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Maria Ester Joao – L’Invisibile attraverso il visibile
Con poche risorse plastiche, Joao parla dell’invisibile attraverso il visibile: “Nella mia opera c’è permanentemente l’infinito, la struttura matematica contenuta dal supporto della tela può andare oltre la parete”.
Comunicato stampa
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Maria ester Joao è architetto laureata all’Universidad Nacional di Buenos Aires. Dal 1987 rivolge il suo interesse alle arti plastiche. Realizza la sua prima mostra personale nel 1989. Da allora ha allestito molte mostre personali e partecipato a numerose collettive in musei, centri culturali e gallerie in Argentina e all’estero. Dal 2005 vive e lavora tra Buenos Aires e Milano.
Nel testo di presentazione il critico Julio Sànchez scrive:
Gran parte della produzione di Maria Ester Joao è una scusa per cercare di capi i misteri dell’esistenza, del divenire, della permanenza e l’impermanenza; niente di tutto questo potrebbe essere spiegato con parole, né con figure, forse è per quello che Joao ricorre al linguaggio della geometria che trascende il turbine di forme mutevoli. L’artista spiega in questo modo: “La geometria è sorprendente e si manifesta come un sistema di regole che, applicate al processo di creazione, generano e costruiscono l’opera. Io soltanto segno alcuni punti e linee che rapidamente entrano in relazione per delineare un’organizzazione che non mi permette niente di arbitrario o soggettivo. Queste strutture hanno delle regole precise di organizzazione e assoluta simmetria, assiale o centrale; le reti o le variazioni lineari rispondono ad una sequenza matematica. Il risultato sono immagini assolutamente logiche e sistematiche; immagini dell’ordine, del processo complessivo che mette in relazione le cose, dall’infinitesimale all’infinito”. Con poche risorse plastiche, Joao parla dell’invisibile attraverso il visibile: “Nella mia opera c’è permanentemente l’infinito, la struttura matematica contenuta dal supporto della tela può andare oltre la parete”.
In effetti, questi disegni sono un taglio, una parentesi tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, cioè, la scala umana, perché né l’uno né l’altro sono accessibili a nessuno di noi, neppure con la tecnologia più avanzata. In occidente il colore bianco è associato alla purezza, all’essenza di macula. Dal punto di vista della fisica, il bianco è la somma dei colori; il fascio di luce scomposto da un prisma dà i colori dell’arcobaleno; dunque, il bianco è l’unità che si scompone nella diversità,
un simbolo della divinità intesa come il tawhid islamico. L’idea di un’unità sottostante e invisibile come una realtà più fondamentale che si può trovare in molte scuole di occultismo, come la teosofia (a cui ha aderito Piet Mondrian), i Rosacroce ( gruppo a cui apparteneva Ives Klein) e la Kabbalah, tra molte altre. Questa tradizione deriva dal neoplatonismo, articolato da Plotino nel II° secolo dopo Cristo. Questa filosofia basata sul problema dell’Uno e il Molteplice, risiede fondamentalmente nel rapporto figura-sfondo; lo sfondo rappresenta il campo potenziale dell’essere da dove possono emergere, ma anche sciogliersi diverse figure. Nel ritrarre solo lo sfondo, la pittura monocroma decreta la supremazia dell’Uno. Il rapporto tra universalità e monocromia è illustrato in modo simile dal poeta Stéphane Mallarmé, che sosteneva che il poema perfetto sarebbe un foglio bianco, perché ha l’attualità del nulla e la potenzialità del tutto.
Nel libro “Lo spirituale nell’arte” Wassily Kandinsky scrive: “In una considerazione più sfumata, il bianco che spesso è ritenuto un “non-colore” ( soprattutto grazie agli impressionisti che “non vedono il bianco nella natura”), è il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come qualità e sostanze materiali, sono scomparsi. È un mondo così alto rispetto a noi che non ne avvertiamo i suoni. Da lì ci arriva solo un immenso silenzio che, rappresentato materialmente, ci appare come un muro invalicabile, indistruttibile, infinito. Per questo il bianco agisce sulla nostra anima come un grande silenzio assoluto. Interiormente lo sentiamo come un “non –suono”, molto simile a determinate pause musicali che interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un contenuto, senza concluderlo definitivamente. È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio il nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così nel tempo bianco dell’era glaciale”. Joao ha utilizzato i colori della tempera per solcarli con delle linee sottili sulla carta soltanto agli inizi della sua carriera; una volta imbarcata nel bianco, non ha più abbandonato la nave. L’artista ricorda come sono cominciati ad apparire i materiali nella sua opera; “Le mie prime opere avevano la stessa struttura geometrica ma erano dipinte, c’erano delle linee delicate che solcavano il piano di colore, quelle sono state poi sostituite dal filo, ho scoperto un materiale sottile, impercettibile ma abbastanza robusto per proiettare delle ombre. Più avanti le semisfere hanno sostituito l’intersezione dei fili”. Così è apparso il complemento fondamentale della sua produzione, la luce. La topografia minuscola che emerge dai fili produce un effetto che sembra mettere in moto la struttura geometrica, specialmente quando lo spettatore cammina davanti alle opere; anche l’illuminazione è parte integrale dell’opera, una luce frontale annulla l’immagine e quella radente la risalta.
Maria Ester Joao sostiene che le sue immagini risultano “immacolate, attraverso innumerevoli strati di pittura, fino a raggiungere il giusto grado di luminosità. La luce agisce come rivelatrice dell’immagine. La luce si riflette, è assorbita e produce delle ombre. Anche se i dipinti sono monocromi, c’è variazione di valori per la gradazione delle ombre e linee di massima lucentezza per la riflessione della luce. Il bianco e il silenzio sono i miei punti di partenza, dove la vista comincia a differenziare le forme e la mente costruisce un mondo visivo, è come ritornare al momento in cui un suono rompe la pienezza del silenzio”.
Nel testo di presentazione il critico Julio Sànchez scrive:
Gran parte della produzione di Maria Ester Joao è una scusa per cercare di capi i misteri dell’esistenza, del divenire, della permanenza e l’impermanenza; niente di tutto questo potrebbe essere spiegato con parole, né con figure, forse è per quello che Joao ricorre al linguaggio della geometria che trascende il turbine di forme mutevoli. L’artista spiega in questo modo: “La geometria è sorprendente e si manifesta come un sistema di regole che, applicate al processo di creazione, generano e costruiscono l’opera. Io soltanto segno alcuni punti e linee che rapidamente entrano in relazione per delineare un’organizzazione che non mi permette niente di arbitrario o soggettivo. Queste strutture hanno delle regole precise di organizzazione e assoluta simmetria, assiale o centrale; le reti o le variazioni lineari rispondono ad una sequenza matematica. Il risultato sono immagini assolutamente logiche e sistematiche; immagini dell’ordine, del processo complessivo che mette in relazione le cose, dall’infinitesimale all’infinito”. Con poche risorse plastiche, Joao parla dell’invisibile attraverso il visibile: “Nella mia opera c’è permanentemente l’infinito, la struttura matematica contenuta dal supporto della tela può andare oltre la parete”.
In effetti, questi disegni sono un taglio, una parentesi tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, cioè, la scala umana, perché né l’uno né l’altro sono accessibili a nessuno di noi, neppure con la tecnologia più avanzata. In occidente il colore bianco è associato alla purezza, all’essenza di macula. Dal punto di vista della fisica, il bianco è la somma dei colori; il fascio di luce scomposto da un prisma dà i colori dell’arcobaleno; dunque, il bianco è l’unità che si scompone nella diversità,
un simbolo della divinità intesa come il tawhid islamico. L’idea di un’unità sottostante e invisibile come una realtà più fondamentale che si può trovare in molte scuole di occultismo, come la teosofia (a cui ha aderito Piet Mondrian), i Rosacroce ( gruppo a cui apparteneva Ives Klein) e la Kabbalah, tra molte altre. Questa tradizione deriva dal neoplatonismo, articolato da Plotino nel II° secolo dopo Cristo. Questa filosofia basata sul problema dell’Uno e il Molteplice, risiede fondamentalmente nel rapporto figura-sfondo; lo sfondo rappresenta il campo potenziale dell’essere da dove possono emergere, ma anche sciogliersi diverse figure. Nel ritrarre solo lo sfondo, la pittura monocroma decreta la supremazia dell’Uno. Il rapporto tra universalità e monocromia è illustrato in modo simile dal poeta Stéphane Mallarmé, che sosteneva che il poema perfetto sarebbe un foglio bianco, perché ha l’attualità del nulla e la potenzialità del tutto.
Nel libro “Lo spirituale nell’arte” Wassily Kandinsky scrive: “In una considerazione più sfumata, il bianco che spesso è ritenuto un “non-colore” ( soprattutto grazie agli impressionisti che “non vedono il bianco nella natura”), è il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come qualità e sostanze materiali, sono scomparsi. È un mondo così alto rispetto a noi che non ne avvertiamo i suoni. Da lì ci arriva solo un immenso silenzio che, rappresentato materialmente, ci appare come un muro invalicabile, indistruttibile, infinito. Per questo il bianco agisce sulla nostra anima come un grande silenzio assoluto. Interiormente lo sentiamo come un “non –suono”, molto simile a determinate pause musicali che interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un contenuto, senza concluderlo definitivamente. È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio il nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così nel tempo bianco dell’era glaciale”. Joao ha utilizzato i colori della tempera per solcarli con delle linee sottili sulla carta soltanto agli inizi della sua carriera; una volta imbarcata nel bianco, non ha più abbandonato la nave. L’artista ricorda come sono cominciati ad apparire i materiali nella sua opera; “Le mie prime opere avevano la stessa struttura geometrica ma erano dipinte, c’erano delle linee delicate che solcavano il piano di colore, quelle sono state poi sostituite dal filo, ho scoperto un materiale sottile, impercettibile ma abbastanza robusto per proiettare delle ombre. Più avanti le semisfere hanno sostituito l’intersezione dei fili”. Così è apparso il complemento fondamentale della sua produzione, la luce. La topografia minuscola che emerge dai fili produce un effetto che sembra mettere in moto la struttura geometrica, specialmente quando lo spettatore cammina davanti alle opere; anche l’illuminazione è parte integrale dell’opera, una luce frontale annulla l’immagine e quella radente la risalta.
Maria Ester Joao sostiene che le sue immagini risultano “immacolate, attraverso innumerevoli strati di pittura, fino a raggiungere il giusto grado di luminosità. La luce agisce come rivelatrice dell’immagine. La luce si riflette, è assorbita e produce delle ombre. Anche se i dipinti sono monocromi, c’è variazione di valori per la gradazione delle ombre e linee di massima lucentezza per la riflessione della luce. Il bianco e il silenzio sono i miei punti di partenza, dove la vista comincia a differenziare le forme e la mente costruisce un mondo visivo, è come ritornare al momento in cui un suono rompe la pienezza del silenzio”.
10
maggio 2014
Maria Ester Joao – L’Invisibile attraverso il visibile
Dal 10 al 25 maggio 2014
arte contemporanea
Location
SPAZIO ROCCO SCOTELLARO
Vigevano, Via Cesarea, 49, (Pavia)
Vigevano, Via Cesarea, 49, (Pavia)
Orario di apertura
mercoledì e venerdì ore 21-23 giovedì sabato e domenica ore 17-19
Vernissage
10 Maggio 2014, 17,30
Autore
Curatore