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Marta Roberti – C’era una volta, ancora una volta
In occasione della Milano Drawing Week, Marta Roberti presenta il suo nuovo lavoro in dialogo con un’opera di Sandro Chia gentilmente messa a disposizione dalla Collezione Ramo.
Comunicato stampa
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Quando Marta Roberti mi ha comunicato il titolo della sua mostra mi è parso di leggere, in compendio, i concetti e le figure che ricorrono fin dall’inizio nel suo lavoro artistico, riconducibili in ogni modo alla comprensione della natura umana, che sostanzialmente è disadattamento, infantilismo persistente, non coincidenza corpo-mondo, e della sua peculiare temporalità. La prima immagine che mi è venuta incontro è la storia di quegli strambi amici, Bouvard e Pécuchet, protagonisti di un romanzo significativamente incompleto di Flaubert che dopo una vita vissuta insieme alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza – con progetti tanto nobili quanto assurdi e fallimentari, che a lungo andare hanno tolto loro interesse per la vita – decidono di copiare ogni testo stampato che cadeva sotto il loro sguardo: biglietti del tram raccolti dalla strada, le istruzioni per un medicinale, l’etichetta di una bottiglia, insomma ogni cosa che recasse stampigliato un testo gli amici lo copiavano. Bouvard e Pécuchet, copiando ri-conoscono il proprio non essere e per ciò sono salvi, lo sono per due motivi: la copia come ritornello, come ripetizione dell’identico, come dispositivo a cui si ricorre nei momenti di crisi esistenziali, che ci permette, entro certi limiti, di uscire da, o quanto meno di mantenerci sul, baratro dell’inconsistenza. Secondo, perché sono amici che condividono l’irriducibile separazione che ognuno dei due ha con sé stesso, tra il sé corpo animale e l’altro da sé, mondo, esperienza, biografia, un altro sé stesso che si riconosce riflesso nell’altro. Non essendo, Bouvard e Pécuchet possono solo avere. Hanno la facoltà di linguaggio, hanno la memoria, hanno le passioni, ma le posseggono come qualcosa che si aggiunge al corpo, come una esteriorità, come una protesi. Georges Bataille chiama questo distacco, la non identità di natura e biografia, ferita: l’aperto dell’umano passa soltanto attraverso il non compimento, la nudità animale, la ferita.(2)
Cosa è che ritorna nel C’era una volta, ancora una volta che ci propone Marta? È il fondo che sale alla superficie (senza cessare di essere fondo), tanto per citare una serie di opere monocrome dell’artista dove il segno tratteggiato, maniacalmente ripetuto del disegno – sono per lo più rovi e mangrovie – emerge luminoso dal fondo nero carbone della carta copiatrice; il buio è la potenza da cui sorge la luce in atto. Una luce che però balza in superficie in un groviglio inestricabile di rami o di pulsioni, come dire che al di là dell’aperto non c’è la luce cristallina del libero avvenire ma solamente un ri-velamento. Ciò che ritorna è la memoria del corpo, degli organi motori che è essenzialmente abitudine, ma prima ancora ciò che ritorna identico a se stesso è l’a priori di ogni cosa, la potenza indifferenziata che sovrintende a ogni atto. Ogni volta da capo la facoltà di linguaggio, la facoltà mnestica, la facoltà di amare, ritorna sempre uguale. È la potenza, è il virtuale di tutto ciò che è stato, di tutto ciò che si attualizza e che si attualizzerà in futuro, e che in esso non si esaurisce. Le infinite espressioni che le lingue storiche permettono di creare non esauriscono in alcun modo la facoltà di linguaggio, essa torna sempre di nuovo portando la differenza nell’adesso. Il virtuale, ossia la potenza, è ciò che si ripete sempre uguale, ciò che si differenzia è il movimento del virtuale che si attualizza.
Questo movimento che da un illo tempore attualizza differenze è evidente e persino citato nelle opere di Marta Roberti, nella prassi artistica incentrata essenzialmente su una gestualità ripetitiva, insistentemente ripetitiva che è propiziatoria a uno stato mentale distaccato. Ma non un distacco dal mondo per entrare in comunione con il religioso, il rapporto che intrattiene Marta con la superficie non è di simbiosi con ciò che sta facendo, nell’incantamento che certa pratica ripetitiva procura non c’è fusione ma distanza giusta che permette ancora di contrapporre forma-contenuto, sé-altro, necessità-libertà. Non c’è fusione ed è per questo che il lavoro di Marta è massimamente fluido, nomadico, rizomatico, attrezzato per spaziare tra una miriade di concetti e figure che a volte ritornano sotto differenti costellazioni, o sotto mentite spoglie, a formare un ipertesto con diversi registri e linguaggi dalla scrittura al disegno, all’immagine in movimento, alla pittura.
Da un esito per così dire fenomenologico delle prime opere di Roberti come in Neotenia, Divenire ambiente, Lacuna, all’immagine del sé speculare della natura indistinta e degli animali solitari che ci osservano, quasi fosse la figurazione dell’ottava elegia di Rainer Maria Rilke, tanto amata dall’artista: “La creatura, qual siano gli occhi suoi, vede / l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son / come rigirati, posti tutt’intorno ad essa, / trappole ad accerchiare la sua libera uscita.”(3) Fino alle ultime opere, dove il corpo – è il corpo dell’artista – assume un rilievo maggiore nel rapporto con la natura e in modo particolare con l’animale. Il divenire animale di matrice deleuziana sembra essere una invariante nelle riflessioni che guidano la prassi artistica dell’artista, anche nella forma della metamorfosi che occupa tanto spazio nelle opere recenti, alcune delle quali in mostra. Ma qui il divenire altro della metamorfosi non apre al fantastico mondo perduto della mitologia, roba da antiquari direbbe Walter Benjamin, perché è dall’adesso che parte il richiamo del passato che torna, nell’esperienza estetica, come immagine dialettica, a volte capace di scardinare l’ordine discorsivo dominante. Questo adesso si presenta come immagine dialettica, come immagine fantasmagorica, improvvisa e involontaria del passato in cui appare il possibile che in esso non si è compiuto. Qui si fanno gli incontri, in questa terra di mezzo tra il non più e ancora una volta, e gli incontri si sa sono sempre felici. Allora non sfugge, a uno sguardo attento, la tensione che tiene insieme la blatta di Clarice Lispector con gli animali di Potnia. È possibile che le cose siano andate in questo modo: un giorno Marta Roberti incontra chissà come Potnia Theròn la signora degli animali, l’Artemide selvaggia…
Mauro Folci
Cosa è che ritorna nel C’era una volta, ancora una volta che ci propone Marta? È il fondo che sale alla superficie (senza cessare di essere fondo), tanto per citare una serie di opere monocrome dell’artista dove il segno tratteggiato, maniacalmente ripetuto del disegno – sono per lo più rovi e mangrovie – emerge luminoso dal fondo nero carbone della carta copiatrice; il buio è la potenza da cui sorge la luce in atto. Una luce che però balza in superficie in un groviglio inestricabile di rami o di pulsioni, come dire che al di là dell’aperto non c’è la luce cristallina del libero avvenire ma solamente un ri-velamento. Ciò che ritorna è la memoria del corpo, degli organi motori che è essenzialmente abitudine, ma prima ancora ciò che ritorna identico a se stesso è l’a priori di ogni cosa, la potenza indifferenziata che sovrintende a ogni atto. Ogni volta da capo la facoltà di linguaggio, la facoltà mnestica, la facoltà di amare, ritorna sempre uguale. È la potenza, è il virtuale di tutto ciò che è stato, di tutto ciò che si attualizza e che si attualizzerà in futuro, e che in esso non si esaurisce. Le infinite espressioni che le lingue storiche permettono di creare non esauriscono in alcun modo la facoltà di linguaggio, essa torna sempre di nuovo portando la differenza nell’adesso. Il virtuale, ossia la potenza, è ciò che si ripete sempre uguale, ciò che si differenzia è il movimento del virtuale che si attualizza.
Questo movimento che da un illo tempore attualizza differenze è evidente e persino citato nelle opere di Marta Roberti, nella prassi artistica incentrata essenzialmente su una gestualità ripetitiva, insistentemente ripetitiva che è propiziatoria a uno stato mentale distaccato. Ma non un distacco dal mondo per entrare in comunione con il religioso, il rapporto che intrattiene Marta con la superficie non è di simbiosi con ciò che sta facendo, nell’incantamento che certa pratica ripetitiva procura non c’è fusione ma distanza giusta che permette ancora di contrapporre forma-contenuto, sé-altro, necessità-libertà. Non c’è fusione ed è per questo che il lavoro di Marta è massimamente fluido, nomadico, rizomatico, attrezzato per spaziare tra una miriade di concetti e figure che a volte ritornano sotto differenti costellazioni, o sotto mentite spoglie, a formare un ipertesto con diversi registri e linguaggi dalla scrittura al disegno, all’immagine in movimento, alla pittura.
Da un esito per così dire fenomenologico delle prime opere di Roberti come in Neotenia, Divenire ambiente, Lacuna, all’immagine del sé speculare della natura indistinta e degli animali solitari che ci osservano, quasi fosse la figurazione dell’ottava elegia di Rainer Maria Rilke, tanto amata dall’artista: “La creatura, qual siano gli occhi suoi, vede / l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son / come rigirati, posti tutt’intorno ad essa, / trappole ad accerchiare la sua libera uscita.”(3) Fino alle ultime opere, dove il corpo – è il corpo dell’artista – assume un rilievo maggiore nel rapporto con la natura e in modo particolare con l’animale. Il divenire animale di matrice deleuziana sembra essere una invariante nelle riflessioni che guidano la prassi artistica dell’artista, anche nella forma della metamorfosi che occupa tanto spazio nelle opere recenti, alcune delle quali in mostra. Ma qui il divenire altro della metamorfosi non apre al fantastico mondo perduto della mitologia, roba da antiquari direbbe Walter Benjamin, perché è dall’adesso che parte il richiamo del passato che torna, nell’esperienza estetica, come immagine dialettica, a volte capace di scardinare l’ordine discorsivo dominante. Questo adesso si presenta come immagine dialettica, come immagine fantasmagorica, improvvisa e involontaria del passato in cui appare il possibile che in esso non si è compiuto. Qui si fanno gli incontri, in questa terra di mezzo tra il non più e ancora una volta, e gli incontri si sa sono sempre felici. Allora non sfugge, a uno sguardo attento, la tensione che tiene insieme la blatta di Clarice Lispector con gli animali di Potnia. È possibile che le cose siano andate in questo modo: un giorno Marta Roberti incontra chissà come Potnia Theròn la signora degli animali, l’Artemide selvaggia…
Mauro Folci
20
novembre 2022
Marta Roberti – C’era una volta, ancora una volta
Dal 20 novembre 2022 al 03 febbraio 2023
arte contemporanea
Location
OPR Gallery
Milano, Viale Corsica, 99, (MI)
Milano, Viale Corsica, 99, (MI)
Orario di apertura
da lunedi a venerdi ore 14.30 - 18.00
Sito web
Autore
Autore testo critico