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Massimiliano Pelletti – Quando è buio si sta in casa
Irriverente, sagace, caustica, crepuscolare ma anche profondamente “classica”, per quella accezione, così intesa nel termine, che indica un alto controllo della resa formale di un’opera tale da “definire con essa generi e modelli”:la poetica di Massimiliano Pelletti è tutto questo e anche di più!
Comunicato stampa
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Postulato: tutta l'arte opera sul piano simbolico.
Oggetto e risultato della Creazione è quell'unico livello della realtà in cui non è più possibile separazione alcuna.
Qui ciò che è dato come origine (dato da simbolizzare) è al contempo anche il risultato finale (simbolo).
I due termini (simbolo e simbolizzato) dialogano tra loro in un'osmosi continuativa in cui quello che è, ossia la dimostrazione tangibile e simboleggiante, è al contempo anche la sua negazione (l'origine ri-definita e simbolizzata).
Questo tipo di realtà è diverso e qualitativamente superiore a quello inferiore, materialistico - funzionale, comunemente inteso.
È superiore poiché illimitato.
È necessaria materia degli artisti maturare il coraggio.
Poiché scegliere di non potere, seppure lascito di un principio di volontà, fa paura.
Ove cessa il controllo finisce l'arbitrio delle possibilità funzionali, lì dove “controllo” è retaggio pedagocigo dell’economia moderna.
Dove si colloca la linea di separazione tra la vita e la morte?
Cosa ci separa dalla morte?
Perché qualcosa lo fa, qualcosa relega diritti e doveri, strutture e modalità alla vita che alla morte non sembrano concesse e viceversa.
Qualcosa stabilisce, differenzia, separa.
L'uomo nel suo processo evolutivo ha sempre di più stabilito confini: tra sé e le cose del mondo, la natura, Dio...finanche i pensieri di un certo tipo, le emozioni.
Tutto è altro.
Perché?
Perché è così che la cosa diventa socialmente reale e, in ultima istanza, funzionale.
Qualsiasi cosa si definisce si dà oggettivamente al reale e soggettivamente all’immaginario; valevole quindi della possibilità (o meno) di essere posseduta, controllata.
In che senso è immaginaria?
Nella definizione stessa, in quel momento della separazione in cui il disgiunto diviene altro.
L'immaginario è quanto esterno, quanto alieno, non conosciuto, nel senso in cui è diverso da chi determina: è l'alterità assoluta, la cesura.
Niente di strano, dunque, nel pensare a quanto sforzo l'uomo abbia e stia dedicando al processo di definizione.
Esiste, in qualche maniera, una stretta connessione tra determinare e negare.
Chi separa, può essere libero di decidere cosa volere e, se del caso, dichiarare la propria non appartenenza al dato stabilito, confinandolo nell’immaginario.
Determinare è un'operazione tutta moderna, dicevamo, tutta civilizzata.
Distinguere significa innanzitutto rendere reale e utilizzare.
E' un'operazione dedita all'acquisizione di un unico potere: quello del controllo.
Per questo è conveniente, perché, fino a prova contraria questo è ciò che fa chi possiede, chi determina le qualità del possibile referente (e quindi, in ultima istanza, il suo grado di realtà oggettiva) per le proprie necessità soggettive.
Se io invento la parola “mano” determino un patto di reciprocità tra l'oggetto mano (arto), la mia mano (possesso) e la mia mano come un arto qualunque.
Stabilisco tre cose: oggettività, soggettività e possibilità o meno di possesso.
Le Tre Sedie di Kosuth parlano di questo:
La definizione, estratta da un vocabolario, del termine “sedia” (oggettivazione), la fotografia di una sedia (soggettivazione) e la sedia fisica (possibilità) sono, tutte assieme, un discorso sull'omologazione tautologica in cui i termini, diversamente formali, vantano del medesimo valore di realtà.
Più semplicemente è come dire, appunto, sono tre sedie.
Quello che però forse è ancora più intrigante è che con questo procedimento l'artista ha posto l'accento su un altro tipo discorso: in quale senso la sedia è reale?
Nell'unico modo possibile.
Nella sua, cioè, seppure eterogenea, definizione:
codice dialettico (oggettivo), rappresentazione formale (soggettivo) e presenza fisica (possibilità di possesso) che sia.
Ma arriviamo al dunque:
“Quando è buio si sta in casa” e il suo Autore.
Irriverente, sagace, caustica, crepuscolare ma anche profondamente “classica”, per quell'accezione, così intesa nel termine, che indica un alto controllo della resa formale di un'opera tale da “definire con essa generi e modelli”.
E ancora organica, fisiologica, razionale, visionaria...la poetica di Massimiliano Pelletti è tutto questo e anche di più.
Qualcosa di perennemente in fuga è presente in ognuno di questi lavori.
Un'entità di precipuo movimento anche quando, se interrotto, è abbandonato alla stasi di un nostalgico errare perduto (Broken Horse, 2009) o che dall'informe conduce alla consumazione stessa della forma (1522, 2010).
“Quando è buio si sta in casa” non è solo la mostra qui presentata, un insieme di oggetti , di cose, solo in parte sufficienti a raccontare della totale ed eterogenea (soprattutto nei termini linguistico - formali) produzione dell'artista: la mirabile perizia tecnica delle sculture in marmo, fedeli riproduzioni di organi interni (Untitled, “heart”, 2010 o Untitled, “stomach”, 2010), fusioni in bronzo di vecchi cappelli di lana resi vacuo sembiante d'orrore (fuori) e demonico smile (dentro), come due inesorabili facce della stessa medaglia (David headless, 2011) o quel moderno Vaso di Pandora la cui entrata divelta, qui dunque dal contenuto già liberato, è piantonata da sedicenti mosche-sentinelle (Untitled “Hole”, 2011)
E ancora: giocattoli scampati al tempo e condannati a una nuova vita di perpetua consumazione (Allo “Esso è” viene data una rappresentazione allucinata, 2011).
Tutto quanto è detto qui dall'artista riconduce a quell'operazione di cesura e congiunzione che da un lato determina e dall’altro non vuole determinare.
Stabilisce una presa di posizione forte nei confronti della caducità.
Lì dove la presunta evoluzione civilizzante relega i morti al di fuori della cerchia sociale, in un illusorio tentativo di scardinarne le qualità terrificanti, Pelletti ha il coraggio di annullare questa separazione e lo fa con una saggia ironia e una rara, sottile mestizia.
All'ombra della certezza di una fine ineluttabile, egli dice, la cosa più sensata da fare è “restare chiusi in casa”.
Ennesima provocazione o mero consiglio?
Non vale la pena scegliere ora una delle due possibilità.
A ognuno rimanga il compito, innanzitutto verso se stessi.
Qualcuno qui conosce bene cosa significa coraggio.
Per chi la pensa altrimenti non resterà che accontentarsi di vedere solo una bella mostra.
Oggetto e risultato della Creazione è quell'unico livello della realtà in cui non è più possibile separazione alcuna.
Qui ciò che è dato come origine (dato da simbolizzare) è al contempo anche il risultato finale (simbolo).
I due termini (simbolo e simbolizzato) dialogano tra loro in un'osmosi continuativa in cui quello che è, ossia la dimostrazione tangibile e simboleggiante, è al contempo anche la sua negazione (l'origine ri-definita e simbolizzata).
Questo tipo di realtà è diverso e qualitativamente superiore a quello inferiore, materialistico - funzionale, comunemente inteso.
È superiore poiché illimitato.
È necessaria materia degli artisti maturare il coraggio.
Poiché scegliere di non potere, seppure lascito di un principio di volontà, fa paura.
Ove cessa il controllo finisce l'arbitrio delle possibilità funzionali, lì dove “controllo” è retaggio pedagocigo dell’economia moderna.
Dove si colloca la linea di separazione tra la vita e la morte?
Cosa ci separa dalla morte?
Perché qualcosa lo fa, qualcosa relega diritti e doveri, strutture e modalità alla vita che alla morte non sembrano concesse e viceversa.
Qualcosa stabilisce, differenzia, separa.
L'uomo nel suo processo evolutivo ha sempre di più stabilito confini: tra sé e le cose del mondo, la natura, Dio...finanche i pensieri di un certo tipo, le emozioni.
Tutto è altro.
Perché?
Perché è così che la cosa diventa socialmente reale e, in ultima istanza, funzionale.
Qualsiasi cosa si definisce si dà oggettivamente al reale e soggettivamente all’immaginario; valevole quindi della possibilità (o meno) di essere posseduta, controllata.
In che senso è immaginaria?
Nella definizione stessa, in quel momento della separazione in cui il disgiunto diviene altro.
L'immaginario è quanto esterno, quanto alieno, non conosciuto, nel senso in cui è diverso da chi determina: è l'alterità assoluta, la cesura.
Niente di strano, dunque, nel pensare a quanto sforzo l'uomo abbia e stia dedicando al processo di definizione.
Esiste, in qualche maniera, una stretta connessione tra determinare e negare.
Chi separa, può essere libero di decidere cosa volere e, se del caso, dichiarare la propria non appartenenza al dato stabilito, confinandolo nell’immaginario.
Determinare è un'operazione tutta moderna, dicevamo, tutta civilizzata.
Distinguere significa innanzitutto rendere reale e utilizzare.
E' un'operazione dedita all'acquisizione di un unico potere: quello del controllo.
Per questo è conveniente, perché, fino a prova contraria questo è ciò che fa chi possiede, chi determina le qualità del possibile referente (e quindi, in ultima istanza, il suo grado di realtà oggettiva) per le proprie necessità soggettive.
Se io invento la parola “mano” determino un patto di reciprocità tra l'oggetto mano (arto), la mia mano (possesso) e la mia mano come un arto qualunque.
Stabilisco tre cose: oggettività, soggettività e possibilità o meno di possesso.
Le Tre Sedie di Kosuth parlano di questo:
La definizione, estratta da un vocabolario, del termine “sedia” (oggettivazione), la fotografia di una sedia (soggettivazione) e la sedia fisica (possibilità) sono, tutte assieme, un discorso sull'omologazione tautologica in cui i termini, diversamente formali, vantano del medesimo valore di realtà.
Più semplicemente è come dire, appunto, sono tre sedie.
Quello che però forse è ancora più intrigante è che con questo procedimento l'artista ha posto l'accento su un altro tipo discorso: in quale senso la sedia è reale?
Nell'unico modo possibile.
Nella sua, cioè, seppure eterogenea, definizione:
codice dialettico (oggettivo), rappresentazione formale (soggettivo) e presenza fisica (possibilità di possesso) che sia.
Ma arriviamo al dunque:
“Quando è buio si sta in casa” e il suo Autore.
Irriverente, sagace, caustica, crepuscolare ma anche profondamente “classica”, per quell'accezione, così intesa nel termine, che indica un alto controllo della resa formale di un'opera tale da “definire con essa generi e modelli”.
E ancora organica, fisiologica, razionale, visionaria...la poetica di Massimiliano Pelletti è tutto questo e anche di più.
Qualcosa di perennemente in fuga è presente in ognuno di questi lavori.
Un'entità di precipuo movimento anche quando, se interrotto, è abbandonato alla stasi di un nostalgico errare perduto (Broken Horse, 2009) o che dall'informe conduce alla consumazione stessa della forma (1522, 2010).
“Quando è buio si sta in casa” non è solo la mostra qui presentata, un insieme di oggetti , di cose, solo in parte sufficienti a raccontare della totale ed eterogenea (soprattutto nei termini linguistico - formali) produzione dell'artista: la mirabile perizia tecnica delle sculture in marmo, fedeli riproduzioni di organi interni (Untitled, “heart”, 2010 o Untitled, “stomach”, 2010), fusioni in bronzo di vecchi cappelli di lana resi vacuo sembiante d'orrore (fuori) e demonico smile (dentro), come due inesorabili facce della stessa medaglia (David headless, 2011) o quel moderno Vaso di Pandora la cui entrata divelta, qui dunque dal contenuto già liberato, è piantonata da sedicenti mosche-sentinelle (Untitled “Hole”, 2011)
E ancora: giocattoli scampati al tempo e condannati a una nuova vita di perpetua consumazione (Allo “Esso è” viene data una rappresentazione allucinata, 2011).
Tutto quanto è detto qui dall'artista riconduce a quell'operazione di cesura e congiunzione che da un lato determina e dall’altro non vuole determinare.
Stabilisce una presa di posizione forte nei confronti della caducità.
Lì dove la presunta evoluzione civilizzante relega i morti al di fuori della cerchia sociale, in un illusorio tentativo di scardinarne le qualità terrificanti, Pelletti ha il coraggio di annullare questa separazione e lo fa con una saggia ironia e una rara, sottile mestizia.
All'ombra della certezza di una fine ineluttabile, egli dice, la cosa più sensata da fare è “restare chiusi in casa”.
Ennesima provocazione o mero consiglio?
Non vale la pena scegliere ora una delle due possibilità.
A ognuno rimanga il compito, innanzitutto verso se stessi.
Qualcuno qui conosce bene cosa significa coraggio.
Per chi la pensa altrimenti non resterà che accontentarsi di vedere solo una bella mostra.
02
aprile 2011
Massimiliano Pelletti – Quando è buio si sta in casa
Dal 02 al 27 aprile 2011
arte contemporanea
Location
BT’F ART GALLERY
Bologna, Via Castiglione, 35, (Bologna)
Bologna, Via Castiglione, 35, (Bologna)
Orario di apertura
da lun a ven ore 16:00-19:00 o su appuntamento
Vernissage
2 Aprile 2011, Ore 19:30
Autore
Curatore