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Mario Paschetta – Appunti di un viaggiatore lombardo
Con questo progetto espositivo Paschetta visita con il suo particolare stile pittorico i paesaggi lacustri, fluviali e paesaggistici dell’Adda
Comunicato stampa
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L’Adda e le sue montagne nella pittura lombarda.
Dall’Impressonismo all’Informale
Di Anna Caterina Bellati
Sono avvezza a scrivere di un fiume, l’Adda, per molti motivi. Cresciuta sulle sue rive, ho imparato ad amarlo da bambina perché mio nonno mi portava a guardarlo uscire dal lago di Lecco. Placido e largo si avvia proprio da lì verso il mare. Ma è diventato un luogo letterario molto più tardi, quando certi artisti anche loro delle mie parti, mi hanno insegnato a scoprirne luci e ombre, leggende e segreti. Perciò torno volentieri a raccontarne in occasione di questo volume che correda alcune mostre lombarde di un caro amico, Mario Paschetta.
E poiché si tratta di una faccenda che conosco bene, coltivata negli anni a furia di mostre e scoperte artistiche, dirò di Paschetta e dei suoi paesaggi d’acqua e di roccia solo verso la fine. Del resto si tratta, nel nostro caso, di ripercorrere un capitolo della storia pittorica di una terra, quella parte di Lombardia che comincia al confine con i Grigioni e arriva fino a Milano.
La primavera è nel pieno rigoglio e comincio a scrivere stando seduta a un tavolino all’aperto davanti al fiume. È il secondo giorno che vengo a Imbersago a guardare scorrere l’acqua di mille verdi cangianti. Va verso il ponte di Brivio e poi bagna altri paesi, fino alla pianura, fino al Po.
Il mio tavolino è un po’ in disparte, permette fantasticherie. Così posso introdurre gli artisti dei quali parleremo su questo immaginario palcoscenico che ha per quinta proprio l’acqua tanto spesso protagonista dei loro quadri. Silvio Poma sembra uscito da uno dei suoi bozzetti, è vestito in modo sgargiante proprio come immagini dovessero abbigliarsi i pittori nell’Ottocento. Da una spalla gli pende una cassettina con colori, pennelli e cavalletto mobile. Emilio Longoni arriva da un’escursione, ha l’aria sana di chi è avvezzo a camminare in montagna e un fascio di schizzi sotto il braccio. Emilio Gola è un signore distinto in su con gli anni, porta un cappello bianco a larghe falde, scarpe bianche e un completo grigio scuro con panciotto e cravatta. Prende schizzi veloci delle case sulla riva di fronte con una matita dalla punta grossa. Spesso, mentre disegna, si accarezza la folta barba. Le persone che gli passano accanto lo guardano schive e gli fanno brevi cenni del capo. Lui è il conte Gola e molti di loro lavorano nella sua casa del Buttero che è poco distante, a Olgiate. Accanto al conte c’è un uomo dalla faccia serena e i capelli brizzolati. Ha un paio di occhiali che inforca e toglie continuamente per mettere a fuoco il suo soggetto, un moccioso con una grossa bici e un cane. Il ragazzino lo conosce bene perché Riccardo Brambilla è il suo maestro di disegno, anzi è il maestro di disegno di tutti i ragazzi di queste contrade. Ha fatto quella professione per tutta la vita, anche se ha la mania della pittura e nella sua casa del Cornello, a Calco, ha trasformato lo stanzone per i bachi da seta in atelier. Brambilla e Gola si conoscono da molto tempo e certi pomeriggi di domenica il maestro sale a piedi al Buttero perché insieme i due pittori lavorano allo stesso soggetto, il cipresso piantato nel giardino dietro la grande casa. Li raggiunge una terza persona. Donato Frisia è da poco tornato da Parigi dove ha condiviso con Modigliani un bel sodalizio. Gli piace viaggiare, soprattutto Parigi e l’Africa sono i suoi grandi luoghi ispiratori, ma questa è la sua terra e quando ritorna in Brianza la tavolozza diventa più calda e piena. Di mestiere fa solo il pittore e con i tempi che corrono non è facile. Frisia è di Merate e Gola è un amico di vecchia data. Tantissime volte hanno condiviso lo studio del Buttero, hanno ritratto le stesse modelle (delle quali una è proprio la moglie di Frisia), hanno fermato sulla tela lo stesso scorcio di paesaggio. Ma sulla pittura nutrono idee diverse, vuoi per la differenza d’età, vuoi per il carattere. Tutti quanti parlano animatamente. Di colori, di mostre, dei temi dirompenti della pittura del nuovo secolo, il Novecento.
Dal viale alberato che conduce a questo breve spiazzo arriva un uomo alto, distinto, in uniforme. Si tratta di Alberto Brambilla, figlio di Riccardo. La sua aria asciutta da militare è mitigata da due occhi fieri eppure addolciti nel tempo da tutte le brutture viste in guerra e negli ospedali da campo. Alberto è medico e ha curato tanti malati di malaria durante la guerra d’Africa. Oggi la terra di Brianza gli restituisce un po’ di serenità e il fiume lo tenta con i suoi toni leggeri.
Umberto Lilloni si presenta all’appuntamento un po’ più tardi. Ha ancora le mani sporche di pittura. Porta un paio di occhiali neri dalla grossa montatura, la fronte spaziosa è appena solcata da rughe sottili, mentre la faccia rubiconda ha un sorriso bonario. In questo periodo sta lavorando a un certo numero di oli dedicati all’Adda e lo preoccupa specialmente la trasparenza dell’acqua. Quel suo speciale modo di lavorare sui colori, come se contenessero la luce, è detto Chiarismo. Un uomo dallo sguardo profondo e severo osserva i nostri artisti stando appoggiato al parapetto sull’argine del fiume. Ennio Morlotti è pazzo dell’Adda, per lui questo fiume è diventato con gli anni un’ossessione, lo strumento per filtrare le cose e il loro senso, posto che un senso ci sia da qualche parte. Ha cominciato a parlare dell’Adda fin da ragazzo, poi per vicende diverse si è imbattuto nel Cubismo e nei grandi ideali dell’arte europea del primo Novecento, ma un richiamo sempre più forte e tenace lo ha spinto a tornare qui, in cerca del proprio posto e del proprio ruolo nella storia dell’arte. E l’ha trovato finalmente, si chiama Informale. Vicino a Morlotti c’è il suo amico Romano Trojani, conosciuto agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento. Il loro sodalizio ha cambiato in modo definitivo la pittura riguardante l’Adda. Da placido nastro serpeggiante nel verde il fiume è diventato un crogiolo di colori tanto intensi da guadagnare in Morlotti tutto lo spazio della tela e da far sentire la sua presenza, in Trojani, anche quando è solo accennato con una striscia di materia. I due si avviano verso il traghetto perché dall’altra parte c’è un ristorante dove si mangia del buon pesce. Sul traghetto c’è un altro pittore, Donato Frisia jr, nipote dell’altro Frisia. Donatino ha una strana prerogativa, dipinge le cose capovolte nell’acqua, il suo mondo interiore gli fa vedere tutto come in uno specchio. I colori escono veloci dalle mani, dipinge in fretta quasi il suo soggetto stesse fuggendo, con l’acqua, verso il mare.
Questo breve excursus inizia dunque da Silvio Poma (Trescore Balneario, 1840-Turate, 1932). La sua maniera pittorica prende l’avvio davanti al mare delle isole Tremiti, ma l’acqua l’avrebbe attratto sempre e quando la carriera militare lo condusse in vari luoghi d’Italia, sarebbe rimasto fedele a quest’idea liquida del mondo. A un giornalista che durante l’Esposizione di Milano del 1906 gli aveva chiesto dove volesse arrivare con il suo lavoro disse, “A studiare la natura con amore per trarne possibilmente i migliori quadri con tecnica facile e semplice”. La sua liricità deriva forse da questo ragionamento. Innamorato della Lombardia, regione dove trascorse gran parte della vita, ne immortalò un numero imprecisato di scorci con particolare attenzione per i paesi e le sponde dei due rami del lago di Como che fu davvero la sua passione infinita, raccontata in ogni possibile sfumatura. E la sequenza delle sue visioni paesistiche legate alle radici che accomunano gli artisti dei quali parleremo, testimoniano usi e costumi di un periodo preciso, quello in cui la penisola italica diventava uno Stato. Poma in quegli anni trasformò la pittura in un taccuino che lo accompagnava sempre, sia quando combatté durante le guerre d’Indipendenza e poi nella lotta contro il brigantaggio, sia quando intraprese in modo definitivo la carriera d’artista.
In questo viaggio lungo oltre un secolo la seconda figura che incontriamo è quella di Emilio Longoni (Barlassina, 1859-Milano, 1932).
Agli inizi del marzo 1886 Giovanni Segantini si era trasferito a Savognino. Il suo amico di escursioni pittoriche sul gruppo del Bernina, Emilio Longoni, in quella lontana primavera si trovava a Villa Torelli, a Ghiffa. Questa separazione sarebbe durata a lungo, interrotta ogni tanto da qualche incrocio milanese nella galleria dei fratelli Grubicy. Mentre Segantini viveva sul versante svizzero delle Alpi, Longoni non lo raggiunse mai né a Savognino, né a Soglio, né ai piedi dello Schafberg. Poi l’amico con cui aveva condiviso la scoperta del divisionismo morì in Engadina nel 1899 e il pittore di Barlassina prese ad andare in montagna da solo. A Segantini dedicò un grande “Ghiacciaio”.
Il suo amore per le montagne conobbe due fasi: durante la prima, documentata da un grande paesaggio esposto già alla Triennale del 1894, percorreva sentieri a mezza costa, in mezzo ai boschi cedui della Lombardia; durante la seconda, quando il suo lavoro si apre al richiamo di luoghi quasi vergini, oltre i duemila metri di altezza, comincia più tardi e cattura il silenzio e la bellezza estrema che già avevano commosso Segantini e altri pittori lombardi e piemontesi. Mentre in Europa nasce la passione per l’alpinismo, in pittura la montagna diventa protagonista. Non è un caso che proprio il CAI, in occasione della Triennale di Torino del 1896, offrisse una medaglia d’oro per il miglior dipinto che osannasse le “cime”. Del resto la lezione di Filippo Carcano raccontata nel “Ghiacciaio di Cambrena” esposto alla Triennale di Milano del 1897 aveva reso noto che quel soggetto specialissimo esigeva lunghe e faticose escursioni. Carcano era solito recarsi in Valsolda e in Valchiavenna, dove anni dopo sarebbe andato anche Longoni. La sua prima veduta valtellinese s’intitola “Valmalenco”. L’inaugurazione del tratto di ferrovia che conduceva fino a Tirano fu uno dei motivi per cui Longoni trovò facile recarsi in queste zone. Grazie al treno verranno alla luce una serie di straordinari dipinti con il Bernina e il Disgrazia sullo sfondo e poi l’Alpe di Prabello e il passo di Donalba e la Valfurva. Infine Madesimo e il passo dello Spluga; da lì Longoni scrisse al segretario dell’Accademia di Brera per motivi legati al proprio lavoro. Amava restarsene sugli alpeggi e lavorare direttamente a cavalletto. Pare dormisse in baite dove gli si offriva ospitalità. Una volta si trascinò dietro Emilio Sommariva, fotografo di fama, fino al Bernina. Una foto testimonia la cordata che vedeva uno dietro l’altro Longoni e Cesare Maggi, pittore, anche lui della partita. Il taglio di molti dei suoi lavori “in quota” va oltre il Naturalismo e il Realismo, in realtà siamo davanti ai primi esperimenti di pittura astratta.
Emilio Gola ( Milano, 1851-1923) e Donato Frisia erano molto legati. Cresciuti come artisti in Brianza, di quel paesaggio hanno dato un’interpretazione simile nel sentimento, ma distante nella tecnica. Tutti e due hanno viaggiato a lungo; Gola verso il nord, a Londra, Amsterdam e Parigi, Frisia andando anche lui a Parigi e poi in Africa; ma il “luogo” principe della loro scrittura poetica è stato in larga parte quello natale. Si scambiavano libri e modelle, avevano in comune numerose frequentazioni e lavoravano spesso vicini nello studio del “Buttero”, a Olgiate. Amici in modo discreto e durevole, tuttavia non si influenzarono l’un l’altro.
Il conte-pittore sfuggiva a ogni tendenza, come amava dichiarare, rifiutava l’Impressionismo e forse aveva amato troppo Turner e Constable per abbracciare definitivamente il naturalismo o il verismo, o la scapigliatura. Bazzicava pittori, poeti e musicisti di tutte e tre le correnti, ma ne restava estraneo. La sua arte alla fine degli anni Venti, poco prima della morte, chiudeva in Lombardia l’Ottocento regionalista e si tingeva di mitteleuropa. Gola riteneva la pittura in grado di ricreare l’armonia interna alla natura. Nei suoi lavori il male è assente e la stanchezza della quotidianità si tinge semmai di malinconia. Le sue contadine, le lavandaie dei Valloncelli sono bellissime e leggiadre, ma se considerate con lo sguardo della pittura sociale che intanto prendeva piede, “false”, soltanto delle attrici su una scena.
Tuttavia il pittore di Olgiate amava in modo profondo la natura, si vede bene nei paesaggi, sia quelli di Mondonico sia quelli di Alassio e quelli che conclusero la sua avventura terrena, le Venezie. Alla base di ogni opera dell’olgiatese c’è un’indagine profonda sul valore della forma e la qualità dei toni che essa contiene. La natura è narrata nelle sue mille sfumature, un invito a lasciare che la terra si riappropri dell’uomo; gli alberi, l’acqua, il cielo sopravvivono da secoli alle cesure infertegli. Ma noi abitatori del XXI secolo dovremmo dalla lezione goliana dedurre almeno una domanda, “fino a quando?”.
Donato Frisia (Merate, 1883-1953) era più attratto dal senso coreografico di un paesaggio. La pittura leggera e sollecita nel descrivere i contorni delle cose, sfumati in tocchi più lievi al confine tra una forma e l’altra, regala immagini della terra di Lombardia già della modernità. In un tempo in cui le avanguardie si predispongono all’antinaturalismo, per Frisia il paesaggio resta importante; però il meratese non torna mai al bozzettismo in cui talvolta era caduto anche Gola. La sua dimensione del paesaggio è in apparenza circoscritta, ma l’immagine evidente del dipinto si travasa all’esterno prolungandosi nella dimensione del reale. Ben diverso era dedicarsi al ritratto o alla natura morta, due dimensioni della pittura che gli furono del tutto congeniali. Duttile e attento alla caratterizzazione del soggetto, lo attualizzava in segno e colore, lasciando aperta la porta a qualche sfilacciamento della pennellata, cosicché l’intero fosse insieme e riconoscibile e aperto al divenire. Fu un pittore paziente, sapeva aspettare il momento in cui la scena del quadro diventava perfetta per essere immortalata. Né un attimo prima, né un attimo dopo, compito dell’artista era saper cogliere il passaggio.
Negli ultimi anni della sua vita Donato Frisia ebbe un allievo particolare, suo nipote Donato Frisia jr (Bengasi, 1940).
Donatino, così veniva chiamato per distinguerlo dal nonno non avendo previsto che crescendo sarebbe diventato un uomo di quasi due metri, cominciò a appassionarsi al disegno e ai colori sotto la guida del nonno paterno e negli anni ha maturato due modi di pittura: il primo legato al Naturalismo lombardo dietro la scorta degli insegnamenti ricevuti, il secondo coltivato quasi segretamente, forse derivante da una conoscenza fatta in tenera età, quella con Ennio Morlotti che da subito ne intuì il talento e avrebbe voluto condurlo con sé a Parigi a metà degli anni Cinquanta. Ma non fu possibile e Donato Frisia jr è diventato pittore quasi in silenzio con addosso un nome che pesa e una strada faticosa da costruire, quella di un “nipote” d’arte che per tutta la vita avrebbe dovuto affrontare l’obbligato confronto. Stessa terra, stessi temi, perfino stesso nome, un’eredità difficile.
Il talento è comunque un fatto non costringibile in etichette precostituite e quello di Frisia jr sarebbe uscito allo scoperto alla fine degli anni Novanta, quando finalmente ebbe il coraggio e la consapevolezza della propria strada. In quel periodo di tempo venne alla luce il ciclo dei “Riflessi” tenuti dentro da tanto tempo che a un certo punto gli sono esplosi fra le dita senza quasi accorgersene. Il mondo si è ritrovato catapultato nell’acqua, l’alveo nascente di ogni cosa viva. Da allora il lavoro di quest’artista di grande mestiere ha attraversato un ventennio denso di mostre e dipinti finalmente liberi e veri. E anche quando è tornato al figurativo rimettendo ogni cosa al suo posto, il cielo dove c’è il cielo e le montagne dove ci sono le montagne, la pennellata è autonoma e sicura. Piena di tutti quei lunghi anni passati a cercare di far valere le proprie reali capacità.
Circa Riccardo (Calco, 1871-1965) e Alberto Brambilla (Milano, 1908-Calco, 1993non si può tralasciare una ovvietà che tuttavia dopo un’analisi più profonda non risulta così banale. Sono stati il primo insegnante di disegno, il secondo medico specialista di malattie tropicali; tutti e due pittori, erano l’uno padre dell’altro. Di sicuro l’essere da sempre a contatto con le tele e i pennelli di Riccardo, l’aver assorbito la tenerezza e il rispetto per la terra di Brianza fin da bambino ha in qualche misura influenzato le scelte pittoriche di Alberto, ma la sottile differenza tra i lavori dei due artisti di Calco si situa sul crinale della storia, cosicché il più anziano fece del paesaggio e dello studio sulla natura lo strumento per costruire una dimensione umana e sentimentale private, lontano dall’affanno della vita quotidiana e persino la guerra (dopo che la casa di Milano era diventata impraticabile) in certo modo fu il pretesto per restare al crocevia di montagne e pianura. La pittura di Riccardo era liberatoria e incantata, quella di suo figlio sarebbe stata lacerata e dura per lunghi periodi e quasi segreta in altri, nelle pause rubate alla professione. Più tardi, avanti negli anni, Alberto sarebbe diventato addirittura un crepuscolare. Il lavoro di Riccardo si situa nel cuore di una Brianza fertile e vivace che ebbe in Mondonico un palcoscenico straordinario sul quale si cimentarono Gola, Carpi, Donato Frisia e in seguito Morlotti, Frisia jr e Trojani. Quella di Alberto è una Brianza di ritorno, anzi del ritorno. La sua terra era più giù, la Milano di prima e dopo il secondo conflitto, così diversa dal disordine tranquillo della campagna, degli orti, degli alberi sulle rive dell’Adda con le montagne a regolare l’orizzonte. Alberto a sua volta fu amico di Buzzati: la pittura e le alte cime li accomunavano, ma anche la passione per le auto straniere di grossa cilindrata. Si erano conosciuti in Africa nel 1939, Buzzati corrispondente del Corriere, Brambilla medico in un ospedale etiope. Le lacerazioni subite dalla loro generazione tornano nelle tele costruite da Alberto sulla Milano distrutta dalle bombe, ma leggendo fra le righe di una vita spesa a salvare altre vite, si scopre che la pallida quiete dei paesaggi dedicati all’Adda è solo l’altra faccia della medesima medaglia. La poesia del Resegone imperlato di neve non va vista come un generico rintanarsi nella tradizione classica della pittura lombarda quando ormai il tempo ha tolto forza e velleità, semmai rappresenta l’estremo tentativo di ripescare un senso alla propria esistenza. La dimensione della pausa dal negotium ritmata dal colore morbido dei quadri di Riccardo si intesse nei lavori dell’altro Brambilla di vibrazioni intime. Quello che per il più vecchio era ammirare e godere di un paesaggio, per il più giovane è stato sempre e comunque guardare con sottile rimpianto. Nel primo il dolore di vivere è quasi assente, nel secondo è il tessuto connettivo di ogni opera. Riccardo conservò una consapevolezza religiosa della natura come “cosa creata”, Alberto lottava contro le proprie paure esistenziali; se le mucche e i pascoli e i campi silenziosi del padre dicono di una Lombardia ancora contadina e alle prese con l’alternarsi delle quattro stagioni, le case aggraziate del figlio specchiantisi nel fiume a Brivio sembrano le ultime rimaste di un mondo ormai sgretolato, alle prese con le stagioni del tempo. Le fughe di Riccardo in Valmalenco e per l’aperta campagna non erano mai fughe da se stesso, ma avventure di cui la pittura sarebbe diventata cronaca fedele, trasposizione di sensazioni, dettagli carichi d’affetto. I periodi in Brianza di Alberto sono densi di simboli, la natura ha saputo resistere agli attacchi dell’uomo. Se Milano mortificata dalle voragini come occhiaia vuote lanciava il suo j’accuse per poi travestirsi di cemento e pubblicità durante i “favolosi anni Sessanta” la leggera bellezza di certi notturni degli anni Settanta e Ottanta non dice solo di nostalgia, ma fa i conti con quel che rimane di una vita intera. Eppure le cose viste e le strade percorse nell’infanzia e nella vecchiaia furono per i due le stesse.
Umberto Lilloni (Milano, 1898-1980) entra nel nostro viaggio sul fiume quasi per caso. Il trait d’union fra la sua pittura luminosa collocata all’interno del movimento chiarista e quella degli artisti dei quali si è parlato finora è rappresentato ancora una volta da Emilio Gola. Non che si fossero frequentati. Quando Gola muore, Lilloni sta muovendo i primi passi nel mondo dell’arte, è un ragazzo invecchiato precocemente dalla campagna sul Piave e il suo spirito ne porterà i segni per tutta la vita. Eppure proprio Gola sarà il maestro al quale guarderà con attenzione ammirandone la serietà del progetto: dare al paesaggio l’occasione di diventare immortale. Con qualche differenza fra i due. Mentre il capostipite del Naturalismo lombardo sceglie solo quattro soggetti sui quali misurarsi, i Navigli, Mondonico e quasi sul finire della vita il mare di Alassio e quello di Venezia; Lilloni spazierà dalla collina alla montagna, dal mare alla pianura, dalla Lombardia alla Svizzera. Non elesse mai un posto a luogo ispiratore, lo interessava piuttosto viaggiare in mezzo alla natura. E anziché coglierne le sfumature orientando lo sguardo con insistenza sul medesimo scenario, come aveva fatto Gola con il “Valloncello di Monsonico” o farà Morlotti con i “Dossi” e gli “Adda”, Lilloni cambia orizzonti e scenari di continuo. Uno dei motivi che lo spingono a studiare un paesaggio preciso per un certo periodo e in seguito abbandonarlo per non farvi quasi mai ritorno, sono i premi di pittura. Proprio uno di quei premi fu l’occasione dell’incontro con il nostro fiume. Era il 1937, Lilloni aveva in quel tempo il suo studio in Via Solferino a Milano. Di solito lavorava nello studio d’inverno, ma non appena la bella stagione faceva sentire il suo odore per le strade, il pittore partiva alla ricerca di un un nuovo soggetto. E appunto in primavera aveva saputo di questo premio che si teneva nella città di Lecco. Si trattava della mostra “Quinquennale del Paesaggio Lecchese”. Quel paesaggio gli è sconosciuto e Lilloni ne va dunque alla scoperta. Nascono così i suoi “Adda a Brivio” in cui il fiume scorre placido e pieno di luce, mentre le case specchiate nell’acqua restano immobili e silenziose davanti a tanta pace. Com’è ancora lontano l’ “Adda” di Morlotti che parteciperà a quel medesimo premio e incontrerà a Lecco, la sua città, il chiarista Umberto Lilloni. I paesaggi che Morlotti delineerà nei due anni successivi risentono profondamente della maniera chiarista, sia nell’impaginazione larga del dipinto in cui il lago e la montagna (nel caso di Morlotti) come il fiume e la montagna in Lilloni prendono quasi tutto lo spazio della tela; sia nella ricerca della luce. Quella mostra quinquennale fu importante per ciascuno dei due, sebbene in modo diverso. Tutti e due vinsero un premio acquisto, ma mentre per Lilloni, artista già affermato, quei soldi rappresentavano l’ennesimo riconoscimento delle sue capacità artistiche, per Morlotti significarono la possibilità di andare a Parigi. E da lì cambierà la visione di tutta la sua esistenza. Tornando al motivo dei lavori di Lilloni dedicati al territorio dell’Adda, va aggiunto che quel paesaggio gli dovette piacere molto perché vi fece ritorno anche la primavera successiva e in quel caso non si limitò a dipingere altri “Adda a Brivio”, ma scelse fra le fanciulle locali una bellissima modella che immortalò vestita di bianco in uno dei suoi delicati ritratti. A Lecco, intanto, la sua maniera era stata molto apprezzata, tanto che fu invitato a tenere una personale nelle sale della Pro Loco. La mostra avverrà nel febbraio del 1939 e sarà un successo. Fra i lavori esposti c’è una curiosa interpretazione della “Ricostruzione del Ponte di Lecco” dove il fiume, le arcate del ponte e il Resegone dietro sembrano appartenere a un luogo di fiaba. E davvero la sua pittura spesso ha cercato di restituire alla realtà quel che di magico e di fiabesco le guerre e le crudeltà viste in battaglia le avevano tolto.
Lilloni tornerà ancora una volta a dipingere in Brianza dieci anni dopo. Ma le cose erano molto diverse e se la natura del suo lavoro resta sostanzialmente la stessa, una pittura vaporosa e liquida, Lilloni è però molto cambiato. Nel frattempo c’è stata un altro conflitto, la seconda guerra mondiale, quella in cui l’Italia fascista nella quale aveva creduto profondamente da ragazzo aveva tradito gli italiani alleandosi con la Germania nazista. Tuttavia, nonostante il suo dissenso, Lilloni era stato fascista e per di più un pittore molto coccolato dal regime. Caduta la dittatura resta solo, molti amici sono morti, pochi galleristi lo invitano, gli rimane il paesaggio. C’è uno struggente “Malgrate” di quell’anno 1949 in cui il cielo è ventoso e foriero forse di novità, ma le nuvole che vengono da dietro la montagna qui da noi significano “tempo cattivo”.
La figura di Ennio Morlotti (Lecco, 1910-Milano 1992) rappresenta nel nostro discorso un segno di rottura e di coesione insieme. Da un lato trasforma il Naturalismo impressionista e postromantico di Gola e di Frisia in un approccio alla natura comunque lombardo, ma astratto-informale; dall’altro rappresenta la continuità essendo nato a Lecco e avendo scelto per un cinquantennio di dipingere a più riprese il territorio dell’Adda con grande forza e pacata tenerezza. Il mutamento repentino causato dalla sua pittura non si può altrimenti spiegare se non ricordando il movimento di “Corrente” del quale Morlotti fece parte e che proruppe nel mondo dell’arte italiana di quegli anni con la violenza di una rottura istituzionale e con la coerenza di un’esperienza ineluttabile. L’opera giovanile del grande lecchese si impose come un grido contro le involuzioni stilistiche che stancamente ripercorrevano valenze ottocentesche senza calpestare le pietre miliari segnate dai propri maestri, tra i quali il più importante era stato Achille Funi.
Cosa accadde dunque al paesaggio che ci riguarda? La pulizia precisa e temperata di un Gola, l’impianto naturalistico quasi geometrico di un Frisia ancora tesi alla contemplazione esteriore diventano in Morlotti una indagine mentale; non accontentandosi più di un “vero” limitato allo sguardo cercò piuttosto un rapporto profondo con il “dentro” della realtà, quasi studiandone le coesioni molecolari e immedesimandosi con la cosa dipinta. Questo fu possibile azzerando la forma: i boschi cedui delle rive dell’Adda divennero distese di verdi-marroni-ocra diversi, il lago si trasformò in una striscia densa di azzurri e blu e ancora verdi scintillanti, la montagna fu una campata di spatolate di colore puro e le case degli uomini sagome rosse e bianche. Fu come imbattersi in un universo nuovo del quale si avvertivano i segreti e i misteri. La verità della cosa dipinta coniugata con la forza del colore buttato sulla tela di getto e una profonda partecipazione all’evento dipinto, questo produsse la sua personale rivoluzione. L’organismo vivente nella propria miniaturizzazione diventerà l’oggetto della pittura di domani; una partecipazione totale e assoluta all’essere, contrapposto al non essere. Dai lavori degli anni Cinquanta in poi la natura rinascerà sulle tele morlottiane vestita a nuovo, germinando larve vitali, “Rose”, “Granturco”, “Cactus”. In altre parole un’idea dell’esistente data non come visione lirica o come ricerca della bellezza, secondo l’ideale sviluppatosi da Corot in poi, ma un immergersi totale e assoluto nella materia.
Nel 1952 Romano Trojani (Lecco, 1926) incontrava Ennio Morlotti proprio quando le “Vegetazioni” del secondo sfondavano la barriera della forma e il più giovane dei due corrugava già le sue colline in grumi pastosi di colori decisi e spettacolari. Si piacquero subito e ne nacque un’amicizia lunga e senza pause oltre a una solidale continua partecipazione al reciproco lavoro.
Mantennero distinte le proprie convinzioni, ma si confrontarono su temi e concezioni pittoriche; così la ricerca concettuale di Morlotti sulla cosa ritratta per cui di un ulivo basta indicare poche foglie per rimandare all’intero, si consolidava in Trojani nei boschi rigogliosi dove l’intrico di rami tronchi foglie costruisce una sorta di tappezzeria vegetale; gli “Imbersago” del più anziano sono pieni del tumulto pagano di una natura ribollente, gli “Adda” del più giovane hanno un tessuto pittorico sfaccettato e mirabolante di luci. In comune ebbero il sogno di una pittura vitale capace di cogliere insieme l’inizio e la fine di ogni cosa esistente.
In particolare Trojani negli anni Cinquanta lavorò alacremente a numerosi “Paesaggi” collinari folti e ricchi, degradanti di balza in balza fino al lago, nei quali si avverte prepotente il bisogno di una pennellata permeabile e duttile. Contemporaneamente si tormentava nel tentativo di dare solidità al vuoto con il ciclo spazialista. Trojani essendo un artista completo non si è mai appagato nel solcare una sola strada, ma ha partecipato in vari modi e sempre con una fertile produzione a situazioni diverse dell’arte italiana dal secondo dopoguerra in poi. Ma il suo posto nel Naturalismo lombardo si deve alla tenera insistenza con cui si è accostato mille volte alla riva del nostro fiume, alla sponda del lago, alle colline della Brianza e alle Prealpi del lecchese in un incantamento felice con la terra d’origine.
L’ultimo artista della nostra rassegna è Mario Paschetta. La scelta di partire per un viaggio breve nella terra di Lombardia della quale tutti i nostri pittori hanno già tante volte narrato i colori, gli umori cangianti nelle diverse stagioni e la storia attraverso il cambiamento nella percezione del paesaggio, ha il sapore di un approdo. Dopo anni di ricerca intorno alle diverse manifestazioni della natura coniugate su temi e luoghi diversi, dalla montagna al mare, dalla collina al fiume, l’Adda per la precisione, questa mostra lo colloca di diritto nel novero dei pittori che tempo fa Raffaele De Grada, mio maestro, ha inserito nell’alveo del Naturalismo lombardo.
La verità della natura è una presenza nelle tele e nelle carte di Paschetta dall’inizio degli anni Novanta. Nel suo percorso pittorico l’ossessione della terra come luogo d’indagine ha da subito una valenza fortissima e già dai primi Paesaggi ancora molto figurativi, s’intuisce il dissacrante procedimento della distruzione della forma mutuato da Morlotti. La coscienza di dover cercare la propria strada risale al tempo della frequentazione del bar Jamaica, luogo sacro dell’arte italiana nel periodo della dittatura. Intorno ai suoi tavoli nacque infatti il movimento di Corrente e Vita Giovanile, l’unica vera denuncia che Milano seppe esprimere contro il regime e il Novecentismo. Il crinale su cui Paschetta si è mosso in seguito tiene conto della lezione di quel gruppo d’artisti (oltre a Morlotti, Birolli, Cassinari, Bergolli, Ajmone, Afro, Treccani, Vedova e più in là Guttuso) il cui lavoro si basava sulla percezione del limite estremo, quando la vita può all’improvviso diventare morte e la pittura deve testimoniarne il passaggio.
Nel 1992 inizia uno studio approfondito sulla materia sia nei materiali che nel loro utilizzo, verranno così alla scoperta gli influssi che hanno avuto su di lui artisti come Burri, Crippa, Mattioli. Nell’estate del 1993 Mario Paschetta, autodidatta con un padre collezionista che fin da bambino lo portava negli atelier dei suoi amici, decide di cambiare rotta e cominciare a dipingere. “Il fatto è che stavo partendo per il mare -dichiarava in una nostra intervista- Metto le valigie in macchina e saluto i muratori che lavorano lì vicino. All’improvviso mi sono accorto della forza dei materiali che stavano usando. E non sono più partito, ho riaperto lo studio ed è iniziata la mia nuova avventura”.
La sua tavolozza impara subito a giocare con la materia. I rossi, i bianchi gessosi e i neri corrugati in velature sovrapposte che nascondono stracci, cerniere, materiali vari di riciclo, sono la regola di quasi tutto il suo lavoro. Insieme ai verdi liquorosi degli stagni, talvolta ai blu, quasi allucinati. Acrilici mischiati a colle, malta e terre. Nascono da lì i suoi loghi solitari con il terreno spaccato dall’arsura, fenditure longitudinali che suggeriscono i moti sussultori del pianeta. Le stoffe imbibite di colore si corrugano in forma di dune, colline, canaloni di montagna. Sulla tela fioriscono lagune, paludi, pianure senza nome. La materia si addensa in luci e ombre, asciugandosi si spalancano solchi e su tutto regna sovrano il silenzio. Contro il cielo plumbeo, quando non è del tutto nero, s’inerpica un albero sopravvissuto, specie di fantasma del mondo agli inizi. Ma quell’unico esempio di vita che sfida orgoglioso il vuoto dell’aria dice di una speranza dolce e profonda. “L’albero sono io -racconta- mi piace guardare abitare nei miei quadri. Essere dipinto in quel paesaggio”.
Impossibile non riconoscere questa pittura come espressione del Terzo Millennio, luogo mentale della distruzione fisica del genere umano, ma uno sguardo più attento conduce in un’altra direzione. Per comprendere le lande desolate di Paschetta bisogna ancora una volta guardare a Cézanne. L’orizzonte abbassato che chiama in causa un cielo di volta in volta tempestoso o luminoso e carico di promesse, ha a che fare con quella scoperta. La visione generale nella pittura di Paschetta è carica di tensione, di lampi di colore quasi a rinnovare il sodalizio con la natura di Cézanne che mise fine all’Impressionismo e aprì la strada a una tensione nuova, quella per cui la tela diventa il palcoscenico di un mondo in divenire. Dopo vent’anni di lavoro estenuante, questa mostra dice qualcosa di diverso sull’indagine del mio amico. Prima di realizzare i moltissimi dipinti che riempiono questo libro e vestiranno le sale di diversi palazzi pubblici, Paschetta ha compiuto un percorso silenzioso e devoto nella Brianza di Gola, Frisia, dei due Brambilla e di Morlotti risalendo il corso dell’Adda cantato da Poma, Lilloni, Frisia jr, Trojani, fino alle montagne di Longoni e Segantini. Il contratto che Paschetta ha firmato con la storia (nel senso di storia dell’arte) in questa mostra è evidente. Se non si tenesse conto di tutto ciò che l’ha preceduto, i dipinti di questo libro, in particolare quelli dedicati al fiume Adda, non si potrebbero spiegare. I luoghi già visti mille volte, in questa nuova occasione lo hanno affascinato in modo smisurato e da qui sono nati, in brevi forsennati mesi, dei dipinti più solari e ricchi di pennellate dense, piene di luce. Ricollegandosi allo studio di Morlotti sulla sostanza primigenia, sottesa a tutto ciò che esiste, Paschetta ha infine scoperto il senso ultimo delle cose, una visione poetica che si serve della forma come azione/reazione di fronte al misterioso miracolo dell’esistenza.
Anna Caterina Bellati
tra Milano e Venezia, nella primavera 2008
Biografia
a cura di Luigi Rigamonti
Mario Paschetta nasce a Milano il 27.11.1949 e inizia a dipingere all’età di 14 anni, la sua è una pittura tradizionale seppure già compare una corposità materica.
La frequentazione degli ambienti culturali milanesi, tra i quali il Bar Jamaica, lo porta ad entrare in contatto, sia pure come spettatore, con i numerosi artisti che lo frequentano, molti dei quali contribuiranno a scrivere la storia dell’arte italiana. Anche se Mario Paschetta si allontana, per motivi legati alla sua attività commerciale, dalla pratica della pittura tradizionale, continua la sua frequentazione dell’ambiente artistico e delle gallerie d’arte. Nel 1992 inizia uno studio approfondito sulla materia sia in termini di materiali che di utilizzo, e traspariranno così nelle sue opere gli influssi che hanno avuto su di lui artisti come Burri, Crippa, Mattioli.
Le opere di Mario Paschetta da subito creano interesse sia per la tecnica che per la loro costruzione pittorica, fa discutere la sua pittura-non pittura, le sue originali rappresentazioni aprospettiche, la sua astrazione-antiastrazione. Trento Longaretti, indiscusso maestro della pittura del nostro novecento, ne riconosce l’originalità, la capacità di Paschetta, attraverso un linguaggio personale di descrivere un mondo poetico.
Nel 2001 si tiene una importante mostra personale di Paschetta al Museo Nazionale di Arte Moderna di Gazoldo degli Ippoliti (Mn) e in quell’occasione Maurizio Sciaccaluga evidenzia una particolarità delle opere di Paschetta che è quella di indurre, in chi le osserva, a toccarle poiché il suo paesaggio, rappresentativo di terre lontane nel tempo, è “paesaggio non raccontato ma ricreato“ ed il suo linguaggio si traduce in una necessità di contatto come in “una sorte di pittura braille“. Anche Enrico Giustacchini si interessa al percorso artistico di Mario Paschetta evidenziando un’altra particolarità e peculiarità del suo linguaggio che passa attraverso una stratificazione verticale, quello che Giustacchini definisce “inconsueto sondaggio vertica-le“. Non solo critici d’arte si interessano del lavoro di Mario Paschetta ma nel 2003, anche Ruggero Sicurelli, Sociologo e Psicologo che si occupa di creatività artistica, pubblica un libro “Elementi di Psicoanalisi dell’Arte - Freud e la Creatività Artistica” nel quale, analizzando il lavoro di Paschetta, ritrova in loro la “metafora freudiana dell’archeologia, in forza alla quale lo psicoanalista si occupa dell’analisi stratigrafica dell’anima“ e dà una ulteriore chiave di lettura delle sue opere. Le opere di Mario Paschetta sono presenti in diverse collezioni private e pubbliche e molte le partecipazioni alle principali mostre d’arte Italiane, importante inoltre è nel 2003 la partecipazione alla manifestazione indetta dall’Associazione Mare Nostrum per l’inaugurazione della “Fortezza del mare” all’isola della Palmaria (Porto Venere) sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica e nel 2004 la partecipazione alla Prima Biennale dell’Unità d’Italia presso la Reggia di Caserta. L’intesse per le opere di Paschetta affascina anche l’Asia e nel 2003 e nel 2004, le sue opere sono state scelte dalla multinazionale giapponese Citizen quale testimonial per la propria Campagna Pubblicitaria. Il percorso di Paschetta prosegue nel 2005 a Lecco con una importante mostra personale presso i Musei Civici cittadini, nella splendida cornice storica della Torre Viscontea per poi approdare in occasione delle olimpiadi invernali di Torino 2006, in una importante rassegna espositiva: “I grandi Maestri del ‘900 ed i nuovi linguaggi della contemporaneità” svoltasi presso lo stesso Villaggio Olimpico e che ha visto la presenza di grandi firme del novecento come De Chirico, Mirò,Rotella,Marini. Significativa sempre nel 2006, la mostra personale “Oltre Tannoiser” tenutasi nella sede estiva di Sirmione del Garda della galleria B&B di Mantova.
Da segnalare tra gli eventi del 2007, la mostra pubblica “Nel segno della materia“ tenutasi nel Comune di Valdagno presso i Civici Musei (Villa Valle) nel mese di dicembre. Nel 2008 Paschetta è presente alla collettiva “Traguardo” a Strasburgo presso la sede del Parlamento Europeo, dove l’arte Italiana, viene rappresentata dagli artisti premiati nel corso degli anni al premio Internazionale “Agazzi”. Nel mese di aprile viene invitato alla nuova edizione della Biennale dell’Unità d’Italia presso il complesso monumentale Real Sito di San Leucio (Caserta). Nei mesi successivi inaugura un’importante mostra pubblica dal titolo “Appunti di un viaggiatore lombardo” che si tiene dapprima presso il Centro culturale Fatebenefratelli a Valmadrera, successivamente nelle sale del Palazzo Pretorio di Chiavenna per poi approdare ad Imbersago presso la Mediateca Comunale nel mese di Giugno.
Con questo progetto espositivo Paschetta visita con il suo particolare stile pittorico i paesaggi lacustri, fluviali e paesaggistici dell’Adda, e che lo colloca come lo definisce Anna Caterina Bellati, curatrice della mostra, tra i naturalisti lombardi.
In questo stesso periodo Paschetta partecipa ad un importante evento artistico a Lugano presso la galleria Mya Lurgo Gallery dal titolo “À travers l’immateriel - Omaggio a Yves Klein“ realizzando un polittico materico informale nel celebrato ed immortale colore “blue Klein”.
Nel mese di Settembre, a Venezia, parteciperà all’11ª edizione di “OPEN“, un evento che vede artisti di tutto il mondo cimentarsi con sculture ed istallazioni al Lido di Venezia in contemporanea con l’annuale Mostra del Cinema.
Mario Paschetta vive e lavora a Inzago in provincia di Milano.
Hanno scritto di lui: Paola Artoni, Gianni Barachetti,Lucio Barbera, Anna Caterina Bellati, Daniela Borgogna, Rossana Bossaglia, Stefania Briccola, Alessio Calestani, Aldo Camerini, Fabrizio Colonna, Mauro Corradini, Elisa Cremonesi, Athos Geminiani, Enrico Giustacchini, Simona Ladu, Trento Longaretti, Fausto Lorenzo, Stefano Maffini, Raffaella Oluic, Luigi Rigamonti, Enzo Santese, Anna Maria Savarino, Luca Savarino, Marta Savaris, Maurizio Sciaccaluga, Ruggero Sicurelli.
Dall’Impressonismo all’Informale
Di Anna Caterina Bellati
Sono avvezza a scrivere di un fiume, l’Adda, per molti motivi. Cresciuta sulle sue rive, ho imparato ad amarlo da bambina perché mio nonno mi portava a guardarlo uscire dal lago di Lecco. Placido e largo si avvia proprio da lì verso il mare. Ma è diventato un luogo letterario molto più tardi, quando certi artisti anche loro delle mie parti, mi hanno insegnato a scoprirne luci e ombre, leggende e segreti. Perciò torno volentieri a raccontarne in occasione di questo volume che correda alcune mostre lombarde di un caro amico, Mario Paschetta.
E poiché si tratta di una faccenda che conosco bene, coltivata negli anni a furia di mostre e scoperte artistiche, dirò di Paschetta e dei suoi paesaggi d’acqua e di roccia solo verso la fine. Del resto si tratta, nel nostro caso, di ripercorrere un capitolo della storia pittorica di una terra, quella parte di Lombardia che comincia al confine con i Grigioni e arriva fino a Milano.
La primavera è nel pieno rigoglio e comincio a scrivere stando seduta a un tavolino all’aperto davanti al fiume. È il secondo giorno che vengo a Imbersago a guardare scorrere l’acqua di mille verdi cangianti. Va verso il ponte di Brivio e poi bagna altri paesi, fino alla pianura, fino al Po.
Il mio tavolino è un po’ in disparte, permette fantasticherie. Così posso introdurre gli artisti dei quali parleremo su questo immaginario palcoscenico che ha per quinta proprio l’acqua tanto spesso protagonista dei loro quadri. Silvio Poma sembra uscito da uno dei suoi bozzetti, è vestito in modo sgargiante proprio come immagini dovessero abbigliarsi i pittori nell’Ottocento. Da una spalla gli pende una cassettina con colori, pennelli e cavalletto mobile. Emilio Longoni arriva da un’escursione, ha l’aria sana di chi è avvezzo a camminare in montagna e un fascio di schizzi sotto il braccio. Emilio Gola è un signore distinto in su con gli anni, porta un cappello bianco a larghe falde, scarpe bianche e un completo grigio scuro con panciotto e cravatta. Prende schizzi veloci delle case sulla riva di fronte con una matita dalla punta grossa. Spesso, mentre disegna, si accarezza la folta barba. Le persone che gli passano accanto lo guardano schive e gli fanno brevi cenni del capo. Lui è il conte Gola e molti di loro lavorano nella sua casa del Buttero che è poco distante, a Olgiate. Accanto al conte c’è un uomo dalla faccia serena e i capelli brizzolati. Ha un paio di occhiali che inforca e toglie continuamente per mettere a fuoco il suo soggetto, un moccioso con una grossa bici e un cane. Il ragazzino lo conosce bene perché Riccardo Brambilla è il suo maestro di disegno, anzi è il maestro di disegno di tutti i ragazzi di queste contrade. Ha fatto quella professione per tutta la vita, anche se ha la mania della pittura e nella sua casa del Cornello, a Calco, ha trasformato lo stanzone per i bachi da seta in atelier. Brambilla e Gola si conoscono da molto tempo e certi pomeriggi di domenica il maestro sale a piedi al Buttero perché insieme i due pittori lavorano allo stesso soggetto, il cipresso piantato nel giardino dietro la grande casa. Li raggiunge una terza persona. Donato Frisia è da poco tornato da Parigi dove ha condiviso con Modigliani un bel sodalizio. Gli piace viaggiare, soprattutto Parigi e l’Africa sono i suoi grandi luoghi ispiratori, ma questa è la sua terra e quando ritorna in Brianza la tavolozza diventa più calda e piena. Di mestiere fa solo il pittore e con i tempi che corrono non è facile. Frisia è di Merate e Gola è un amico di vecchia data. Tantissime volte hanno condiviso lo studio del Buttero, hanno ritratto le stesse modelle (delle quali una è proprio la moglie di Frisia), hanno fermato sulla tela lo stesso scorcio di paesaggio. Ma sulla pittura nutrono idee diverse, vuoi per la differenza d’età, vuoi per il carattere. Tutti quanti parlano animatamente. Di colori, di mostre, dei temi dirompenti della pittura del nuovo secolo, il Novecento.
Dal viale alberato che conduce a questo breve spiazzo arriva un uomo alto, distinto, in uniforme. Si tratta di Alberto Brambilla, figlio di Riccardo. La sua aria asciutta da militare è mitigata da due occhi fieri eppure addolciti nel tempo da tutte le brutture viste in guerra e negli ospedali da campo. Alberto è medico e ha curato tanti malati di malaria durante la guerra d’Africa. Oggi la terra di Brianza gli restituisce un po’ di serenità e il fiume lo tenta con i suoi toni leggeri.
Umberto Lilloni si presenta all’appuntamento un po’ più tardi. Ha ancora le mani sporche di pittura. Porta un paio di occhiali neri dalla grossa montatura, la fronte spaziosa è appena solcata da rughe sottili, mentre la faccia rubiconda ha un sorriso bonario. In questo periodo sta lavorando a un certo numero di oli dedicati all’Adda e lo preoccupa specialmente la trasparenza dell’acqua. Quel suo speciale modo di lavorare sui colori, come se contenessero la luce, è detto Chiarismo. Un uomo dallo sguardo profondo e severo osserva i nostri artisti stando appoggiato al parapetto sull’argine del fiume. Ennio Morlotti è pazzo dell’Adda, per lui questo fiume è diventato con gli anni un’ossessione, lo strumento per filtrare le cose e il loro senso, posto che un senso ci sia da qualche parte. Ha cominciato a parlare dell’Adda fin da ragazzo, poi per vicende diverse si è imbattuto nel Cubismo e nei grandi ideali dell’arte europea del primo Novecento, ma un richiamo sempre più forte e tenace lo ha spinto a tornare qui, in cerca del proprio posto e del proprio ruolo nella storia dell’arte. E l’ha trovato finalmente, si chiama Informale. Vicino a Morlotti c’è il suo amico Romano Trojani, conosciuto agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento. Il loro sodalizio ha cambiato in modo definitivo la pittura riguardante l’Adda. Da placido nastro serpeggiante nel verde il fiume è diventato un crogiolo di colori tanto intensi da guadagnare in Morlotti tutto lo spazio della tela e da far sentire la sua presenza, in Trojani, anche quando è solo accennato con una striscia di materia. I due si avviano verso il traghetto perché dall’altra parte c’è un ristorante dove si mangia del buon pesce. Sul traghetto c’è un altro pittore, Donato Frisia jr, nipote dell’altro Frisia. Donatino ha una strana prerogativa, dipinge le cose capovolte nell’acqua, il suo mondo interiore gli fa vedere tutto come in uno specchio. I colori escono veloci dalle mani, dipinge in fretta quasi il suo soggetto stesse fuggendo, con l’acqua, verso il mare.
Questo breve excursus inizia dunque da Silvio Poma (Trescore Balneario, 1840-Turate, 1932). La sua maniera pittorica prende l’avvio davanti al mare delle isole Tremiti, ma l’acqua l’avrebbe attratto sempre e quando la carriera militare lo condusse in vari luoghi d’Italia, sarebbe rimasto fedele a quest’idea liquida del mondo. A un giornalista che durante l’Esposizione di Milano del 1906 gli aveva chiesto dove volesse arrivare con il suo lavoro disse, “A studiare la natura con amore per trarne possibilmente i migliori quadri con tecnica facile e semplice”. La sua liricità deriva forse da questo ragionamento. Innamorato della Lombardia, regione dove trascorse gran parte della vita, ne immortalò un numero imprecisato di scorci con particolare attenzione per i paesi e le sponde dei due rami del lago di Como che fu davvero la sua passione infinita, raccontata in ogni possibile sfumatura. E la sequenza delle sue visioni paesistiche legate alle radici che accomunano gli artisti dei quali parleremo, testimoniano usi e costumi di un periodo preciso, quello in cui la penisola italica diventava uno Stato. Poma in quegli anni trasformò la pittura in un taccuino che lo accompagnava sempre, sia quando combatté durante le guerre d’Indipendenza e poi nella lotta contro il brigantaggio, sia quando intraprese in modo definitivo la carriera d’artista.
In questo viaggio lungo oltre un secolo la seconda figura che incontriamo è quella di Emilio Longoni (Barlassina, 1859-Milano, 1932).
Agli inizi del marzo 1886 Giovanni Segantini si era trasferito a Savognino. Il suo amico di escursioni pittoriche sul gruppo del Bernina, Emilio Longoni, in quella lontana primavera si trovava a Villa Torelli, a Ghiffa. Questa separazione sarebbe durata a lungo, interrotta ogni tanto da qualche incrocio milanese nella galleria dei fratelli Grubicy. Mentre Segantini viveva sul versante svizzero delle Alpi, Longoni non lo raggiunse mai né a Savognino, né a Soglio, né ai piedi dello Schafberg. Poi l’amico con cui aveva condiviso la scoperta del divisionismo morì in Engadina nel 1899 e il pittore di Barlassina prese ad andare in montagna da solo. A Segantini dedicò un grande “Ghiacciaio”.
Il suo amore per le montagne conobbe due fasi: durante la prima, documentata da un grande paesaggio esposto già alla Triennale del 1894, percorreva sentieri a mezza costa, in mezzo ai boschi cedui della Lombardia; durante la seconda, quando il suo lavoro si apre al richiamo di luoghi quasi vergini, oltre i duemila metri di altezza, comincia più tardi e cattura il silenzio e la bellezza estrema che già avevano commosso Segantini e altri pittori lombardi e piemontesi. Mentre in Europa nasce la passione per l’alpinismo, in pittura la montagna diventa protagonista. Non è un caso che proprio il CAI, in occasione della Triennale di Torino del 1896, offrisse una medaglia d’oro per il miglior dipinto che osannasse le “cime”. Del resto la lezione di Filippo Carcano raccontata nel “Ghiacciaio di Cambrena” esposto alla Triennale di Milano del 1897 aveva reso noto che quel soggetto specialissimo esigeva lunghe e faticose escursioni. Carcano era solito recarsi in Valsolda e in Valchiavenna, dove anni dopo sarebbe andato anche Longoni. La sua prima veduta valtellinese s’intitola “Valmalenco”. L’inaugurazione del tratto di ferrovia che conduceva fino a Tirano fu uno dei motivi per cui Longoni trovò facile recarsi in queste zone. Grazie al treno verranno alla luce una serie di straordinari dipinti con il Bernina e il Disgrazia sullo sfondo e poi l’Alpe di Prabello e il passo di Donalba e la Valfurva. Infine Madesimo e il passo dello Spluga; da lì Longoni scrisse al segretario dell’Accademia di Brera per motivi legati al proprio lavoro. Amava restarsene sugli alpeggi e lavorare direttamente a cavalletto. Pare dormisse in baite dove gli si offriva ospitalità. Una volta si trascinò dietro Emilio Sommariva, fotografo di fama, fino al Bernina. Una foto testimonia la cordata che vedeva uno dietro l’altro Longoni e Cesare Maggi, pittore, anche lui della partita. Il taglio di molti dei suoi lavori “in quota” va oltre il Naturalismo e il Realismo, in realtà siamo davanti ai primi esperimenti di pittura astratta.
Emilio Gola ( Milano, 1851-1923) e Donato Frisia erano molto legati. Cresciuti come artisti in Brianza, di quel paesaggio hanno dato un’interpretazione simile nel sentimento, ma distante nella tecnica. Tutti e due hanno viaggiato a lungo; Gola verso il nord, a Londra, Amsterdam e Parigi, Frisia andando anche lui a Parigi e poi in Africa; ma il “luogo” principe della loro scrittura poetica è stato in larga parte quello natale. Si scambiavano libri e modelle, avevano in comune numerose frequentazioni e lavoravano spesso vicini nello studio del “Buttero”, a Olgiate. Amici in modo discreto e durevole, tuttavia non si influenzarono l’un l’altro.
Il conte-pittore sfuggiva a ogni tendenza, come amava dichiarare, rifiutava l’Impressionismo e forse aveva amato troppo Turner e Constable per abbracciare definitivamente il naturalismo o il verismo, o la scapigliatura. Bazzicava pittori, poeti e musicisti di tutte e tre le correnti, ma ne restava estraneo. La sua arte alla fine degli anni Venti, poco prima della morte, chiudeva in Lombardia l’Ottocento regionalista e si tingeva di mitteleuropa. Gola riteneva la pittura in grado di ricreare l’armonia interna alla natura. Nei suoi lavori il male è assente e la stanchezza della quotidianità si tinge semmai di malinconia. Le sue contadine, le lavandaie dei Valloncelli sono bellissime e leggiadre, ma se considerate con lo sguardo della pittura sociale che intanto prendeva piede, “false”, soltanto delle attrici su una scena.
Tuttavia il pittore di Olgiate amava in modo profondo la natura, si vede bene nei paesaggi, sia quelli di Mondonico sia quelli di Alassio e quelli che conclusero la sua avventura terrena, le Venezie. Alla base di ogni opera dell’olgiatese c’è un’indagine profonda sul valore della forma e la qualità dei toni che essa contiene. La natura è narrata nelle sue mille sfumature, un invito a lasciare che la terra si riappropri dell’uomo; gli alberi, l’acqua, il cielo sopravvivono da secoli alle cesure infertegli. Ma noi abitatori del XXI secolo dovremmo dalla lezione goliana dedurre almeno una domanda, “fino a quando?”.
Donato Frisia (Merate, 1883-1953) era più attratto dal senso coreografico di un paesaggio. La pittura leggera e sollecita nel descrivere i contorni delle cose, sfumati in tocchi più lievi al confine tra una forma e l’altra, regala immagini della terra di Lombardia già della modernità. In un tempo in cui le avanguardie si predispongono all’antinaturalismo, per Frisia il paesaggio resta importante; però il meratese non torna mai al bozzettismo in cui talvolta era caduto anche Gola. La sua dimensione del paesaggio è in apparenza circoscritta, ma l’immagine evidente del dipinto si travasa all’esterno prolungandosi nella dimensione del reale. Ben diverso era dedicarsi al ritratto o alla natura morta, due dimensioni della pittura che gli furono del tutto congeniali. Duttile e attento alla caratterizzazione del soggetto, lo attualizzava in segno e colore, lasciando aperta la porta a qualche sfilacciamento della pennellata, cosicché l’intero fosse insieme e riconoscibile e aperto al divenire. Fu un pittore paziente, sapeva aspettare il momento in cui la scena del quadro diventava perfetta per essere immortalata. Né un attimo prima, né un attimo dopo, compito dell’artista era saper cogliere il passaggio.
Negli ultimi anni della sua vita Donato Frisia ebbe un allievo particolare, suo nipote Donato Frisia jr (Bengasi, 1940).
Donatino, così veniva chiamato per distinguerlo dal nonno non avendo previsto che crescendo sarebbe diventato un uomo di quasi due metri, cominciò a appassionarsi al disegno e ai colori sotto la guida del nonno paterno e negli anni ha maturato due modi di pittura: il primo legato al Naturalismo lombardo dietro la scorta degli insegnamenti ricevuti, il secondo coltivato quasi segretamente, forse derivante da una conoscenza fatta in tenera età, quella con Ennio Morlotti che da subito ne intuì il talento e avrebbe voluto condurlo con sé a Parigi a metà degli anni Cinquanta. Ma non fu possibile e Donato Frisia jr è diventato pittore quasi in silenzio con addosso un nome che pesa e una strada faticosa da costruire, quella di un “nipote” d’arte che per tutta la vita avrebbe dovuto affrontare l’obbligato confronto. Stessa terra, stessi temi, perfino stesso nome, un’eredità difficile.
Il talento è comunque un fatto non costringibile in etichette precostituite e quello di Frisia jr sarebbe uscito allo scoperto alla fine degli anni Novanta, quando finalmente ebbe il coraggio e la consapevolezza della propria strada. In quel periodo di tempo venne alla luce il ciclo dei “Riflessi” tenuti dentro da tanto tempo che a un certo punto gli sono esplosi fra le dita senza quasi accorgersene. Il mondo si è ritrovato catapultato nell’acqua, l’alveo nascente di ogni cosa viva. Da allora il lavoro di quest’artista di grande mestiere ha attraversato un ventennio denso di mostre e dipinti finalmente liberi e veri. E anche quando è tornato al figurativo rimettendo ogni cosa al suo posto, il cielo dove c’è il cielo e le montagne dove ci sono le montagne, la pennellata è autonoma e sicura. Piena di tutti quei lunghi anni passati a cercare di far valere le proprie reali capacità.
Circa Riccardo (Calco, 1871-1965) e Alberto Brambilla (Milano, 1908-Calco, 1993non si può tralasciare una ovvietà che tuttavia dopo un’analisi più profonda non risulta così banale. Sono stati il primo insegnante di disegno, il secondo medico specialista di malattie tropicali; tutti e due pittori, erano l’uno padre dell’altro. Di sicuro l’essere da sempre a contatto con le tele e i pennelli di Riccardo, l’aver assorbito la tenerezza e il rispetto per la terra di Brianza fin da bambino ha in qualche misura influenzato le scelte pittoriche di Alberto, ma la sottile differenza tra i lavori dei due artisti di Calco si situa sul crinale della storia, cosicché il più anziano fece del paesaggio e dello studio sulla natura lo strumento per costruire una dimensione umana e sentimentale private, lontano dall’affanno della vita quotidiana e persino la guerra (dopo che la casa di Milano era diventata impraticabile) in certo modo fu il pretesto per restare al crocevia di montagne e pianura. La pittura di Riccardo era liberatoria e incantata, quella di suo figlio sarebbe stata lacerata e dura per lunghi periodi e quasi segreta in altri, nelle pause rubate alla professione. Più tardi, avanti negli anni, Alberto sarebbe diventato addirittura un crepuscolare. Il lavoro di Riccardo si situa nel cuore di una Brianza fertile e vivace che ebbe in Mondonico un palcoscenico straordinario sul quale si cimentarono Gola, Carpi, Donato Frisia e in seguito Morlotti, Frisia jr e Trojani. Quella di Alberto è una Brianza di ritorno, anzi del ritorno. La sua terra era più giù, la Milano di prima e dopo il secondo conflitto, così diversa dal disordine tranquillo della campagna, degli orti, degli alberi sulle rive dell’Adda con le montagne a regolare l’orizzonte. Alberto a sua volta fu amico di Buzzati: la pittura e le alte cime li accomunavano, ma anche la passione per le auto straniere di grossa cilindrata. Si erano conosciuti in Africa nel 1939, Buzzati corrispondente del Corriere, Brambilla medico in un ospedale etiope. Le lacerazioni subite dalla loro generazione tornano nelle tele costruite da Alberto sulla Milano distrutta dalle bombe, ma leggendo fra le righe di una vita spesa a salvare altre vite, si scopre che la pallida quiete dei paesaggi dedicati all’Adda è solo l’altra faccia della medesima medaglia. La poesia del Resegone imperlato di neve non va vista come un generico rintanarsi nella tradizione classica della pittura lombarda quando ormai il tempo ha tolto forza e velleità, semmai rappresenta l’estremo tentativo di ripescare un senso alla propria esistenza. La dimensione della pausa dal negotium ritmata dal colore morbido dei quadri di Riccardo si intesse nei lavori dell’altro Brambilla di vibrazioni intime. Quello che per il più vecchio era ammirare e godere di un paesaggio, per il più giovane è stato sempre e comunque guardare con sottile rimpianto. Nel primo il dolore di vivere è quasi assente, nel secondo è il tessuto connettivo di ogni opera. Riccardo conservò una consapevolezza religiosa della natura come “cosa creata”, Alberto lottava contro le proprie paure esistenziali; se le mucche e i pascoli e i campi silenziosi del padre dicono di una Lombardia ancora contadina e alle prese con l’alternarsi delle quattro stagioni, le case aggraziate del figlio specchiantisi nel fiume a Brivio sembrano le ultime rimaste di un mondo ormai sgretolato, alle prese con le stagioni del tempo. Le fughe di Riccardo in Valmalenco e per l’aperta campagna non erano mai fughe da se stesso, ma avventure di cui la pittura sarebbe diventata cronaca fedele, trasposizione di sensazioni, dettagli carichi d’affetto. I periodi in Brianza di Alberto sono densi di simboli, la natura ha saputo resistere agli attacchi dell’uomo. Se Milano mortificata dalle voragini come occhiaia vuote lanciava il suo j’accuse per poi travestirsi di cemento e pubblicità durante i “favolosi anni Sessanta” la leggera bellezza di certi notturni degli anni Settanta e Ottanta non dice solo di nostalgia, ma fa i conti con quel che rimane di una vita intera. Eppure le cose viste e le strade percorse nell’infanzia e nella vecchiaia furono per i due le stesse.
Umberto Lilloni (Milano, 1898-1980) entra nel nostro viaggio sul fiume quasi per caso. Il trait d’union fra la sua pittura luminosa collocata all’interno del movimento chiarista e quella degli artisti dei quali si è parlato finora è rappresentato ancora una volta da Emilio Gola. Non che si fossero frequentati. Quando Gola muore, Lilloni sta muovendo i primi passi nel mondo dell’arte, è un ragazzo invecchiato precocemente dalla campagna sul Piave e il suo spirito ne porterà i segni per tutta la vita. Eppure proprio Gola sarà il maestro al quale guarderà con attenzione ammirandone la serietà del progetto: dare al paesaggio l’occasione di diventare immortale. Con qualche differenza fra i due. Mentre il capostipite del Naturalismo lombardo sceglie solo quattro soggetti sui quali misurarsi, i Navigli, Mondonico e quasi sul finire della vita il mare di Alassio e quello di Venezia; Lilloni spazierà dalla collina alla montagna, dal mare alla pianura, dalla Lombardia alla Svizzera. Non elesse mai un posto a luogo ispiratore, lo interessava piuttosto viaggiare in mezzo alla natura. E anziché coglierne le sfumature orientando lo sguardo con insistenza sul medesimo scenario, come aveva fatto Gola con il “Valloncello di Monsonico” o farà Morlotti con i “Dossi” e gli “Adda”, Lilloni cambia orizzonti e scenari di continuo. Uno dei motivi che lo spingono a studiare un paesaggio preciso per un certo periodo e in seguito abbandonarlo per non farvi quasi mai ritorno, sono i premi di pittura. Proprio uno di quei premi fu l’occasione dell’incontro con il nostro fiume. Era il 1937, Lilloni aveva in quel tempo il suo studio in Via Solferino a Milano. Di solito lavorava nello studio d’inverno, ma non appena la bella stagione faceva sentire il suo odore per le strade, il pittore partiva alla ricerca di un un nuovo soggetto. E appunto in primavera aveva saputo di questo premio che si teneva nella città di Lecco. Si trattava della mostra “Quinquennale del Paesaggio Lecchese”. Quel paesaggio gli è sconosciuto e Lilloni ne va dunque alla scoperta. Nascono così i suoi “Adda a Brivio” in cui il fiume scorre placido e pieno di luce, mentre le case specchiate nell’acqua restano immobili e silenziose davanti a tanta pace. Com’è ancora lontano l’ “Adda” di Morlotti che parteciperà a quel medesimo premio e incontrerà a Lecco, la sua città, il chiarista Umberto Lilloni. I paesaggi che Morlotti delineerà nei due anni successivi risentono profondamente della maniera chiarista, sia nell’impaginazione larga del dipinto in cui il lago e la montagna (nel caso di Morlotti) come il fiume e la montagna in Lilloni prendono quasi tutto lo spazio della tela; sia nella ricerca della luce. Quella mostra quinquennale fu importante per ciascuno dei due, sebbene in modo diverso. Tutti e due vinsero un premio acquisto, ma mentre per Lilloni, artista già affermato, quei soldi rappresentavano l’ennesimo riconoscimento delle sue capacità artistiche, per Morlotti significarono la possibilità di andare a Parigi. E da lì cambierà la visione di tutta la sua esistenza. Tornando al motivo dei lavori di Lilloni dedicati al territorio dell’Adda, va aggiunto che quel paesaggio gli dovette piacere molto perché vi fece ritorno anche la primavera successiva e in quel caso non si limitò a dipingere altri “Adda a Brivio”, ma scelse fra le fanciulle locali una bellissima modella che immortalò vestita di bianco in uno dei suoi delicati ritratti. A Lecco, intanto, la sua maniera era stata molto apprezzata, tanto che fu invitato a tenere una personale nelle sale della Pro Loco. La mostra avverrà nel febbraio del 1939 e sarà un successo. Fra i lavori esposti c’è una curiosa interpretazione della “Ricostruzione del Ponte di Lecco” dove il fiume, le arcate del ponte e il Resegone dietro sembrano appartenere a un luogo di fiaba. E davvero la sua pittura spesso ha cercato di restituire alla realtà quel che di magico e di fiabesco le guerre e le crudeltà viste in battaglia le avevano tolto.
Lilloni tornerà ancora una volta a dipingere in Brianza dieci anni dopo. Ma le cose erano molto diverse e se la natura del suo lavoro resta sostanzialmente la stessa, una pittura vaporosa e liquida, Lilloni è però molto cambiato. Nel frattempo c’è stata un altro conflitto, la seconda guerra mondiale, quella in cui l’Italia fascista nella quale aveva creduto profondamente da ragazzo aveva tradito gli italiani alleandosi con la Germania nazista. Tuttavia, nonostante il suo dissenso, Lilloni era stato fascista e per di più un pittore molto coccolato dal regime. Caduta la dittatura resta solo, molti amici sono morti, pochi galleristi lo invitano, gli rimane il paesaggio. C’è uno struggente “Malgrate” di quell’anno 1949 in cui il cielo è ventoso e foriero forse di novità, ma le nuvole che vengono da dietro la montagna qui da noi significano “tempo cattivo”.
La figura di Ennio Morlotti (Lecco, 1910-Milano 1992) rappresenta nel nostro discorso un segno di rottura e di coesione insieme. Da un lato trasforma il Naturalismo impressionista e postromantico di Gola e di Frisia in un approccio alla natura comunque lombardo, ma astratto-informale; dall’altro rappresenta la continuità essendo nato a Lecco e avendo scelto per un cinquantennio di dipingere a più riprese il territorio dell’Adda con grande forza e pacata tenerezza. Il mutamento repentino causato dalla sua pittura non si può altrimenti spiegare se non ricordando il movimento di “Corrente” del quale Morlotti fece parte e che proruppe nel mondo dell’arte italiana di quegli anni con la violenza di una rottura istituzionale e con la coerenza di un’esperienza ineluttabile. L’opera giovanile del grande lecchese si impose come un grido contro le involuzioni stilistiche che stancamente ripercorrevano valenze ottocentesche senza calpestare le pietre miliari segnate dai propri maestri, tra i quali il più importante era stato Achille Funi.
Cosa accadde dunque al paesaggio che ci riguarda? La pulizia precisa e temperata di un Gola, l’impianto naturalistico quasi geometrico di un Frisia ancora tesi alla contemplazione esteriore diventano in Morlotti una indagine mentale; non accontentandosi più di un “vero” limitato allo sguardo cercò piuttosto un rapporto profondo con il “dentro” della realtà, quasi studiandone le coesioni molecolari e immedesimandosi con la cosa dipinta. Questo fu possibile azzerando la forma: i boschi cedui delle rive dell’Adda divennero distese di verdi-marroni-ocra diversi, il lago si trasformò in una striscia densa di azzurri e blu e ancora verdi scintillanti, la montagna fu una campata di spatolate di colore puro e le case degli uomini sagome rosse e bianche. Fu come imbattersi in un universo nuovo del quale si avvertivano i segreti e i misteri. La verità della cosa dipinta coniugata con la forza del colore buttato sulla tela di getto e una profonda partecipazione all’evento dipinto, questo produsse la sua personale rivoluzione. L’organismo vivente nella propria miniaturizzazione diventerà l’oggetto della pittura di domani; una partecipazione totale e assoluta all’essere, contrapposto al non essere. Dai lavori degli anni Cinquanta in poi la natura rinascerà sulle tele morlottiane vestita a nuovo, germinando larve vitali, “Rose”, “Granturco”, “Cactus”. In altre parole un’idea dell’esistente data non come visione lirica o come ricerca della bellezza, secondo l’ideale sviluppatosi da Corot in poi, ma un immergersi totale e assoluto nella materia.
Nel 1952 Romano Trojani (Lecco, 1926) incontrava Ennio Morlotti proprio quando le “Vegetazioni” del secondo sfondavano la barriera della forma e il più giovane dei due corrugava già le sue colline in grumi pastosi di colori decisi e spettacolari. Si piacquero subito e ne nacque un’amicizia lunga e senza pause oltre a una solidale continua partecipazione al reciproco lavoro.
Mantennero distinte le proprie convinzioni, ma si confrontarono su temi e concezioni pittoriche; così la ricerca concettuale di Morlotti sulla cosa ritratta per cui di un ulivo basta indicare poche foglie per rimandare all’intero, si consolidava in Trojani nei boschi rigogliosi dove l’intrico di rami tronchi foglie costruisce una sorta di tappezzeria vegetale; gli “Imbersago” del più anziano sono pieni del tumulto pagano di una natura ribollente, gli “Adda” del più giovane hanno un tessuto pittorico sfaccettato e mirabolante di luci. In comune ebbero il sogno di una pittura vitale capace di cogliere insieme l’inizio e la fine di ogni cosa esistente.
In particolare Trojani negli anni Cinquanta lavorò alacremente a numerosi “Paesaggi” collinari folti e ricchi, degradanti di balza in balza fino al lago, nei quali si avverte prepotente il bisogno di una pennellata permeabile e duttile. Contemporaneamente si tormentava nel tentativo di dare solidità al vuoto con il ciclo spazialista. Trojani essendo un artista completo non si è mai appagato nel solcare una sola strada, ma ha partecipato in vari modi e sempre con una fertile produzione a situazioni diverse dell’arte italiana dal secondo dopoguerra in poi. Ma il suo posto nel Naturalismo lombardo si deve alla tenera insistenza con cui si è accostato mille volte alla riva del nostro fiume, alla sponda del lago, alle colline della Brianza e alle Prealpi del lecchese in un incantamento felice con la terra d’origine.
L’ultimo artista della nostra rassegna è Mario Paschetta. La scelta di partire per un viaggio breve nella terra di Lombardia della quale tutti i nostri pittori hanno già tante volte narrato i colori, gli umori cangianti nelle diverse stagioni e la storia attraverso il cambiamento nella percezione del paesaggio, ha il sapore di un approdo. Dopo anni di ricerca intorno alle diverse manifestazioni della natura coniugate su temi e luoghi diversi, dalla montagna al mare, dalla collina al fiume, l’Adda per la precisione, questa mostra lo colloca di diritto nel novero dei pittori che tempo fa Raffaele De Grada, mio maestro, ha inserito nell’alveo del Naturalismo lombardo.
La verità della natura è una presenza nelle tele e nelle carte di Paschetta dall’inizio degli anni Novanta. Nel suo percorso pittorico l’ossessione della terra come luogo d’indagine ha da subito una valenza fortissima e già dai primi Paesaggi ancora molto figurativi, s’intuisce il dissacrante procedimento della distruzione della forma mutuato da Morlotti. La coscienza di dover cercare la propria strada risale al tempo della frequentazione del bar Jamaica, luogo sacro dell’arte italiana nel periodo della dittatura. Intorno ai suoi tavoli nacque infatti il movimento di Corrente e Vita Giovanile, l’unica vera denuncia che Milano seppe esprimere contro il regime e il Novecentismo. Il crinale su cui Paschetta si è mosso in seguito tiene conto della lezione di quel gruppo d’artisti (oltre a Morlotti, Birolli, Cassinari, Bergolli, Ajmone, Afro, Treccani, Vedova e più in là Guttuso) il cui lavoro si basava sulla percezione del limite estremo, quando la vita può all’improvviso diventare morte e la pittura deve testimoniarne il passaggio.
Nel 1992 inizia uno studio approfondito sulla materia sia nei materiali che nel loro utilizzo, verranno così alla scoperta gli influssi che hanno avuto su di lui artisti come Burri, Crippa, Mattioli. Nell’estate del 1993 Mario Paschetta, autodidatta con un padre collezionista che fin da bambino lo portava negli atelier dei suoi amici, decide di cambiare rotta e cominciare a dipingere. “Il fatto è che stavo partendo per il mare -dichiarava in una nostra intervista- Metto le valigie in macchina e saluto i muratori che lavorano lì vicino. All’improvviso mi sono accorto della forza dei materiali che stavano usando. E non sono più partito, ho riaperto lo studio ed è iniziata la mia nuova avventura”.
La sua tavolozza impara subito a giocare con la materia. I rossi, i bianchi gessosi e i neri corrugati in velature sovrapposte che nascondono stracci, cerniere, materiali vari di riciclo, sono la regola di quasi tutto il suo lavoro. Insieme ai verdi liquorosi degli stagni, talvolta ai blu, quasi allucinati. Acrilici mischiati a colle, malta e terre. Nascono da lì i suoi loghi solitari con il terreno spaccato dall’arsura, fenditure longitudinali che suggeriscono i moti sussultori del pianeta. Le stoffe imbibite di colore si corrugano in forma di dune, colline, canaloni di montagna. Sulla tela fioriscono lagune, paludi, pianure senza nome. La materia si addensa in luci e ombre, asciugandosi si spalancano solchi e su tutto regna sovrano il silenzio. Contro il cielo plumbeo, quando non è del tutto nero, s’inerpica un albero sopravvissuto, specie di fantasma del mondo agli inizi. Ma quell’unico esempio di vita che sfida orgoglioso il vuoto dell’aria dice di una speranza dolce e profonda. “L’albero sono io -racconta- mi piace guardare abitare nei miei quadri. Essere dipinto in quel paesaggio”.
Impossibile non riconoscere questa pittura come espressione del Terzo Millennio, luogo mentale della distruzione fisica del genere umano, ma uno sguardo più attento conduce in un’altra direzione. Per comprendere le lande desolate di Paschetta bisogna ancora una volta guardare a Cézanne. L’orizzonte abbassato che chiama in causa un cielo di volta in volta tempestoso o luminoso e carico di promesse, ha a che fare con quella scoperta. La visione generale nella pittura di Paschetta è carica di tensione, di lampi di colore quasi a rinnovare il sodalizio con la natura di Cézanne che mise fine all’Impressionismo e aprì la strada a una tensione nuova, quella per cui la tela diventa il palcoscenico di un mondo in divenire. Dopo vent’anni di lavoro estenuante, questa mostra dice qualcosa di diverso sull’indagine del mio amico. Prima di realizzare i moltissimi dipinti che riempiono questo libro e vestiranno le sale di diversi palazzi pubblici, Paschetta ha compiuto un percorso silenzioso e devoto nella Brianza di Gola, Frisia, dei due Brambilla e di Morlotti risalendo il corso dell’Adda cantato da Poma, Lilloni, Frisia jr, Trojani, fino alle montagne di Longoni e Segantini. Il contratto che Paschetta ha firmato con la storia (nel senso di storia dell’arte) in questa mostra è evidente. Se non si tenesse conto di tutto ciò che l’ha preceduto, i dipinti di questo libro, in particolare quelli dedicati al fiume Adda, non si potrebbero spiegare. I luoghi già visti mille volte, in questa nuova occasione lo hanno affascinato in modo smisurato e da qui sono nati, in brevi forsennati mesi, dei dipinti più solari e ricchi di pennellate dense, piene di luce. Ricollegandosi allo studio di Morlotti sulla sostanza primigenia, sottesa a tutto ciò che esiste, Paschetta ha infine scoperto il senso ultimo delle cose, una visione poetica che si serve della forma come azione/reazione di fronte al misterioso miracolo dell’esistenza.
Anna Caterina Bellati
tra Milano e Venezia, nella primavera 2008
Biografia
a cura di Luigi Rigamonti
Mario Paschetta nasce a Milano il 27.11.1949 e inizia a dipingere all’età di 14 anni, la sua è una pittura tradizionale seppure già compare una corposità materica.
La frequentazione degli ambienti culturali milanesi, tra i quali il Bar Jamaica, lo porta ad entrare in contatto, sia pure come spettatore, con i numerosi artisti che lo frequentano, molti dei quali contribuiranno a scrivere la storia dell’arte italiana. Anche se Mario Paschetta si allontana, per motivi legati alla sua attività commerciale, dalla pratica della pittura tradizionale, continua la sua frequentazione dell’ambiente artistico e delle gallerie d’arte. Nel 1992 inizia uno studio approfondito sulla materia sia in termini di materiali che di utilizzo, e traspariranno così nelle sue opere gli influssi che hanno avuto su di lui artisti come Burri, Crippa, Mattioli.
Le opere di Mario Paschetta da subito creano interesse sia per la tecnica che per la loro costruzione pittorica, fa discutere la sua pittura-non pittura, le sue originali rappresentazioni aprospettiche, la sua astrazione-antiastrazione. Trento Longaretti, indiscusso maestro della pittura del nostro novecento, ne riconosce l’originalità, la capacità di Paschetta, attraverso un linguaggio personale di descrivere un mondo poetico.
Nel 2001 si tiene una importante mostra personale di Paschetta al Museo Nazionale di Arte Moderna di Gazoldo degli Ippoliti (Mn) e in quell’occasione Maurizio Sciaccaluga evidenzia una particolarità delle opere di Paschetta che è quella di indurre, in chi le osserva, a toccarle poiché il suo paesaggio, rappresentativo di terre lontane nel tempo, è “paesaggio non raccontato ma ricreato“ ed il suo linguaggio si traduce in una necessità di contatto come in “una sorte di pittura braille“. Anche Enrico Giustacchini si interessa al percorso artistico di Mario Paschetta evidenziando un’altra particolarità e peculiarità del suo linguaggio che passa attraverso una stratificazione verticale, quello che Giustacchini definisce “inconsueto sondaggio vertica-le“. Non solo critici d’arte si interessano del lavoro di Mario Paschetta ma nel 2003, anche Ruggero Sicurelli, Sociologo e Psicologo che si occupa di creatività artistica, pubblica un libro “Elementi di Psicoanalisi dell’Arte - Freud e la Creatività Artistica” nel quale, analizzando il lavoro di Paschetta, ritrova in loro la “metafora freudiana dell’archeologia, in forza alla quale lo psicoanalista si occupa dell’analisi stratigrafica dell’anima“ e dà una ulteriore chiave di lettura delle sue opere. Le opere di Mario Paschetta sono presenti in diverse collezioni private e pubbliche e molte le partecipazioni alle principali mostre d’arte Italiane, importante inoltre è nel 2003 la partecipazione alla manifestazione indetta dall’Associazione Mare Nostrum per l’inaugurazione della “Fortezza del mare” all’isola della Palmaria (Porto Venere) sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica e nel 2004 la partecipazione alla Prima Biennale dell’Unità d’Italia presso la Reggia di Caserta. L’intesse per le opere di Paschetta affascina anche l’Asia e nel 2003 e nel 2004, le sue opere sono state scelte dalla multinazionale giapponese Citizen quale testimonial per la propria Campagna Pubblicitaria. Il percorso di Paschetta prosegue nel 2005 a Lecco con una importante mostra personale presso i Musei Civici cittadini, nella splendida cornice storica della Torre Viscontea per poi approdare in occasione delle olimpiadi invernali di Torino 2006, in una importante rassegna espositiva: “I grandi Maestri del ‘900 ed i nuovi linguaggi della contemporaneità” svoltasi presso lo stesso Villaggio Olimpico e che ha visto la presenza di grandi firme del novecento come De Chirico, Mirò,Rotella,Marini. Significativa sempre nel 2006, la mostra personale “Oltre Tannoiser” tenutasi nella sede estiva di Sirmione del Garda della galleria B&B di Mantova.
Da segnalare tra gli eventi del 2007, la mostra pubblica “Nel segno della materia“ tenutasi nel Comune di Valdagno presso i Civici Musei (Villa Valle) nel mese di dicembre. Nel 2008 Paschetta è presente alla collettiva “Traguardo” a Strasburgo presso la sede del Parlamento Europeo, dove l’arte Italiana, viene rappresentata dagli artisti premiati nel corso degli anni al premio Internazionale “Agazzi”. Nel mese di aprile viene invitato alla nuova edizione della Biennale dell’Unità d’Italia presso il complesso monumentale Real Sito di San Leucio (Caserta). Nei mesi successivi inaugura un’importante mostra pubblica dal titolo “Appunti di un viaggiatore lombardo” che si tiene dapprima presso il Centro culturale Fatebenefratelli a Valmadrera, successivamente nelle sale del Palazzo Pretorio di Chiavenna per poi approdare ad Imbersago presso la Mediateca Comunale nel mese di Giugno.
Con questo progetto espositivo Paschetta visita con il suo particolare stile pittorico i paesaggi lacustri, fluviali e paesaggistici dell’Adda, e che lo colloca come lo definisce Anna Caterina Bellati, curatrice della mostra, tra i naturalisti lombardi.
In questo stesso periodo Paschetta partecipa ad un importante evento artistico a Lugano presso la galleria Mya Lurgo Gallery dal titolo “À travers l’immateriel - Omaggio a Yves Klein“ realizzando un polittico materico informale nel celebrato ed immortale colore “blue Klein”.
Nel mese di Settembre, a Venezia, parteciperà all’11ª edizione di “OPEN“, un evento che vede artisti di tutto il mondo cimentarsi con sculture ed istallazioni al Lido di Venezia in contemporanea con l’annuale Mostra del Cinema.
Mario Paschetta vive e lavora a Inzago in provincia di Milano.
Hanno scritto di lui: Paola Artoni, Gianni Barachetti,Lucio Barbera, Anna Caterina Bellati, Daniela Borgogna, Rossana Bossaglia, Stefania Briccola, Alessio Calestani, Aldo Camerini, Fabrizio Colonna, Mauro Corradini, Elisa Cremonesi, Athos Geminiani, Enrico Giustacchini, Simona Ladu, Trento Longaretti, Fausto Lorenzo, Stefano Maffini, Raffaella Oluic, Luigi Rigamonti, Enzo Santese, Anna Maria Savarino, Luca Savarino, Marta Savaris, Maurizio Sciaccaluga, Ruggero Sicurelli.
07
giugno 2008
Mario Paschetta – Appunti di un viaggiatore lombardo
Dal 07 al 22 giugno 2008
arte contemporanea
Location
PALAZZO PRETORIO
Chiavenna, Piazza San Pietro, (Sondrio)
Chiavenna, Piazza San Pietro, (Sondrio)
Orario di apertura
tutti i giorni 10-12 / 15-19, lunedì chiuso
Vernissage
7 Giugno 2008, ore 18
Sito web
www.bellatieditore.com
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