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Marta Manfredini – Identità nascoste
Paolo Cappelletti è lieto di presentare la mostra Identità nascoste di Marta Manfredini. Il lavoro dell’artista torinese da anni investiga la relazione tra il corpo umano e una delle sue rappresentazioni più antiche e ambigue: la bambola.
Comunicato stampa
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Paolo Cappelletti è lieto di presentare la mostra Identità nascoste di Marta Manfredini. Il lavoro dell’artista torinese da anni investiga la relazione tra il corpo umano e una delle sue rappresentazioni più antiche e ambigue: la bambola. In un’ottica à la Donald Winnicott, noto per la sua esperienza critica e clinica con bambini e adolescenti, la bambola rientra necessariamente in quel regno degli oggetti transizionali così importanti per il bambino, all’interno della nascente relazione con la madre e nel delicato e fondamentale processo di creazione del sé. L’oggetto transizionale, tuttavia, può trasformarsi nel tempo in oggetto feticistico, ambiguo e quasi pericoloso; un oggetto che può informare negativamente la vita sessuale adulta.
La bambola è un simulacro fondamentale, una rappresentazione del sé umano che vive in quest’ambiguità fondante. Essa è, ontologicamente, un’ossessione che, per usare le parole del poeta ottocentesco Gerard Manley Hopkins, è come “una soffice polvere/Filtrata in una clessidra – alla parete/Ferma, ma minata da un moto, da una spinta”. L’installazione e le opere di Manfredini ci riportano in quella dimensione cangiante tra vita e morte, tra movimento e stasi. Una dimensione che solo il ricordo del momento dell’infanzia può far rivivere; e Manfredini, a tal proposito, così ben riporta il processo esistenziale che ha generato questo ciclo di lavori: “Questo lavoro nasce dal ricordo di un episodio della mia infanzia, quando mi portarono in ospedale e io arrivai tenendo in braccio una bambola per farmi coraggio. E alla domanda di un medico sul perché avessi scelto proprio quella bambola, risposi senza esitazione: ‘perché questa è quella che mi assomiglia di più!’.
Fin da bambina ho avuto un rapporto ambiguo con quel corpo inanimato, in tutto simile a me, fatto per specchiarmi più che apprendere la difficile arte della relazione con l’altro. La coccolavo e, al medesimo tempo, la invidiavo; la sua bellezza e seduzione mi inducevano ansie e voglie devastatrici: diventava necessario impadronirsene, sottometterne il mistero imponendole norme e leggi.
Ma, dietro la copertura apparente dell’iniziazione alla maternità, trapelavano rituali erotici: vestire per svestire, abbellire per degradare. Su quel corpo, i gesti e le opere consumavano curiosità e vendetta, il gioco diventava esercizio di dominio. Credo che la relazione, trasgressiva rispetto alle attese educative, rimandi ad un corpo visto ‘da fuori’, come se corpo e pensiero si fossero separati, collocandosi su lati opposti. E analogo è quello che avviene solitamente nel rapporto sessuale, tanto da far nascere il dubbio che sia la donna stessa a muoversi dentro il rituale maschile dell’appropriazione, ad assecondarlo, forse a prepararlo. Il corpo che si consegna all’uomo è già stato guardato e porta dei segni di manipolazione, seppure immaginaria. Il desiderio, la curiosità, la voglia di dominio del maschio, sono già stati preceduti da sentimenti analoghi da parte di me bambina, per quel corpo a me simile e quindi per il mio stesso corpo.
La bambola è l’oggetto d’amore che si consegna, muto e seducente, al desiderio sessuale. Che la bambola abbia poco a che fare con la maternità lo dimostra in modo evidente un breve racconto di Edmondo De Amicis, Il re delle bambole: nella bottega di colui che le fabbrica o le ripara, le bambole sono ‘bambine inanimate’ ma con ‘belle gambe di donna’, che gli sguardi delle ragazzine ‘rubano con gli occhi’ e poi con le mani, travolte da ‘un’orgia di desideri’. ‘Tutte con quel viso fatto a pesca, con quella bocca a botton di rosa, con quegli occhi grandi e freddi di donnine senza cuore e cocottes senza pensieri’.
Fin qui la bambola sembra rimandare unicamente al corpo femminile come oggetto erotico, ma ci sarà un passaggio imprevisto che farà comparire altri aspetti: infatti nel momento in cui la bambola si animerà, si farà ‘attiva’, avverrà una specie di trasmutazione e allora chissà quali sorprese nasconderà quella ‘donnina senza cuore’…
E’ incredibile quanto rumore ci fosse nel silenzio della mia infanzia…
Come la memoria si stratifica nei miei pensieri, la tela diviene filtro per i miei ricordi.
Una pittura morbidissima, liquefatta, che si adagia dolcemente sulla tela: solo le tracce di questi ricordi affiorano in superficie.
La mia operazione è una sottrazione di peso. La leggerezza emerge sulla superficie sensibile.
Restare in silenzio e ascoltare, perché forse ora quei volti, prima solo sguardi e impercettibili mutamenti d’espressione, cominciano a sussurrare, a svelare, a narrare la propria verità.
La pittura e la tela, quindi, come mezzo per entrare dove è difficile andare, per penetrare nella pelle dell’anima.”
Marta Manfredini, nata a Torino nel 1977, vive e lavora a Milano. Dopo gli studi di architettura, si trasferisce per alcuni anni a Londra e, successivamente, inizia a esporre il suo lavoro in gallerie private e istituzioni pubbliche italiane. Attualmente si sta specializzando in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Milano.
La bambola è un simulacro fondamentale, una rappresentazione del sé umano che vive in quest’ambiguità fondante. Essa è, ontologicamente, un’ossessione che, per usare le parole del poeta ottocentesco Gerard Manley Hopkins, è come “una soffice polvere/Filtrata in una clessidra – alla parete/Ferma, ma minata da un moto, da una spinta”. L’installazione e le opere di Manfredini ci riportano in quella dimensione cangiante tra vita e morte, tra movimento e stasi. Una dimensione che solo il ricordo del momento dell’infanzia può far rivivere; e Manfredini, a tal proposito, così ben riporta il processo esistenziale che ha generato questo ciclo di lavori: “Questo lavoro nasce dal ricordo di un episodio della mia infanzia, quando mi portarono in ospedale e io arrivai tenendo in braccio una bambola per farmi coraggio. E alla domanda di un medico sul perché avessi scelto proprio quella bambola, risposi senza esitazione: ‘perché questa è quella che mi assomiglia di più!’.
Fin da bambina ho avuto un rapporto ambiguo con quel corpo inanimato, in tutto simile a me, fatto per specchiarmi più che apprendere la difficile arte della relazione con l’altro. La coccolavo e, al medesimo tempo, la invidiavo; la sua bellezza e seduzione mi inducevano ansie e voglie devastatrici: diventava necessario impadronirsene, sottometterne il mistero imponendole norme e leggi.
Ma, dietro la copertura apparente dell’iniziazione alla maternità, trapelavano rituali erotici: vestire per svestire, abbellire per degradare. Su quel corpo, i gesti e le opere consumavano curiosità e vendetta, il gioco diventava esercizio di dominio. Credo che la relazione, trasgressiva rispetto alle attese educative, rimandi ad un corpo visto ‘da fuori’, come se corpo e pensiero si fossero separati, collocandosi su lati opposti. E analogo è quello che avviene solitamente nel rapporto sessuale, tanto da far nascere il dubbio che sia la donna stessa a muoversi dentro il rituale maschile dell’appropriazione, ad assecondarlo, forse a prepararlo. Il corpo che si consegna all’uomo è già stato guardato e porta dei segni di manipolazione, seppure immaginaria. Il desiderio, la curiosità, la voglia di dominio del maschio, sono già stati preceduti da sentimenti analoghi da parte di me bambina, per quel corpo a me simile e quindi per il mio stesso corpo.
La bambola è l’oggetto d’amore che si consegna, muto e seducente, al desiderio sessuale. Che la bambola abbia poco a che fare con la maternità lo dimostra in modo evidente un breve racconto di Edmondo De Amicis, Il re delle bambole: nella bottega di colui che le fabbrica o le ripara, le bambole sono ‘bambine inanimate’ ma con ‘belle gambe di donna’, che gli sguardi delle ragazzine ‘rubano con gli occhi’ e poi con le mani, travolte da ‘un’orgia di desideri’. ‘Tutte con quel viso fatto a pesca, con quella bocca a botton di rosa, con quegli occhi grandi e freddi di donnine senza cuore e cocottes senza pensieri’.
Fin qui la bambola sembra rimandare unicamente al corpo femminile come oggetto erotico, ma ci sarà un passaggio imprevisto che farà comparire altri aspetti: infatti nel momento in cui la bambola si animerà, si farà ‘attiva’, avverrà una specie di trasmutazione e allora chissà quali sorprese nasconderà quella ‘donnina senza cuore’…
E’ incredibile quanto rumore ci fosse nel silenzio della mia infanzia…
Come la memoria si stratifica nei miei pensieri, la tela diviene filtro per i miei ricordi.
Una pittura morbidissima, liquefatta, che si adagia dolcemente sulla tela: solo le tracce di questi ricordi affiorano in superficie.
La mia operazione è una sottrazione di peso. La leggerezza emerge sulla superficie sensibile.
Restare in silenzio e ascoltare, perché forse ora quei volti, prima solo sguardi e impercettibili mutamenti d’espressione, cominciano a sussurrare, a svelare, a narrare la propria verità.
La pittura e la tela, quindi, come mezzo per entrare dove è difficile andare, per penetrare nella pelle dell’anima.”
Marta Manfredini, nata a Torino nel 1977, vive e lavora a Milano. Dopo gli studi di architettura, si trasferisce per alcuni anni a Londra e, successivamente, inizia a esporre il suo lavoro in gallerie private e istituzioni pubbliche italiane. Attualmente si sta specializzando in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Milano.
02
dicembre 2010
Marta Manfredini – Identità nascoste
Dal 02 al 30 dicembre 2010
arte contemporanea
Location
PAOLO CAPPELLETTI GALLERY
Milano, Via Luciano Manara, 15, (Milano)
Milano, Via Luciano Manara, 15, (Milano)
Orario di apertura
su appuntamento
Vernissage
2 Dicembre 2010, ore 18.30
Autore
Curatore