quindi un pretesto per relazionarsi ed interagire con le persone. La macchina fotografica non è altro che un ponte per accorciare le distanze con diversi popoli, vari luoghi, culture differenti. Nel 2006 la prima mostra presso Fonoteca a Napoli e nel 2007 la seconda presso lo spazio espositivo del “Kestè”, vetrina per numerosi artisti napoletani emergenti. Nello stesso anno, viene pubblicata una sua foto del reportage “Guatemala, i colori di un mondo” sul libro Nikon – Nital Photo Contest. Sue le immagini del libro “I sedili di Napoli” del prof. R. Mazullo. Offre stabilmente la sua collaborazione fotografica all’ANED (Associazione Nazionale Emodializzati).
Ed allora ecco che anche un semplice sasso, magari con l’iscrizione di una invocazione, diventa esso stesso sacro, in quanto emanazione del divino attraverso la natura. Le stesse “bandiere di preghiera”, fazzoletti di stoffa colorati recanti orazioni, diventano suppliche ripetute all’infinito con il semplice soffiare del vento che, sventolandole ininterrottamente, le eleva al cielo. Come non ricordare, di ritorno da quei luoghi, il bisbiglio continuo e pacato delle folle di fedeli che recitano antichi “mantra”, brevi preghiere dotate di potere mistico e ripetute a mò di litania, attraversando le sale dei templi illuminate solo da ceri e lumini, pervase dall’odore acre e persistente dell’incenso, adornate con immagini di importanti lama viventi e non, e sovrastate dalle onnipresenti statue del Buddha Sakyamuni. Folle di fedeli instancabili che non pregano solo con la parola, ma anche con la rotazione dei cosiddetti “mulini di preghiera”, cilindri recanti all’esterno incisioni di “mantra” e contenenti all’interno strisce, sempre di stoffa, sulle quali vengono scritte invocazioni. Questi “mulini”, attraverso la rotazione impressa dalla mano, elevano al divino le preghiere.
In questo paese gli inverni sono in assoluto tra i più rigidi al mondo; si verificano sbalzi termici anche di 20 o 30 gradi nell’arco di un solo giorno, eppure non è difficile incontrare pellegrini che percorrono distanze spesso notevoli, di sovente a piedi, per raggiungere le numerose mete di preghiera. Affrontando strade malamente ed approssimativamente battute e grandi distanze, singoli fedeli, o anche intere famiglie, si spostano per raggiungere importanti luoghi di culto, come, ad esempio, il Potala in Lhasa, l’ex residenza estiva del Dalai Lama, prima che questi fosse costretto a scappare in India nel 1959 sotto la repressione militare cinese. Episodio, quest’ultimo, culmine del dramma politico, culturale e religioso di questo popolo. Un altro aspetto di questo popolo che colpisce il visitatore è l’attenzione che esso ripone nella cura del proprio aspetto estetico, in particolar modo le donne. Gli uomini lasciano crescere molto i capelli, che spesso sono raccolti in capienti copricapo che ricordano un po’ le nostre coppole e legati da fili di stoffa rossa intrecciata. Molti indossano orecchini di turchese, di corallo o di osso, spesso accostati tra loro. Taluni indossano coloratissimi gambali di stoffa con suola di pelle che hanno la particolarità di non avere una sinistra ed una destra, in quanto terminano indifferentemente con una punta squadrata. Nei periodi più freddi si utilizzano cappotti di pelle di yak foderati di pelo dello stesso, con maniche lunghe fino anche alle ginocchia, all’interno delle quali i viandanti non solo riparano le mani, ma possono anche custodire, durante piccoli spostamenti, oggetti, cibo o altro. Per il resto abiti occidentali trovano sempre maggiormente impiego. Le donne, viceversa, conservano molto di più la tradizione nell’abbigliamento, vestendo gonne di stoffa spessa, prevalentemente scura, coperta immancabilmente sul davanti da una sorta di grembiulino a righe orizzontali colorate; come cintura utilizzano una placca di metallo decorata a bassorilievo, la quale, nella parte posteriore, reca all’estremità due piccoli ganci che affondano nella stoffa tenendola ferma. Diffusissimi i monili di tutti i generi: anelli, ciondoli, bracciali, collane ed altro ancora. Anche in questo caso i materiali più utilizzati sono il turchese, il corallo e l’osso, abbinati in splendide composizioni. Particolari alcuni ferma capelli formati da pietre di turchese legate in fila l’una all’altra con al centro un sorta di fermaglio metallico color oro o argento sovrastato da una pietra anch’essa di turchese ma più grande, che richiama le altre. A proposito dei succitati yak, animali via di mezzo tra mucche e bisonti o tori, è importante capire la loro importanza e funzione nella comunità tibetena. Questi rappresentano, infatti, ciò che per gli Indiani d’America significavano i bisonti: animali indispensabili per la loro stessa esistenza.
Lo yak è estremamente resistente all’avverso habitat in cui vive: resiste, infatti, grazie al folto e spesso pelo, a temperature di molto inferiori allo zero.
Può inoltre sopportare periodi di magra relativamente lunghi. Insomma un animale coriaceo, ma tutto sommato mite, che viene utilizzato in tantissimi modi: per il trasporto di persone o merci, come animale da soma, come fornitore di pelli da concia e di pelo per l’abbigliamento. Naturalmente risulta indispensabile per l’alimentazione. La sua carne, infatti, è estremamente nutriente; con il suo latte si producono formaggio e burro. In particolar modo quest’ultimo è una vera particolarità in tutto l’altopiano tibetano, essendo consumato spessissimo ed in ogni occasione conviviale: è un’ enorme fonte energetica alimentare, utilissima in quelle condizioni ambientali.
Per quello che riguarda il sapore…forse è l’unica cosa di cui non si ha nostalgia di ritorno da quei luoghi. Difficile, poi, parlare dei bambini senza scivolare nel banale o nel già detto mille e mille volte. Del resto sono meravigliosi in tutto il mondo, ma i bambini tibetani sono davvero magnetici. Avendo ben poco, ripongono una grande curiosità, ma allo stesso tempo discrezione, per qualsiasi oggetto che, non conoscendo o non possedendo, attiri la loro attenzione.
In definitiva il Tibet è un luogo per il quale risulta difficile spiegare le sensazioni e le emozioni che provoca. Il maestoso aspetto geografico, la cultura locale unica al mondo, il fascino di un popolo meraviglioso, rendono un viaggio in Tibet, non una vacanza, ma un’ esperienza di vita singolare: il contatto e confronto con un modo di vivere, ancorché duro, molto semplice e naturale;
proprio come è connaturato nella natura dell’uomo, fin da che questo esiste, il rapporto, mistico e misterioso, con il sovrannaturale.
Accenni tecnici:
tutte le foto sono diapositive; nessuna è stata manipolata digitalmente; le pellicole utilizzate sono Fuji Velia e Provia , e Kodak VS.
La macchina utilizzata è una Nikon F100 con obbiettivi Nikon e Sigma, e una Leica M6 con lenti Leica e Voightlander.
Marco Menduni nasce a Napoli nel 1972. Scopre la fotografia relativamente tardi. In breve tempo, però, se ne innamora e diviene per lui qualcosa di più di una semplice passione. Il suo approccio fotografico si propone come sintesi di due grandi interessi: il viaggio e l’incontro con l’altro. Questo secondo aspetto si manifesta con forza ed immediatezza nei ritratti, con i quali riesce a stabilire, anche se per un attimo, un contatto con il soggetto. La lente dell’obiettivo diventa quindi un pretesto per relazionarsi ed interagire con le persone. La macchina fotografica non è altro che un ponte per accorciare le distanze con diversi popoli, vari luoghi, culture differenti. Nel 2006 la prima mostra presso Fonoteca a Napoli e nel 2007 la seconda presso lo spazio espositivo del “Kestè”, vetrina per numerosi artisti napoletani emergenti. Nello stesso anno, viene pubblicata una sua foto del reportage “Guatemala, i colori di un mondo” sul libro Nikon – Nital Photo Contest. Sue le immagini del libro “I sedili di Napoli” del prof. R. Mazullo. Offre stabilmente la sua collaborazione fotografica all’ANED (Associazione Nazionale Emodializzati).
01
luglio 2008
Marco Menduni – Tibet. Natura e spiritualità
Dal primo luglio al 31 agosto 2008
fotografia
Location
LA FELTRINELLI – PIAZZA DEI MARTIRI
Napoli, Piazza Dei Martiri, 23, (Napoli)
Napoli, Piazza Dei Martiri, 23, (Napoli)
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