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Martino Scavezzon / Paolo Zamengo – Soggettiva
Segnoperenne presenta presso i suggestivi spazi di Villa Morosini di Mirano, la doppia personale Soggettiva degli artisti Martino Scavezzon e Paolo Zamengo.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Segnoperenne presenta sabato 16 gennaio 2010, alle ore 18.00, presso i suggestivi spazi di Villa Morosini di Mirano, la doppia personale Soggettiva degli artisti Martino Scavezzon e Paolo Zamengo.
Nelle due vaste sale dello storico edificio del secondo Seicento veneto, fatto costruire dal ricco e colto Lorenzo Giustinian e circondato oggi dal grande parco ottocentesco, i due artisti, amici nella vita, si incontrano come già avvenuto in precedenti collettive, esponendo - in questa occasione separatamente - una raccolta ragionata dei più recenti lavori, alcuni pezzi inediti, alternati a produzioni passate, in un’operazione dal lontano sapore antologico.
Nell’evento di Mirano i due artisti sono chiamati a condividere il luogo e l’attimo simbolico in cui l’opera, dalla sfera intima d’origine si ri-colloca nel sentire collettivo attraverso la sua scoperta e la sua fruizione, il momento in cui la finitezza del materiale intraprende infiniti sviluppi di sussistenza e valenza autonoma, lavorando e allestendo però lo spazio nella più totale soggettività e indipendenza, prescindendo da ricerche forzate di punti d’intesa o spunti di dialogo. Al pubblico il compito di rileggerne i percorsi artistici individuando o intuendo le molteplici intersezioni alle quali le rispettive produzioni, intersecandosi o giustapponendosi o opponendosi, potenzialmente possono dare origine.
La linea espositiva della non ricerca di un tema comune immediato riflette la necessità di un rapporto con l’oggetto artistico forzatamente e consapevolmente individualistico, sia nella sfera della sua realizzazione sia in quella più finemente intellettuale della sua decodifica e interpretazione; soggettivo è dunque l’artista nella formulazione dell’atto creativo e nel compimento del gesto tecnico ma anche e soprattutto - mutuando il termine dal gergo cinematografico – un connotato qualitativo dello sguardo (mentale) che segue l’azione e la narra, stabilendo aprioristicamente i valori critici, i tagli compositivi che ogni testimonianza, verbale o non verbale, richiede per realizzarsi come esperienza letteraria e aspirare quindi al raggiungimento di valori universali.
Scavezzon e Zamengo, diversi per tecniche e produzione, avvicinano con i lavori qui presenti il topos della Storia, intesa come nucleo conoscitivo culturale e come imprescindibile substrato cultuale dell’origine del progetto vivere/conoscere/rappresentare; dalla presa di coscienza di questa dualità – la storia dell’uno rapportata alla storia dei molti - dipartono complesse digressioni speculative nei confronti degli spunti conflittuali (il paradosso dell’originalità nei confronti del già detto) o pacifici (l’assioma post-moderno della ri-nascita del segno attraverso la sua ri-contestualizzazione) che un rapporto simbiotico ma dinamico, come quello dell’artista calato nella cronologia del divenire, deve riconoscere, accettare e interpretare.
Paolo Zamengo affronta il peso della propria Storia specifica, del vissuto che negli anni ha condotto l’artista a eleggere con chiarezza i limiti del cercare e il codice linguistico da adottare. Un principio di fede laica ed esperienziale, versione de-sacralizzata del dogmatico credere cristiano, sostituisce l’essere umano all’essere divino, giungendo ad intravedere nel corpo fisico e carnale la stessa potenziale spiritualità del corpo sacro (il dipingere iconico), dottrina mondana che per quanto corruttibile diviene certa e tangibile presenza; il corpo emerge allora stabile e stante ma si fraziona e si seziona in parti indistinte dell’insieme, caotiche eppure unitarie, oltre l’immagine preordinata che l’artista riconosce, pre-vede per noi e sceglie di farci guardare.
Nel Corpo Solido (serie di fotografie e dipinti) che Paolo Zamengo ci offre (e con il quale si offre) denudando e svelando porzioni della propria carne, emerge la struttura terrena, limitante e finita, di pesi ancorati a leggi di gravità e volumetrie solide impossibili da eludere; nella prospettiva del sopra in giù la dicotomia della pesantezza delle membra che richiama valori profani e l’anelito alle evanescenze dello spirito che invece, in forme eteree prossime a composizioni spazialiste, allude alla leggerezza di certi stati mentali, riconferma la sola forma di evasione attuabile: la forma artistica.
Le quattro Città (Londra, Berlino, Sofia, San Pietroburgo, installazioni a tecnica mista realizzate con materiali poveri, video e musica dodecafonica) alludono al viaggio iniziatico che non ha inizio né fine, solo moto perpetuo di andata e ritorno nei luoghi-simbolo della mente, diretto recupero di informazioni-base (libri d’arte) già esperiti o prossimi a divenire parte esperita del progetto di vita. In questi mondi occidentali e orientali, scelti con criteri a-geografici ogni pensiero è già volontà di rappresentazione e si colloca tra il pensare e il fare che costantemente muove l’artista dalla ricerca verso l’azione e fa sì che il corpo sia pienamente veicolo del pensiero.
La luce dei neon, fredda quanto obiettiva, investe il feticcio artistico di una ritrovata fisicità suggerendo relazioni soggetto-oggetto primariamente visive, attraverso stadi successivi sensoriali - come del resto in ogni esperienza artistica - della comprensione che, per quanto talvolta poco immediata e talvolta incerta, si genera poco prima che la forma definita degradi verso il concettualismo e l’astrazione ricongiungendosi all’idea.
Il soggettivo rapportarsi all’arte di Martino Scavezzon si connota invece come ricerca intrinseca e interna all’oggetto, implicando con esso azioni di natura più marcatamente filologica. Alla luce bianca e asettica utilizzata da Paolo Zamengo l’artista sostituisce il buio e il nero della polvere di carbonio, mista a trementina e a olio di lino, con la quale dipinge fittamente i supporti cartacei, rendendoli monocromi iniziatici pronti a ricevere il segno grafico e a diventare texture narrativa.
Dal nero, già elemento pittorico pregante e denso in quanto somma di tutti i colori dell’iride e potenziale pausa tra racconti sequenziali (ancora dal gergo del cinema: dopo la soggettiva, la dissolvenza al nero) emergono, per antitesi cromatica, figure bianche, simili a negativi fotografici, grazie ad una pittura meccanica ottenuta con l’aiuto di un flessibile che toglie materia laddove invece sarebbe logico aspettarsi apporto e sovrapposizione di pigmento.
L’immagine che si origina esiste nel substrato del ricordo di una ricchezza intellettuale collettiva, nelle profonde metafore del cercare oltre la superficie e si concreta negando essenza alla propria essenza, eliminando strati di supporto con lacerazioni gravi che violentano la materia e creano scorci profondi nelle pieghe dei volti e dei corpi ritratti; l’intervento artistico è evidenziato dai marcati contorni vibrati violentemente e dai sicuri passaggi chiaroscurali.
Scavando nel colore di superficie che oscura anziché rivelare Martino Scavezzon ricolloca il suo essere artista contemporaneo nella giusta dimensione evolutiva, svelandoci il futuro attraverso la colta rievocazione di un passato nel quale incontra senza scontrarsi i personaggi di Tiziano, Dürer, Tintoretto, Velazquez, Brustolon decidendo di renderli ulteriormente protagonisti (dopo essere stati già grandi uomini ritratti da grandi artisti) di una rilettura storica dell’oggi filtrata da codici lontani ancora pregni dello stesso vitalismo e della stessa grandezza comunicazionale.
La Storia nella quale Martino Scavezzon intravede il diretto e sicuro riferimento linguistico e nella quale individua il vocabolario del proprio creare è dunque la storia dell’arte da manuale: uomini e fatti con i quali ricreare oggi rapporti di intima frequentazione (tanto da presentarli privati del nome alludendo ad un rapporto fortemente complice) riprendendo il dialogo sul processo idiomatico evolutivo che ha tradotto il segno verso la contemporaneità come esigenza di un sentire moderno, costante nel secoli.
Dei Maestri vissuti nei duecento anni che dal Rinascimento conducono al tardo Barocco rivoluzionando lo sguardo dell’uomo sulla realtà terrena (anche la prospettiva rinascimentale, prima di essere ferrea legge matematica è esperienza sociale che sancisce il definitivo recupero della soggettività dell’individuo) e stabiliscono il suo ricollocarsi soggettivo nel mondo, l’artista riprende le figure di esseri sociali (il re, il doge, il cavaliere, il letterato, il soldato, il suonatore di liuto, la dama di corte) che sono stati eroi di carne un tempo lontano e sono eroi di carta o di tela, tra i libri o nei musei, oggi, da dove proseguono le proprie epiche ma silenziose esperienze; e nella carta e nella tela anche Martino Scavezzon porta avanti la propria.
Lo status portrait, variazione tizianesca di un genere pittorico, il ritratto, ampiamente esplorato dalle arti figurative di ogni periodo e soggetto di questa ricerca, altro non è se non l’investitura ufficiale (soggettivizzazione) dell’oggetto ritratto, la sua ricollocazione come prodotto unitario e specifico e irripetibile in una società piramidale e gerarchizzata sempre meno – o non ancora – di massa.
La Storia si muove secondo percorsi unidirezionali per alcuni, ciclici per altri; l’arte si piega agli eventi senza tuttavia sottomettersi ad essi, il linguaggio visivo si stende o si arabesca uniformandosi sempre però alle esigenze del sentire sociale. Soggettiva all’interno di una apparente e ricercata disomogenea eterogenia realizza questi articolati circuiti non sempre leggibili nell’immediatezza dell’accaduto, ricordando tuttavia l’unico principio etico al quale l’artista, di fronte all’arte ma soprattutto alla Storia e a sé stesso, dovrebbe attenersi: il principio dell’ onestà dello sguardo.
L’evento è patrocinato dall’Assessorato alle Attività Culturali del Comune di Mirano.
Gli artisti saranno presenti a Villa Morosini durante la vernice.
Nelle due vaste sale dello storico edificio del secondo Seicento veneto, fatto costruire dal ricco e colto Lorenzo Giustinian e circondato oggi dal grande parco ottocentesco, i due artisti, amici nella vita, si incontrano come già avvenuto in precedenti collettive, esponendo - in questa occasione separatamente - una raccolta ragionata dei più recenti lavori, alcuni pezzi inediti, alternati a produzioni passate, in un’operazione dal lontano sapore antologico.
Nell’evento di Mirano i due artisti sono chiamati a condividere il luogo e l’attimo simbolico in cui l’opera, dalla sfera intima d’origine si ri-colloca nel sentire collettivo attraverso la sua scoperta e la sua fruizione, il momento in cui la finitezza del materiale intraprende infiniti sviluppi di sussistenza e valenza autonoma, lavorando e allestendo però lo spazio nella più totale soggettività e indipendenza, prescindendo da ricerche forzate di punti d’intesa o spunti di dialogo. Al pubblico il compito di rileggerne i percorsi artistici individuando o intuendo le molteplici intersezioni alle quali le rispettive produzioni, intersecandosi o giustapponendosi o opponendosi, potenzialmente possono dare origine.
La linea espositiva della non ricerca di un tema comune immediato riflette la necessità di un rapporto con l’oggetto artistico forzatamente e consapevolmente individualistico, sia nella sfera della sua realizzazione sia in quella più finemente intellettuale della sua decodifica e interpretazione; soggettivo è dunque l’artista nella formulazione dell’atto creativo e nel compimento del gesto tecnico ma anche e soprattutto - mutuando il termine dal gergo cinematografico – un connotato qualitativo dello sguardo (mentale) che segue l’azione e la narra, stabilendo aprioristicamente i valori critici, i tagli compositivi che ogni testimonianza, verbale o non verbale, richiede per realizzarsi come esperienza letteraria e aspirare quindi al raggiungimento di valori universali.
Scavezzon e Zamengo, diversi per tecniche e produzione, avvicinano con i lavori qui presenti il topos della Storia, intesa come nucleo conoscitivo culturale e come imprescindibile substrato cultuale dell’origine del progetto vivere/conoscere/rappresentare; dalla presa di coscienza di questa dualità – la storia dell’uno rapportata alla storia dei molti - dipartono complesse digressioni speculative nei confronti degli spunti conflittuali (il paradosso dell’originalità nei confronti del già detto) o pacifici (l’assioma post-moderno della ri-nascita del segno attraverso la sua ri-contestualizzazione) che un rapporto simbiotico ma dinamico, come quello dell’artista calato nella cronologia del divenire, deve riconoscere, accettare e interpretare.
Paolo Zamengo affronta il peso della propria Storia specifica, del vissuto che negli anni ha condotto l’artista a eleggere con chiarezza i limiti del cercare e il codice linguistico da adottare. Un principio di fede laica ed esperienziale, versione de-sacralizzata del dogmatico credere cristiano, sostituisce l’essere umano all’essere divino, giungendo ad intravedere nel corpo fisico e carnale la stessa potenziale spiritualità del corpo sacro (il dipingere iconico), dottrina mondana che per quanto corruttibile diviene certa e tangibile presenza; il corpo emerge allora stabile e stante ma si fraziona e si seziona in parti indistinte dell’insieme, caotiche eppure unitarie, oltre l’immagine preordinata che l’artista riconosce, pre-vede per noi e sceglie di farci guardare.
Nel Corpo Solido (serie di fotografie e dipinti) che Paolo Zamengo ci offre (e con il quale si offre) denudando e svelando porzioni della propria carne, emerge la struttura terrena, limitante e finita, di pesi ancorati a leggi di gravità e volumetrie solide impossibili da eludere; nella prospettiva del sopra in giù la dicotomia della pesantezza delle membra che richiama valori profani e l’anelito alle evanescenze dello spirito che invece, in forme eteree prossime a composizioni spazialiste, allude alla leggerezza di certi stati mentali, riconferma la sola forma di evasione attuabile: la forma artistica.
Le quattro Città (Londra, Berlino, Sofia, San Pietroburgo, installazioni a tecnica mista realizzate con materiali poveri, video e musica dodecafonica) alludono al viaggio iniziatico che non ha inizio né fine, solo moto perpetuo di andata e ritorno nei luoghi-simbolo della mente, diretto recupero di informazioni-base (libri d’arte) già esperiti o prossimi a divenire parte esperita del progetto di vita. In questi mondi occidentali e orientali, scelti con criteri a-geografici ogni pensiero è già volontà di rappresentazione e si colloca tra il pensare e il fare che costantemente muove l’artista dalla ricerca verso l’azione e fa sì che il corpo sia pienamente veicolo del pensiero.
La luce dei neon, fredda quanto obiettiva, investe il feticcio artistico di una ritrovata fisicità suggerendo relazioni soggetto-oggetto primariamente visive, attraverso stadi successivi sensoriali - come del resto in ogni esperienza artistica - della comprensione che, per quanto talvolta poco immediata e talvolta incerta, si genera poco prima che la forma definita degradi verso il concettualismo e l’astrazione ricongiungendosi all’idea.
Il soggettivo rapportarsi all’arte di Martino Scavezzon si connota invece come ricerca intrinseca e interna all’oggetto, implicando con esso azioni di natura più marcatamente filologica. Alla luce bianca e asettica utilizzata da Paolo Zamengo l’artista sostituisce il buio e il nero della polvere di carbonio, mista a trementina e a olio di lino, con la quale dipinge fittamente i supporti cartacei, rendendoli monocromi iniziatici pronti a ricevere il segno grafico e a diventare texture narrativa.
Dal nero, già elemento pittorico pregante e denso in quanto somma di tutti i colori dell’iride e potenziale pausa tra racconti sequenziali (ancora dal gergo del cinema: dopo la soggettiva, la dissolvenza al nero) emergono, per antitesi cromatica, figure bianche, simili a negativi fotografici, grazie ad una pittura meccanica ottenuta con l’aiuto di un flessibile che toglie materia laddove invece sarebbe logico aspettarsi apporto e sovrapposizione di pigmento.
L’immagine che si origina esiste nel substrato del ricordo di una ricchezza intellettuale collettiva, nelle profonde metafore del cercare oltre la superficie e si concreta negando essenza alla propria essenza, eliminando strati di supporto con lacerazioni gravi che violentano la materia e creano scorci profondi nelle pieghe dei volti e dei corpi ritratti; l’intervento artistico è evidenziato dai marcati contorni vibrati violentemente e dai sicuri passaggi chiaroscurali.
Scavando nel colore di superficie che oscura anziché rivelare Martino Scavezzon ricolloca il suo essere artista contemporaneo nella giusta dimensione evolutiva, svelandoci il futuro attraverso la colta rievocazione di un passato nel quale incontra senza scontrarsi i personaggi di Tiziano, Dürer, Tintoretto, Velazquez, Brustolon decidendo di renderli ulteriormente protagonisti (dopo essere stati già grandi uomini ritratti da grandi artisti) di una rilettura storica dell’oggi filtrata da codici lontani ancora pregni dello stesso vitalismo e della stessa grandezza comunicazionale.
La Storia nella quale Martino Scavezzon intravede il diretto e sicuro riferimento linguistico e nella quale individua il vocabolario del proprio creare è dunque la storia dell’arte da manuale: uomini e fatti con i quali ricreare oggi rapporti di intima frequentazione (tanto da presentarli privati del nome alludendo ad un rapporto fortemente complice) riprendendo il dialogo sul processo idiomatico evolutivo che ha tradotto il segno verso la contemporaneità come esigenza di un sentire moderno, costante nel secoli.
Dei Maestri vissuti nei duecento anni che dal Rinascimento conducono al tardo Barocco rivoluzionando lo sguardo dell’uomo sulla realtà terrena (anche la prospettiva rinascimentale, prima di essere ferrea legge matematica è esperienza sociale che sancisce il definitivo recupero della soggettività dell’individuo) e stabiliscono il suo ricollocarsi soggettivo nel mondo, l’artista riprende le figure di esseri sociali (il re, il doge, il cavaliere, il letterato, il soldato, il suonatore di liuto, la dama di corte) che sono stati eroi di carne un tempo lontano e sono eroi di carta o di tela, tra i libri o nei musei, oggi, da dove proseguono le proprie epiche ma silenziose esperienze; e nella carta e nella tela anche Martino Scavezzon porta avanti la propria.
Lo status portrait, variazione tizianesca di un genere pittorico, il ritratto, ampiamente esplorato dalle arti figurative di ogni periodo e soggetto di questa ricerca, altro non è se non l’investitura ufficiale (soggettivizzazione) dell’oggetto ritratto, la sua ricollocazione come prodotto unitario e specifico e irripetibile in una società piramidale e gerarchizzata sempre meno – o non ancora – di massa.
La Storia si muove secondo percorsi unidirezionali per alcuni, ciclici per altri; l’arte si piega agli eventi senza tuttavia sottomettersi ad essi, il linguaggio visivo si stende o si arabesca uniformandosi sempre però alle esigenze del sentire sociale. Soggettiva all’interno di una apparente e ricercata disomogenea eterogenia realizza questi articolati circuiti non sempre leggibili nell’immediatezza dell’accaduto, ricordando tuttavia l’unico principio etico al quale l’artista, di fronte all’arte ma soprattutto alla Storia e a sé stesso, dovrebbe attenersi: il principio dell’ onestà dello sguardo.
L’evento è patrocinato dall’Assessorato alle Attività Culturali del Comune di Mirano.
Gli artisti saranno presenti a Villa Morosini durante la vernice.
16
gennaio 2010
Martino Scavezzon / Paolo Zamengo – Soggettiva
Dal 16 al 31 gennaio 2010
arte contemporanea
Location
VILLA MOROSINI – BARCHESSA
Mirano, Via Luigi Mariutto, 2, (Venezia)
Mirano, Via Luigi Mariutto, 2, (Venezia)
Orario di apertura
da martedì a venerdì 15.00 – 18.00; sabato, domenica e festivi 10.00 – 12.00 / 15.00 – 18.00
Vernissage
16 Gennaio 2010, ore 18.00
Sito web
www.segnoperenne.it
Autore
Curatore