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Marlo J.Montoya – [De]Humanized
Parlare di Marlo J. Montoya non può prescindere dal senso del suo gesto artistico. Al preciso controllo dell’operazione tecnica di post produzione, citando Marlo, “Ho imparato a controllare il caos. Calcolo tutto: grandezza del pennello, profondità, spessore.”
Comunicato stampa
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Il 20 settembre alle 18,30 da Evvivanoé in via Grassi 16 a Torino si inaugura la mostra [DE]HUMANIZED dell'artista colombiano Marlo J.Montoya.
Dopo diverse collaborazioni con la galleria d'arte di Cit Turin, la partecipazione alla Affordable Art Fair di Milano e a Paratissima 2017, per la prima volta a Torino la personale dell'artista con alcune delle sue più recenti opere.
Testo critico di Eleonora Diana
Parlare di Marlo J. Montoya non può prescindere dal senso del suo gesto artistico. Al preciso controllo dell’operazione tecnica di post produzione, citando Marlo, “Ho imparato a controllare il caos. Calcolo tutto: grandezza del pennello, profondità, spessore. Non c’è nulla di involontario”, corrisponde una profonda violenza, quasi furiosa, nel risultato. All’arte come ars, in primo luogo quindi come abilità e tecnica, corrisponde un esito che sembra tutto emotivo. Il gesto di Marlo infatti è rabbioso e ricorda, nel suo accanirsi sul viso, un comportamento simil-psicotico. È l’atto d’odio per eccellenza: l’eliminazione degli occhi, la distruzione dei contorni del volto, fino a rendere irriconoscibile l’essere umano.
La disumanizzazione profonda a cui sono sottoposti i suoi “ritratti”, tuttavia, è aggressiva, ma non convulsa. Ha imparato a controllare il caos, Marlo.
La violenza è diretta scientemente all’icona, indirizzata al volto di figure estremamente riconoscibili, simbolo per eccellenza di un “vintage pop” e di un sistema culturale, il nostro, che ha fatto della memorizzazione visiva, della bulimia d’immagine, il suo tratto distintivo. Ecco che compare Elizabeth Taylor con il suo vestito rosso, la scollatura a cuore, paillettata. Un colpo d’occhio basta, magari il nome non si ricorda immediatamente, ma la foto è ovunque, impossibile non averne almeno vaga memoria. Su Google è onnipresente.
L’homo videns di Sartori si incarna, dunque, proprio in una generazione zero, la nostra, che perde sempre più la necessità di comunicare verbalmente, ma che vive di stratificazione di immagini, dalle più svariate matrici, che sviluppa abnormemente non solo il senso della vista ma anche la memoria a esso collegata. La riconoscibilità dell’immagine e la possibilità di citarla con grande sicurezza sono basate sul fatto che all’enorme quantità di informazioni visive non corrisponde un’altrettanta varietà nell’ormai unica fonte di informazione, il web. Tantissime e sempre le stesse. Si crea così un substrato visivo e culturale che questa generazione zero capisce in un batter d’occhio.
A questo primo lato, distruttivo e centrifugo corrisponde in Montoya anche un aspetto centripeto e ricostruttivo. Dall’icona sfregiata nasce il tentativo di ricreare. Gli anonimi delle foto di gruppo scaricate dal web, persone qualunque, che hanno avuto sì una storia ma a cui Marlo è interessato molto poco, diventano l’incarnazione di una nuova umanità, simili a creature post-umane. L’occhiolino è proprio a quella generazione zero che, ingorda d’immagini, mastica cinema e telefilm, per la quale il ricordo della fantascienza cult è dietro l’angolo. Gli umanoidi dai colori pop di Montoya ridanno vita a foto che non dicono più nulla, foto di ignoti, in opposizioni alle icone del vintage pop. Nascono così mostriciattoli dalla scatola magica, il cubo blu di Lynch, della post produzione.
Anche tecnicamente il gesto di Montoya rispecchia questa duplicità. Al liquefarsi del colore del pixel del momento distruttivo (Marlo non aggiunge mai colore in più quando si tratta di sfregiare le Stars, ma scioglie virtualmente il colore già presente) segue, non temporalmente ma idealmente, l’applicazione, nel momento costruttivo, del colore quasi fluo, ex novo, su vecchie foto.
Il gesto di Marlo J. Montoya è lo stesso della pagina bianca di Apollinaire: una tabula rasa su cui riproporre una nuova umanità. Aliena, ovviamente.
Tanto il suo gesto appare aggressivo, tanto disumanizzante, tanto Montoya in realtà si prodiga per salvaguardare il lato umano dell’uomo. Eredita immagini che uno sconosciuto si è preso la briga di digitalizzare per salvare dalla scomparsa (ciò che non è nel web ormai non esiste) e le fa sue e le stampa. Le fa tornare carne.
Tutto questo in una versione ‘mobile’, portatile. Basta un programma e, oltre al pc, un tablet. Come l’en plain air nasce da un’invenzione tecnica, la creazione del colore a tubetti, così Montoya da forma all’opera in movimento, con una materia prima scaricabile del web e un’opera dopo da caricare sui social.
“Appena nasce un’opera la pubblico subito su Facebook” dice Marlo. Ironico, proprio su Face Book.
Biografia a cura di Chiara Barbieri
Marlo Montoya nasce a Pereira, in Colombia, nel 1986.
All’età di dieci anni si trasferisce con la famiglia in Spagna, a Barcellona. Dopo anni di educazione privata frequenta per la prima volta la scuola pubblica, soffrendo profondamente del distacco dalla madre. Per affrontare i propri turbamenti comincia a frequentare un gruppo di arte-terapia: è nell’arte che trova così la sua dimensione, il modo in cui crescere e scoprire la propria identità.
Dopo il diploma superiore nel 2005 si iscrive al corso di disegno e pittura presso la Barcelona Academy of art, dove termina gli studi nel 2008. Negli anni dell’accademia si avvicina anche al mondo della fotografia, portando avanti un percorso di studio e di sperimentazione da autodidatta.
Si iscrive successivamente alla Grisart Escola International de fotografia, diplomandosi nel 2010.
Quelli che seguono sono anni decisivi per la maturazione di Marlo come artista. Dopo un periodo di profondo smarrimento - dovuto alla formazione di stampo tecnico e teorico ricevuta in accademia -
frequenta nel 2011 un workshop in Digital and Design Art a Shanghai, determinato a individuare e indagare nuovi linguaggi. Nello stesso anno fa per la prima volta ritorno in Colombia, partecipando ad una residenza artistica a Pereira.
Nel 2012 ritorna stabilmente a Barcellona per buttarsi a capofitto nella propria ricerca artistica, lavorando assiduamente per mesi.
Nel 2013 fonda - insieme con Pablo Bermudez, Blito B, Javier Blanco, Daniel Davila e David Linartedecidono – il gruppo B-house Art Company, collettivo che si basa sull’analisi e sull’utilizzo di processi e strategie di marketing e branding applicate al mondo dell’arte.
Ad avvicinare i sei artisti non è solo la nazionalità colombiana, ma anche e soprattutto una medesima visione di ciò che è l’arte contemporanea, unita ad una forte consapevolezza del momento di profonda trasformazione che sta vivendo.
Dopo un breve periodo in Italia, a Roma, dal 2015 è tornato a stabilirsi a Barcellona.
La mostra personale inaugurerà il 20 settembre alle 18,30
Dopo diverse collaborazioni con la galleria d'arte di Cit Turin, la partecipazione alla Affordable Art Fair di Milano e a Paratissima 2017, per la prima volta a Torino la personale dell'artista con alcune delle sue più recenti opere.
Testo critico di Eleonora Diana
Parlare di Marlo J. Montoya non può prescindere dal senso del suo gesto artistico. Al preciso controllo dell’operazione tecnica di post produzione, citando Marlo, “Ho imparato a controllare il caos. Calcolo tutto: grandezza del pennello, profondità, spessore. Non c’è nulla di involontario”, corrisponde una profonda violenza, quasi furiosa, nel risultato. All’arte come ars, in primo luogo quindi come abilità e tecnica, corrisponde un esito che sembra tutto emotivo. Il gesto di Marlo infatti è rabbioso e ricorda, nel suo accanirsi sul viso, un comportamento simil-psicotico. È l’atto d’odio per eccellenza: l’eliminazione degli occhi, la distruzione dei contorni del volto, fino a rendere irriconoscibile l’essere umano.
La disumanizzazione profonda a cui sono sottoposti i suoi “ritratti”, tuttavia, è aggressiva, ma non convulsa. Ha imparato a controllare il caos, Marlo.
La violenza è diretta scientemente all’icona, indirizzata al volto di figure estremamente riconoscibili, simbolo per eccellenza di un “vintage pop” e di un sistema culturale, il nostro, che ha fatto della memorizzazione visiva, della bulimia d’immagine, il suo tratto distintivo. Ecco che compare Elizabeth Taylor con il suo vestito rosso, la scollatura a cuore, paillettata. Un colpo d’occhio basta, magari il nome non si ricorda immediatamente, ma la foto è ovunque, impossibile non averne almeno vaga memoria. Su Google è onnipresente.
L’homo videns di Sartori si incarna, dunque, proprio in una generazione zero, la nostra, che perde sempre più la necessità di comunicare verbalmente, ma che vive di stratificazione di immagini, dalle più svariate matrici, che sviluppa abnormemente non solo il senso della vista ma anche la memoria a esso collegata. La riconoscibilità dell’immagine e la possibilità di citarla con grande sicurezza sono basate sul fatto che all’enorme quantità di informazioni visive non corrisponde un’altrettanta varietà nell’ormai unica fonte di informazione, il web. Tantissime e sempre le stesse. Si crea così un substrato visivo e culturale che questa generazione zero capisce in un batter d’occhio.
A questo primo lato, distruttivo e centrifugo corrisponde in Montoya anche un aspetto centripeto e ricostruttivo. Dall’icona sfregiata nasce il tentativo di ricreare. Gli anonimi delle foto di gruppo scaricate dal web, persone qualunque, che hanno avuto sì una storia ma a cui Marlo è interessato molto poco, diventano l’incarnazione di una nuova umanità, simili a creature post-umane. L’occhiolino è proprio a quella generazione zero che, ingorda d’immagini, mastica cinema e telefilm, per la quale il ricordo della fantascienza cult è dietro l’angolo. Gli umanoidi dai colori pop di Montoya ridanno vita a foto che non dicono più nulla, foto di ignoti, in opposizioni alle icone del vintage pop. Nascono così mostriciattoli dalla scatola magica, il cubo blu di Lynch, della post produzione.
Anche tecnicamente il gesto di Montoya rispecchia questa duplicità. Al liquefarsi del colore del pixel del momento distruttivo (Marlo non aggiunge mai colore in più quando si tratta di sfregiare le Stars, ma scioglie virtualmente il colore già presente) segue, non temporalmente ma idealmente, l’applicazione, nel momento costruttivo, del colore quasi fluo, ex novo, su vecchie foto.
Il gesto di Marlo J. Montoya è lo stesso della pagina bianca di Apollinaire: una tabula rasa su cui riproporre una nuova umanità. Aliena, ovviamente.
Tanto il suo gesto appare aggressivo, tanto disumanizzante, tanto Montoya in realtà si prodiga per salvaguardare il lato umano dell’uomo. Eredita immagini che uno sconosciuto si è preso la briga di digitalizzare per salvare dalla scomparsa (ciò che non è nel web ormai non esiste) e le fa sue e le stampa. Le fa tornare carne.
Tutto questo in una versione ‘mobile’, portatile. Basta un programma e, oltre al pc, un tablet. Come l’en plain air nasce da un’invenzione tecnica, la creazione del colore a tubetti, così Montoya da forma all’opera in movimento, con una materia prima scaricabile del web e un’opera dopo da caricare sui social.
“Appena nasce un’opera la pubblico subito su Facebook” dice Marlo. Ironico, proprio su Face Book.
Biografia a cura di Chiara Barbieri
Marlo Montoya nasce a Pereira, in Colombia, nel 1986.
All’età di dieci anni si trasferisce con la famiglia in Spagna, a Barcellona. Dopo anni di educazione privata frequenta per la prima volta la scuola pubblica, soffrendo profondamente del distacco dalla madre. Per affrontare i propri turbamenti comincia a frequentare un gruppo di arte-terapia: è nell’arte che trova così la sua dimensione, il modo in cui crescere e scoprire la propria identità.
Dopo il diploma superiore nel 2005 si iscrive al corso di disegno e pittura presso la Barcelona Academy of art, dove termina gli studi nel 2008. Negli anni dell’accademia si avvicina anche al mondo della fotografia, portando avanti un percorso di studio e di sperimentazione da autodidatta.
Si iscrive successivamente alla Grisart Escola International de fotografia, diplomandosi nel 2010.
Quelli che seguono sono anni decisivi per la maturazione di Marlo come artista. Dopo un periodo di profondo smarrimento - dovuto alla formazione di stampo tecnico e teorico ricevuta in accademia -
frequenta nel 2011 un workshop in Digital and Design Art a Shanghai, determinato a individuare e indagare nuovi linguaggi. Nello stesso anno fa per la prima volta ritorno in Colombia, partecipando ad una residenza artistica a Pereira.
Nel 2012 ritorna stabilmente a Barcellona per buttarsi a capofitto nella propria ricerca artistica, lavorando assiduamente per mesi.
Nel 2013 fonda - insieme con Pablo Bermudez, Blito B, Javier Blanco, Daniel Davila e David Linartedecidono – il gruppo B-house Art Company, collettivo che si basa sull’analisi e sull’utilizzo di processi e strategie di marketing e branding applicate al mondo dell’arte.
Ad avvicinare i sei artisti non è solo la nazionalità colombiana, ma anche e soprattutto una medesima visione di ciò che è l’arte contemporanea, unita ad una forte consapevolezza del momento di profonda trasformazione che sta vivendo.
Dopo un breve periodo in Italia, a Roma, dal 2015 è tornato a stabilirsi a Barcellona.
La mostra personale inaugurerà il 20 settembre alle 18,30
20
settembre 2018
Marlo J.Montoya – [De]Humanized
Dal 20 settembre al 20 ottobre 2018
arte contemporanea
Location
EVVIVANOE’
Torino, Via Giuseppe Grassi, 16, (Torino)
Torino, Via Giuseppe Grassi, 16, (Torino)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 19,30; il sabato mattina dalle 10,30 alle 13 oppure su appuntamento scrivendo a info@evvivanoe.it
Vernissage
20 Settembre 2018, ore 18,30
Autore
Curatore