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Massimo Corona / Federico Romero Bayter – Carte dipinte
Saper disegnare non significa soltanto padroneggiare gli strumenti tecnici della disciplina – avere una buona mano, come si suol dire. E al bel disegno non occorre sempre di necessità la corretta esecuzione. Come c’insegna Paul Valery nel suo libretto intorno agli studi di Edgar Degas, il saper disegnare è in prima istanza un saper vedere.
Comunicato stampa
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PITTORI DI CARTE
Il disegno non è la forma, è il modo di vedere la forma
Paul Valéry, Degas danse dessin
Saper disegnare non significa soltanto padroneggiare gli strumenti tecnici della disciplina – avere una buona mano,
come si suol dire. E al bel disegno non occorre sempre di necessità la corretta esecuzione. Come c’insegna Paul Valery
nel suo libretto intorno agli studi di Edgar Degas, il saper disegnare è in prima istanza un saper vedere. L’occhio del
disegnatore e del pittore, diversamente dall’occhio di chi guarda l’innanzitutto e il per lo più del visibile quotidiano, è in
grado, per innata capacità ed esperienza, di astrarre quelle proprietà della visione – colore, forma, luce – come
staccandole dalle cose cui “appertengono” e tributandone l’intima essenza in quanto presenze singolari nell’arredo
costitutivo del mondo.
E’ un po’ come lo stupore filosofico che ci sia qualcosa piuttosto che nulla. Solo che chi disegna e dipinge, diversamente
da Platone e Heidegger, predilige un mezzo espressivo “altro” – ma non alternativo! – rispetto alla parola. Una visione in
certo senso “derealizzante”, quella di chi disegna e dipinge, che per questa sua capacità di prescindere dal
luogocomunismo dello sguardo, si avvicina sensibilmente a quella intravisione noetica che consiste nel metter fra
parentesi il mondo cogliendo l’intima essenza dei fenomeni. Capacità di volgersi alla datità sensibile del visibile che in fin
del conto è la stessa che i filosofi formatisi sui libri di Edmund Husserl acquisiscono compulsandone le sudate carte.
E la via maestra all’essenza delle cose è il disegno, che ne trasmette il “nocciolo” in una maniera più diretta rispetto alla
pittura.
Nelle carte di Federico Romero Bayter, per il quale il dipingere e il disegnare, pur nei rispettivi cambiamenti di luce e
materia, sono attività equivalenti, è forse evidente più che mai il potere d’astrazione della presenza singolare da quello
che abbiamo chiamato l’arredo costitutivo del mondo. I suoi disegni nascono su un quadernetto, il taccuino di viaggio di
Romero Bayter. E successivamente passano alla carta, carta a mano di pregio. Codesti dibujos sono frammenti di visioni
occasionati da una ricerca intrinsecamente legata alla realtà e supportata da una fantasia molto disciplinata, che
lasciano trapelare non solo un tributo a ciò-che-vi-è nel mondo, ma un’intensa fascinazione per il visibile governata da un
saper cogliere l’intima essenza delle cose di un campo visivo in certo senso privato: i suoi porti e le sue stazioni, luoghi
dell’anima di un pittore figurativo che condivide coi propri mentori – Barcelò, Picasso, López Garcia – una cultura
fortemente legata alla realtà ma nello stesso tempo aliena dal pericolo pressante di un iperrelaismo ingenuo.
Si vedano opere come Estudio de Puerto, Atardecer Venciano, Hangar, Partenza, che catturano quell’intuizione estetica
del visibile rendendone partecipi noi osservatori, anche se non siamo mai stati all’interno di un hangar portuale. E vicine,
sia pure secondo un percorso creativo autonomo e indipendente, a quel controcanto al figurativo che impronta di sè le
carte di Massimo Corona, condividendone le recondite armonie anche in virtù di quella perdita di controllo del mezzo
espressivo - che nel caso di Bayter consiste nell’esporre l’opera all’accidente della pioggia -, facendo affiorare in
superficie quelle macchie che, solitamente associate all’accezione deteriore del termine (sporco, onta), assurgono in
questo caso al loro massimo splendore di fatto estetico.
Estudio de Puerto e Atardecer Venciano ad esempio, eseguiti con segni incisivi e nervosi, sono disegni carichi di una
speciale inflessione espressiva proclive alla monumentalità, dove le macchie di colore si distribuiscono per accidens in
un combinato disposto di talento e casualità.
«Disegnare è trasferire le idee dalla mente sulla carta mediante linee...Fare macchie significa tracciare sulla carta con
l’inchiostro chiazze e masse, in modo da ottenere forme accidentali prive di linee, che suggeriscono idee alla
mente...Disegnare è delineare le forme, fare macchie è suggerirle»1. Così il paesaggista inglese Alexander Cozens in
pieno XVIII secolo elevava la macchia a tecnica pittorica, il cosiddetto blotting, «metodo meccanico sufficientemente
rapido ed essenziale per tirar fuori le idee da una mente geniale portata all’arte del disegno». Tecnica che consisteva nel
fermar sulla carta le forme essenziali di un paesaggio, come fosse intravisto nel suo insieme e poi, come si suol dire,
“tirar le somme”. Esempio preclaro di quella che potremmo inquadrare nella categoria della macchia controllata, essenza
del fatto estetico secondo Benedetto Croce, contraltare a quella macchia non controllata di cui c’informa Plinio il Vecchio
nella sua Naturalis Historia, dove il pittore greco Protogene, esasperato dagl’inconcludenti tentativi di ottenere l’aspetto
schiumoso della bava d’un cane, anzichè “gettare la spugna” come quando si rinuncia a un’impresa, la gettò intestardito
contro il dipinto, colpendolo nel punto esatto in cui desiderava ottenere l’effetto pittorico tanto ricercato.
Magma ottico surdeterminato in forma e colore, volta a volta occasionato da necessità e casualità come nei rimandi
esplicativi testè illustrati, la macchia assurge nelle carte di Massimo Corona all’identificazione col soggetto dell’opera.
L’ultima produzione del dipintore biellese rappresenta infatti un controcanto al figurativo ed è caratterizzata da una
precarietà per dir così ontologica del pennello: in queste opere improntate a un silente erotismo il soggetto è macchia e
l’opera nasce e si sviluppa attraverso sedimenti primari di colore e successivi interventi, mentre le forme traggono origine
dal naturale sedimentarsi del pigmento.
Si veda la serie denominata Uno più nove, nata come per partenogenesi dal combinato disposto di un intervento di
costruzione e nove di decostruzione, dove il primo strato di colore definisce il soggetto che, attraverso l’azione
“distruttiva” di interventi successivi, progressivamente si assoggetta alla macchia estinguendosi in essa. Come fluttuando
nell’elemento acquoreo suggerito da quelle notevoli alonature, nimbi maculati originati dal caso e dalla necessità. Infatti
la perdita di controllo della macchia, per riprendere le categorie di cui sopra e richiamare alla mente quella cifra stilistica
che impronta di sè anche il modo di procedere di Federico Romero Bayter, è solo il terminus post quem di un processo
creativo che parte da una realizzazione controllata della macchia. Anche Massimo Corona depriva l’opera di materia
colorata, talvolta servendosi di una spugna, in modo da “movimentare” il pigmento e consentirne l’assorbimento sulla
carta. Ma il controllo della macchia è solo il terminus ad quem, il limite entro il quale l’opera prende forma, essendo il
deposito del pigmento in tutto e per tutto un processo naturale che estrude l’intervento umano. E proprio quella macchia
priva di controllo viene ad essere in definitiva la più importante, l’essenza del fatto estetico di cui parlava Benedetto
Croce e di cui forse qui Massimo Corona ci fornisce qui l’esempio illuminante, elemento primario dell’opera compiuta,
misteriosa e spirituale, dove il soggetto è surdeterminato dalla macchia e i piani governati da quell’oro che instaura con
essa una sorta di rapporto dialettico, a volte fermandola sul limitare del soggetto come in Eros II disciplinandone con
forza tranquilla i piani, altre sbalzandoli con forte intensità, come in Notte insonne, dove il soggetto sembra passare
attraverso un corridoio luminoso avanzando fisicamente verso l’osservatore.
Stili e soggetti differenti, questi di Bayter e Corona, che si armonizzano però, oltre ovviamente nell’uso del medesimo
supporto, nella comune esortazione a educare alla visione, concedendosi a quella fascinazione per il visibile – colori,
forme, luce – che noi comuni mortali assai pigri, nè disegnatori nè dipintori, fatichiamo a esercitare.
Emanuele Beluffi
1. Alexander Cozens, A New Method of Assisting the Invention in Drawing Original Compositions of Landscape, London, Paddington
Press, 1977
Il disegno non è la forma, è il modo di vedere la forma
Paul Valéry, Degas danse dessin
Saper disegnare non significa soltanto padroneggiare gli strumenti tecnici della disciplina – avere una buona mano,
come si suol dire. E al bel disegno non occorre sempre di necessità la corretta esecuzione. Come c’insegna Paul Valery
nel suo libretto intorno agli studi di Edgar Degas, il saper disegnare è in prima istanza un saper vedere. L’occhio del
disegnatore e del pittore, diversamente dall’occhio di chi guarda l’innanzitutto e il per lo più del visibile quotidiano, è in
grado, per innata capacità ed esperienza, di astrarre quelle proprietà della visione – colore, forma, luce – come
staccandole dalle cose cui “appertengono” e tributandone l’intima essenza in quanto presenze singolari nell’arredo
costitutivo del mondo.
E’ un po’ come lo stupore filosofico che ci sia qualcosa piuttosto che nulla. Solo che chi disegna e dipinge, diversamente
da Platone e Heidegger, predilige un mezzo espressivo “altro” – ma non alternativo! – rispetto alla parola. Una visione in
certo senso “derealizzante”, quella di chi disegna e dipinge, che per questa sua capacità di prescindere dal
luogocomunismo dello sguardo, si avvicina sensibilmente a quella intravisione noetica che consiste nel metter fra
parentesi il mondo cogliendo l’intima essenza dei fenomeni. Capacità di volgersi alla datità sensibile del visibile che in fin
del conto è la stessa che i filosofi formatisi sui libri di Edmund Husserl acquisiscono compulsandone le sudate carte.
E la via maestra all’essenza delle cose è il disegno, che ne trasmette il “nocciolo” in una maniera più diretta rispetto alla
pittura.
Nelle carte di Federico Romero Bayter, per il quale il dipingere e il disegnare, pur nei rispettivi cambiamenti di luce e
materia, sono attività equivalenti, è forse evidente più che mai il potere d’astrazione della presenza singolare da quello
che abbiamo chiamato l’arredo costitutivo del mondo. I suoi disegni nascono su un quadernetto, il taccuino di viaggio di
Romero Bayter. E successivamente passano alla carta, carta a mano di pregio. Codesti dibujos sono frammenti di visioni
occasionati da una ricerca intrinsecamente legata alla realtà e supportata da una fantasia molto disciplinata, che
lasciano trapelare non solo un tributo a ciò-che-vi-è nel mondo, ma un’intensa fascinazione per il visibile governata da un
saper cogliere l’intima essenza delle cose di un campo visivo in certo senso privato: i suoi porti e le sue stazioni, luoghi
dell’anima di un pittore figurativo che condivide coi propri mentori – Barcelò, Picasso, López Garcia – una cultura
fortemente legata alla realtà ma nello stesso tempo aliena dal pericolo pressante di un iperrelaismo ingenuo.
Si vedano opere come Estudio de Puerto, Atardecer Venciano, Hangar, Partenza, che catturano quell’intuizione estetica
del visibile rendendone partecipi noi osservatori, anche se non siamo mai stati all’interno di un hangar portuale. E vicine,
sia pure secondo un percorso creativo autonomo e indipendente, a quel controcanto al figurativo che impronta di sè le
carte di Massimo Corona, condividendone le recondite armonie anche in virtù di quella perdita di controllo del mezzo
espressivo - che nel caso di Bayter consiste nell’esporre l’opera all’accidente della pioggia -, facendo affiorare in
superficie quelle macchie che, solitamente associate all’accezione deteriore del termine (sporco, onta), assurgono in
questo caso al loro massimo splendore di fatto estetico.
Estudio de Puerto e Atardecer Venciano ad esempio, eseguiti con segni incisivi e nervosi, sono disegni carichi di una
speciale inflessione espressiva proclive alla monumentalità, dove le macchie di colore si distribuiscono per accidens in
un combinato disposto di talento e casualità.
«Disegnare è trasferire le idee dalla mente sulla carta mediante linee...Fare macchie significa tracciare sulla carta con
l’inchiostro chiazze e masse, in modo da ottenere forme accidentali prive di linee, che suggeriscono idee alla
mente...Disegnare è delineare le forme, fare macchie è suggerirle»1. Così il paesaggista inglese Alexander Cozens in
pieno XVIII secolo elevava la macchia a tecnica pittorica, il cosiddetto blotting, «metodo meccanico sufficientemente
rapido ed essenziale per tirar fuori le idee da una mente geniale portata all’arte del disegno». Tecnica che consisteva nel
fermar sulla carta le forme essenziali di un paesaggio, come fosse intravisto nel suo insieme e poi, come si suol dire,
“tirar le somme”. Esempio preclaro di quella che potremmo inquadrare nella categoria della macchia controllata, essenza
del fatto estetico secondo Benedetto Croce, contraltare a quella macchia non controllata di cui c’informa Plinio il Vecchio
nella sua Naturalis Historia, dove il pittore greco Protogene, esasperato dagl’inconcludenti tentativi di ottenere l’aspetto
schiumoso della bava d’un cane, anzichè “gettare la spugna” come quando si rinuncia a un’impresa, la gettò intestardito
contro il dipinto, colpendolo nel punto esatto in cui desiderava ottenere l’effetto pittorico tanto ricercato.
Magma ottico surdeterminato in forma e colore, volta a volta occasionato da necessità e casualità come nei rimandi
esplicativi testè illustrati, la macchia assurge nelle carte di Massimo Corona all’identificazione col soggetto dell’opera.
L’ultima produzione del dipintore biellese rappresenta infatti un controcanto al figurativo ed è caratterizzata da una
precarietà per dir così ontologica del pennello: in queste opere improntate a un silente erotismo il soggetto è macchia e
l’opera nasce e si sviluppa attraverso sedimenti primari di colore e successivi interventi, mentre le forme traggono origine
dal naturale sedimentarsi del pigmento.
Si veda la serie denominata Uno più nove, nata come per partenogenesi dal combinato disposto di un intervento di
costruzione e nove di decostruzione, dove il primo strato di colore definisce il soggetto che, attraverso l’azione
“distruttiva” di interventi successivi, progressivamente si assoggetta alla macchia estinguendosi in essa. Come fluttuando
nell’elemento acquoreo suggerito da quelle notevoli alonature, nimbi maculati originati dal caso e dalla necessità. Infatti
la perdita di controllo della macchia, per riprendere le categorie di cui sopra e richiamare alla mente quella cifra stilistica
che impronta di sè anche il modo di procedere di Federico Romero Bayter, è solo il terminus post quem di un processo
creativo che parte da una realizzazione controllata della macchia. Anche Massimo Corona depriva l’opera di materia
colorata, talvolta servendosi di una spugna, in modo da “movimentare” il pigmento e consentirne l’assorbimento sulla
carta. Ma il controllo della macchia è solo il terminus ad quem, il limite entro il quale l’opera prende forma, essendo il
deposito del pigmento in tutto e per tutto un processo naturale che estrude l’intervento umano. E proprio quella macchia
priva di controllo viene ad essere in definitiva la più importante, l’essenza del fatto estetico di cui parlava Benedetto
Croce e di cui forse qui Massimo Corona ci fornisce qui l’esempio illuminante, elemento primario dell’opera compiuta,
misteriosa e spirituale, dove il soggetto è surdeterminato dalla macchia e i piani governati da quell’oro che instaura con
essa una sorta di rapporto dialettico, a volte fermandola sul limitare del soggetto come in Eros II disciplinandone con
forza tranquilla i piani, altre sbalzandoli con forte intensità, come in Notte insonne, dove il soggetto sembra passare
attraverso un corridoio luminoso avanzando fisicamente verso l’osservatore.
Stili e soggetti differenti, questi di Bayter e Corona, che si armonizzano però, oltre ovviamente nell’uso del medesimo
supporto, nella comune esortazione a educare alla visione, concedendosi a quella fascinazione per il visibile – colori,
forme, luce – che noi comuni mortali assai pigri, nè disegnatori nè dipintori, fatichiamo a esercitare.
Emanuele Beluffi
1. Alexander Cozens, A New Method of Assisting the Invention in Drawing Original Compositions of Landscape, London, Paddington
Press, 1977
19
maggio 2010
Massimo Corona / Federico Romero Bayter – Carte dipinte
Dal 19 maggio al 19 giugno 2010
arte contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
GALLERIA BIANCA MARIA RIZZI
Milano, Via Molino Delle Armi, 3, (Milano)
Milano, Via Molino Delle Armi, 3, (Milano)
Orario di apertura
da Martedì a venerdì 15-19.30
Mercoledì 13-19.30
Sabato 11-13 e 15-19.30 Lunedì e al mattino su appuntamento
Vernissage
19 Maggio 2010, dalle 18 alle 21
Autore
Curatore