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Massimo Giannoni – L’Aleph
Per l’evento di Mantova, l’artista propone circa 40 opere olio su tela di grandi e medie dimensioni, tutti lavori che declinano appieno i tratti fondamentali della ricerca artistica coltivata negli ultimi 15 anni
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Massimo Giannoni. L'Aleph
a cura di Alberto Agazzani
inaugurazione sabato 3 settembre alle ore 18.00
Palazzo della Ragione – Mantova
dal 3 settembre al 2 ottobre 2011
COMUNICATO STAMPA
Si inaugura il 3 settembre 2011 alle ore 18.00 nei prestigiosi spazi del Palazzo della Ragione
di Mantova, la personale dell’artista Massimo Giannoni dal titolo L’Aleph, progettata e curata
da Alberto Agazzani.
La mostra organizzata dalla Galleria Russo, con la collaborazione e la partecipazione del
Comune di Mantova è inserita fra gli eventi organizzati in occasione della XV edizione
del Festivaletteratura (7-11 settembre 2011): un appuntamento culturale conosciuto e
apprezzato sia in Italia e che in Europa durante il quale vengono presentati in luoghi di forte
valenza storico-artistica incontri tra pubblico e autori, letture, performances.
Questa importante manifestazione si presta perfettamente a far da cornice e ad accogliere
l’antologica di Massimo Giannoni, il cui titolo “ispirato all’Aleph di Borges - spiega il curatore
– collega il tema delle biblioteche di Massimo Giannoni al Festivaletteratura attraverso
l’invenzione della parola che si fa suono che si fa messa in scena del ricordo, parola che si fa
immagine e come tale diviene mezzo per scandagliare il mondo”.
Per l’evento di Mantova, l’artista propone circa 40 opere olio su tela di grandi e medie
dimensioni, tutti lavori che declinano appieno i tratti fondamentali della ricerca artistica
coltivata negli ultimi 15 anni.
Massimo Giannoni è il primo fra gli artisti italiani a scegliere come soggetto librerie e
biblioteche storiche che raffigurano e simboleggiano il sapere contenuto in modo stabile in
libri e scaffali.
“Quando mi sono trovato davanti agli occhi per la prima volta una grande biblioteca dipinta
da Massimo Giannoni,[…] in un attimo, seguito a quello fuggente del primario stupore, mi son
chiesto: chissà in che nuova meraviglia si trasformerà questa fresca memoria sospesa quando
s’arricchirà della polvere, della “sua” personale memoria?”. Questo è uno dei quesiti che si
pone il curatore della mostra Alberto Agazzani quando si interroga sull’artista.
Memoria e trasformazione, fissità e luce, sospensione e trascorrere del tempo, aspetti che
non generano contraddizione ma che rendono unica l’espressione artistica di Giannoni.
E se nell’Aleph vi è la messa in scena della parola, che cambia in continuazione e che con
il suo potere evocativo è strumento della ricerca, così sulle tele di Massimo Giannoni “la
materia, il grumo di colore che cresce e s’increspa sulla tela, il gesto rapido di una spatolata
grassa e spessa sono in pittura qualcosa di più di un espediente tecnico, di un “effetto
speciale” per esplorare la profondità di un’immagine”.
La visione ravvicinata e attenta dei suoi dipinti trasforma il soggetto raffigurato in un magma
materico e spesso di pittura ad olio, al limite dell’astratto. Nel contempo “una tecnica
materica e informale nel particolare ma dettagliatissima nel generale”.
Nei lavori di Giannoni vi è sempre un’iconografia riconoscibile: è la distanza nella fruizione
dell’opera a fare la differenza. Un gioco che non è ottico ma sostanziale; la realtà dunque è
sublimata, mai statica, muta col tempo, con la polvere che si deposita sul colore addensato,
con la luce che genera nuove prospettive: “Sui grumi e sulle grasse spatolate di colore che col
tempo, asciugandosi, si modificano, su questo divenire continuo s’increspa il divenire continuo
della luce, sempre mutevole, mai uguale a se stessa e così rivelatrice di ogni singolo segno
lasciato dall’uomo e arricchito da Cronos”.
Autore di opere di grande impatto e formato, Giannoni si pone come artista della tradizione
ma anche come osservatore della contemporaneità. La sua opera mette d’accordo chi ama
la pittura di figura e quella informale, la storia e la cronaca, il passaggio del tempo e il suo
permanere. Potremmo definire l’opera di Giannoni come una cerniera che collega la pittura di
storia all’attualità.
La mostra è accompagnata dall’elegante catalogo in italiano e inglese edito da Palombi Editori
(Roma) con interventi di Alberto Agazzani e Fabio Isman. Nel gennaio 2012 una seconda
antologica dell’artista sarà ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
MASSIMO GIANNONI. L’ALEPH
Progetto e cura di Alberto Agazzani
con la collaborazione e la partecipazione del Comune di Mantova
Inaugurazione sabato 3 settembre, ore 18.00
Mantova, Palazzo della Ragione
Fino al 2 ottobre
Catalogo Palombi Editori, Roma
Ingresso gratuito
Orari e apertura: 10.00 – 13.00; 16.00 - 19.00 dal martedì a domenica. Chiuso il lunedì
Per informazioni: Assessorato alla Cultura del Comune di Mantova - tel. 0376 338645
Organizzazione Segreteria mostra
Galleria Russo tel. 06 6789949, 06 69920692, info@galleriarusso.com, www.galleriarusso.com
Ufficio stampa Arteefatti
Barbara Dicorato, 340 7704969, www.arteefatti.com, barbaradicorato@arteefatti.com,
L'infinito nel particolare
“L'Aleph?” ripetei.
“Si il luogo dove si trovano,senza
L'Aleph, J.L.Borges
Ci si è lungamente interrogati, nel corso dei tanti secoli che pesano
sulla storia della nostra civiltà, sul significato e sull'essenza della
pittura.
Leonardo la definì “cosa mentale”, Picasso “quel qualcosa che sta fra la
tela ed il colore”. Oltre ai due grandi geni dell'arte di ogni tempo,
un'infinita schiera di artisti e teorici hanno cercato la chiave di volta
di quel mistero, quell'Aleph visivo, che tutt'oggi rimane ben lungi
dall'essere svelato.
La consonanza del tutto particolare che lega l'opera pittorica di Massimo
Giannoni all'invenzione borgesiana oggetto di quest'indagine è tutt'altro
che riferibile ad un'occasione, l'importante Festival Letteratura
mantovano, o al fatto che egli prediliga come soggetto della propria
espressività immensi spazi che raccolgono libri, ma riguarda la natura
intima ed il significato che la pratica della pittura assume per il suo
autore e, ancor più, il rapporto dello spettatore con le sue invenzioni
dipinte.
Parafrasando Borges, anche tutta la pittura si può intendere come “uno
specchio d'inchiostro”, nel caso specifico “uno specchio di colori”; la
pittura è creazione continua, rappresentazione di realtà invisibili,
inesistenti, impossibili e perciò portatrice di infinite suggestioni che
trascendono, sublimano e trasfigurano la realtà stessa.
È un'invenzione senza fine che si crea misteriosamente, lontano da
qualunque dimensione reale propriamente detta.
La prova più certa di questo sta nelle parole di Giannoni stesso, quando
dichiara: “La solitudine dello studio mi chiude in un'atmosfera ovattata
che spinge fuori dal tempo reale; a volte mi stupisco per quello che
ho fatto in un tempo relativamente breve, altre invece sono sorpreso
di aver passato ore ad arricciare, grattare e rileccare con la spatola
un solo grumo di colore. Tutto ciò appartiene ad una realtà fuori dal
comune, fuori dalla produttività quotidiana, eppure conserva la stessa
motivazione per la quale qualcuno molto tempo fa decise di impressionare
delle scene di caccia sulla parete di una grotta, chissà per quale motivo
lui e non altri”2 (i corsivi sono miei).
Quest'affermazione, così intrisa di un improbabile senso d'”altrove”, di
altrimenti impossibile sospensione dalla realtà, di relativismo spazio-
temporale, racconta molto del mistero della pittura e dell'invenzione.
In particolare il soffermarsi sul “grumo di colore”, quella particella
elementare della pittura di Giannoni così fondamentale, ha un ché di
straordinariamente borgesiano. E' in quella sospensione spazio-temporale,
in quel luogo silenzioso, segreto e magico che è lo studio del pittore,
attraverso proprio quel “grumo di colore” che la magia dell'Aleph si
ritrova e rinnova. Cos'è per Giannoni un “grumo di colore” se non “uno
dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”? La pittura di
1 Borges, Jorge Luis, L'Aleph, in “L'Aleph”, tr. it. di Francesco Tentori Montalto, Adelphi, Milano 1998.
2 Giannoni, Massimo, in Massimo Giannoni, Galleria Rubin, Milano 2007.
Giannoni è una pittura grumosa, infinita e informe nel particolare,
quindi portatrice di ogni forma e immagine, eppure così fortemente
evocativa, figurale, finanche dettagliatissima nel suo (in)finito
insieme. Così come la letteratura per Borges, la pittura per Giannoni,
nel suo costante divenire, assume le dimensioni di un'invenzione
senza fine, di un'inesausta messa in scena della realtà, possibile ma
impossibile, reale eppure irreale, infinita nonostante sia contenuta
nelle due dimensioni di una “pagina” di tela. Ed in questo assume proprio
un significato non secondario la scelta del pittore (o viceversa: che
non sia stato il soggetto a scegliere il suo ritrattista?), compiuta
in tempi non sospetti, cioè di riconoscere come soggetto privilegiato
della propria invenzione espressiva proprio le biblioteche, “il luogo
dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti
da tutti gli angoli”, teatri della finzione per eccellenza, nei quali
milioni di vicende, storie, immagini, paesaggi, personaggi silenziosi
attendono un lettore per far risuonare nuovamente le loro voci, battere i
propri cuori, brillare i propri colori: labirinti attraversando i quali
ognuno ritrova brandelli di se stesso, ne scopre di nuovi e inattesi,
riflettendosi nello specchio infinito dell'invenzione.
Come analizzato in seguito, ogni dipinto di Giannoni contiene un
labirinto, un labirinto di specchi. La stessa costante mutevolezza
della sua materia pittorica è uno specchio, davanti al quale riscoprire
sempre nuovi frammenti di un infinito impossibile da possedere nella sua
interezza.
Il grumo come l'Aleph di Carlos Argentino: un punto incredibile ed
inconcepibile nella realtà del quotidiano, ma che in sé contiene un
intero universo, la storia, le infinite storie che nascono, crescono e
vivono dentro di noi. Tutt'altro, dunque, dalla semplice rappresentazione
della realtà, ma piuttosto il suo tradimento, la sua sublimazione e
trasfigurazione, la sua invenzione appunto.
La realtà, così come imprigionata impietosamente da un obiettivo
fotografico, attraverso il gesto del dipingere assume in Giannoni una
varietà ancora, nuovamente altrimenti impossibile. Il medesimo luogo,
la stessa biblioteca nel caso specifico, viene creata e reinventata in
infinite forme e varietà, come la casa di Asterione: “Tutte le parti
della casa esistono molte volte, qualunque luogo di essa è un altro
luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, un abbeveratoio, una
greppia; sono quattordici [sono infinite] le greppie, gli abbeveratoi, i
cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. (…) Tutto esiste
molte volte, quattordici volte; soltanto due cose al mondo sembrano
esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione.
Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me
ne ricordo”3.
“Tutto esiste molte volte”, infinite quante le vite, infinite quante
le sensazioni che vivono in infiniti spettatori, capaci, anche a loro
insaputa, di creare, anche da un semplice grumo/Aleph, il mondo,
cioè “tutto quello che accade”4, come direbbe Wittgenstein. Il quale
avrebbe concluso: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”5.
Ma non dipingere, creare, osservare.
3 Borges, Jorge Luis, La casa di Asterione, in op. cit.
4 Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it. di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1964.
5 Ibid.
“Pochi soggetti? Meglio così” di FABIO ISMAN
Esistono almeno tre buoni motivi, e altrettante “chiavi”, per raccontare ed indagare la pittura
di Massimo Giannoni (Empoli, 1954). Uno è strettamente personale, quasi privato, e perciò non
pretendo che troppi lo condividano; il secondo, più ampio e vasto, riguarda la qualità e i temi della
sua produzione; e l’ultimo, di stampo ancor più generale, la riconoscibilità dell’artista, e, specie nei
pittori astratti (anche se questo non è certo il caso), il “segno”. Cominciamo dalle confessioni. Io
amo i libri. E ne ho bisogno. Li leggo; li medito; li consulto; li uso. Senza che lo volessi, e neppur
lontanamente lo immaginassi, mi è forse capitata in eredità un po’ della quasi proverbiale acribia di
uno scrittore e giornalista assai più bravo ed affermato di me, che è stato anche un (buon) ministro
dei Beni culturali, l’indimenticato Alberto Ronchey. Non sopporto una data errata; in una citazione,
non tollero una parola fuori posto. Se leggendole mi fanno pressoché infuriare, non avendole rilette,
o verificate, mi gettano addosso un immane carico di vergogna. Amo i libri, ne ho bisogno. Quindi,
le biblioteche sono tra i miei “pallini”. Ne ho perfino costruita una al piano terreno dell’edificio
in cui abito, a Roma: un locale dismesso, che ho inzeppato di scaffali da cielo a terra, e dotato di
un deumidificatore automatico; per accertare una data, sono anche capace di cinque piani a piedi
(non c’è un ascensore), metà a scendere e metà a salire. Per cui, quando grazie a Fabrizio Russo ho
incontrato un artista che dipinge biblioteche e librerie, mi sono sentito a casa (anzi, a pian terreno).
Mi sono balzati alla mente Leggere nuoce gravemente alla salute e Il morbo di Gutenberg
(ed. L’Ancora), bellissimi e istruttivi libriccini di Mauro Giancaspro, persona acuta che da 16 anni
dirige la Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III al Palazzo Reale di Napoli, e non bada soltanto
ai suoi quasi due milioni di volumi: può anche percorrere un terrazzone che guarda sul mare e dove
l’unico Vittorio Emanuele di Savoia senza un numero dopo il nome (perché spetta unicamente a chi
diventi re), si esercitava sul triciclo. Poi, Giannoni ne dipinge anche qualcuna che non esiste più, e
dove io magari spendevo, quando vi capitavo, larghi squarci delle giornate: questa non è la Seeber
di via Tornabuoni 70 a Firenze, nata nel 1861 e cara a Croce e Ungaretti, a Montale, Vittorini e Luzi
(dopo 150 anni di vita nobilissima, non c’è più: si chiama Max Mara, e vi si fa tutt’altro), con il suo
tavolone e le luci, proprio vicino ai panini tartufati migliori del mondo, che sono quelli di Procacci?
Mi diverte assai che nei dipinti di Giannoni non si riconoscano, non s’identifichino, i titoli dei libri;
ma che io, a terra o nei suoi scaffali, dove i volumi sono allineati e mostrano soltanto la costola, la
prima volta credessi di riconoscere proprio i miei: nell’ordine, o disordine, in cui li tengo e in cui
sono. Il quadro era accanto ai Balla e Boccioni, ai Paladino e Afro, in una Biennale d’antiquariato a
Palazzo Venezia; era tanto evocativo, figurativo, originale, che non stonava affatto: vi erano dipinte,
per traslato, saggezza e cultura. Le biblioteche di Giannoni sono paesaggi umani, anche se prive di
figure. E le sue librerie non sono sempre solenni (ma talora, sì), e mai ordinate; ma nemmeno mai
disordinate, o arruffate: vi dominano, comunque, un assetto, un criterio, un “sistema”. Che sia lo
specchio di quell’ordine interiore, sempre, eternamente e soltanto da ciascuno ambito?
Ma veniamo al motivo numero due: la produzione di Giannoni. Biblioteche e librerie, ma
non solo. Tuttavia, nemmeno troppo di più: non ci sono nessun guazzabuglio, e nessuna confusione.
Dipinge anche la Borsa (di solito, quella di New York; talora, quella di Tokio) e qualche panorama:
Parigi; la Roma degli angoli prospettici migliori, oppure dei tetti; ancora Manhattan. Però, con una
differenza sostanziale: che se per ritrarre le librerie e le biblioteche l’artista si pone generalmente
nel punto di vista dello spettatore, dipinge “ad alzo zero” e quasi con una prospettiva antica, le città
e i suoi templi moderni li vede invece a volo d’uccello, assai più dall’alto, talora quasi dallo zenith.
Si immedesima, quando eterna le cattedrali del sapere; ma prende le distanze dal formicolio umano,
e da quello urbanistico, che contraddistingue il resto. Ritorna ad altezza d’uomo solo quando vuole
immortalare il Muro del Pianto di Gerusalemme. Insomma, ripartisce le sue costruzioni religioso-
pittoriche in due: quelle dei libri, in cui si può (e forse si deve) vivere; e quelle che invece è più
opportuno osservare da più lunga distanza, senza “esserne dentro”, tenendosene lontani. Magari, in
una posizione più elevata: stando (perché lì stiamo, non è vero?) più in alto di loro. Una maniera per
dichiararsi superiori? Chi lo sa. Ho provato a chiederglielo; ma non mi ha dato risposte convincenti:
penso che lo faccia per istinto, perché gli viene così; forse, non se ne è nemmeno mai domandato la
motivazione.
Mi ha raccontato quali artisti ama: da Angelico a Zurbaran, da Caravaggio a Rembrandt; ma
anche i contemporanei come Gerhard Richter («usa gli spatoloni; lo faccio anch’io per i quadri delle
Borse: mi danno il senso di una pittura faticata»), Fabrizio Plessi, che realizza videoinstallazioni, o i
video di Bill Viola, che tra un biennio sarà forse nel primo padiglione del Vaticano alla Biennale di
Venezia, i Cretti e i Sacchi di Alberto Burri, le composizioni informali (per lui, che informale non è
di certo: sarà forse per l’ordinatissimo disordine?) di Jackson Pollock. Mi ha spiegato che nel secolo
scorso, ce ne sono tre da ricordare: Picasso, Duchamp, Klee; e lui si riconosce nella discendenza dal
primo. Mi ha declinato le tappe della sua esistenza, alquanto raminga prima di ritornare in Toscana
e stabilirsi a Firenze, Oltrarno: l’Australia e New York, dove si è dedicato ad acquerelli giganti e
del tutto astratti, ed eseguiva tanti ritratti. «Se la cultura del libro è finita? Non credo; lo si pensava
cinque o sei anni fa: c’era più allarmismo, come sempre di fronte alle novità». Ha ammesso che «gli
astratti innovativi sono pochi», ed ha sgranato gli occhi spiegando che «in Rembrandt non capisci
come escano i quadri: sono un mistero». Ha dipinto da sempre, fin da bambino: «Il primo quadro è
stata la prospettiva di un paesino, visto da un campanile, su compensato; frequentavo la I media, e
l’ho ancora». Ha una pittura molto materica, uno spessore di colore ad olio che misura anche sei o
sette centimetri, certe costole di suoi libri sono a rilievo; ma spesso, sulla tela di lino naturale, lascia
dei vuoti, perché ne affiori il fondo dal colore marrone-verdastro. Vive nel suo studio: «Ci trascorro
8 o 9 ore, e dimentico tutto. Vado presto la mattina; dispongo in tutto di una cinquantina di metri
quadri, e ne vorrei qualcuno in più; ma è un’isola, e nei giardini Torrigiani, che sono attorno, vedo
gli uccellini, e sento i rumori di Firenze». Non conosco quello studio, ma ne ho visto tante foto: è
davvero il luogo di un pittore; un finestrone sfonda su tanto verde; il locale è ingombro di colori, e
di tutto; una tavolozza su una parete. «Mi dà gioia il quadro finito. Li allineo a terra, ma nello studio
non li tengo rivolti verso me». Vengono come archiviati; «ogni tanto, ne riprendo uno, e ci rimetto
sopra le mani, anche a un anno di distanza». Lì passa la giornata in completa solitudine; e lì dentro,
dice, diventa un altro. È una questione non solo di intimità e di raccoglimento: «Nello studio mi
libero e mi isolo da tutto». Vive nel suo “altrove”.
Giannoni segue un percorso tutto suo. Prova ad applicare l’informale al figurativo; e talora,
si innamora degli effetti che produce ed inventa. Se è a metà tra la fotografia e l’Impressionismo, lo
diranno gli studiosi: io non lo sono, e neppure un esperto. Ma non è certo un passatista. Dice che «in
tutta la Storia dell’arte, il “come” è più del “cosa”; il come è la committenza, il cosa sono invece le
invenzioni». Alle librerie e alle biblioteche si dedica ormai da vent’anni; e negli Stati Uniti ha anche
scattato numerose foto allo Stock Market, la Borsa di New York, e visitato quella di Chicago. Sono
i suoi due temi forti; con i paesaggi, però di città e non agresti. Ci tiene alla sua riconoscibilità. E
qui, siamo al terzo motivo, la terza chiave, per parlare della sua pittura. Un artista deve rinnovarsi a
ogni costo, o invece dedicarsi, con continuità e quasi con assolutezza, a un tema tutto suo, e soltanto
a quello?
«Mi viene in mente Giorgio Morandi, che, a parte pochi fiori, per tutta la vita ha dipinto solo
bottiglie e paesaggi. Mi vengono in mente i tagli di Lucio Fontana. O anche le caratteristiche uniche
di Giorgio De Chirico, o Virgilio Guidi. Io mi dedico alle librerie e alle moltitudini: in fin dei conti,
anche i miei panorami e paesaggi lo sono; moltitudini di tetti, o di edifici. E negli scaffali, ci sono
moltitudini di libri». A me, balza invece alla mente Giuseppe Capogrossi: «Fino a una certa data,
una pittura figurativa e tonale, densa di contenuti poetici. Poi, li ha estromessi ed è scomparsa la
figurazione», nel nome di quel suo segno, del tutto misterioso e, da allora, perseguito in maniera del
tutto univoca (Giulio Carlo Argan, 1967; proprio Argan, quando ormai stava per andarsene, mi ha
raccontato di aver gettato via, come da richiesta dell’autore, tutti i propri Capogrossi figurativi; e si
lamentava che altri non si fosse invece comportato nell’identico modo). Ma se ne possono evocare
anche tanti altri, a cominciare da Paul Klee; e non necessariamente astratti. È certamente un valore
aggiunto che, davanti a un quadro, si senta che l’autore non può che essere “quello”. Di Vivaldi, i
più tetragoni disistimatori dicono che «ha composto mille volte lo stesso concerto»; siccome non ce
n’è uno che sia uguale a un altro, è davvero un male? Insomma, il tema è la riconoscibilità, anche
la ripetitività, una “cifra” inequivocabile. Dai colori di Van Gogh, che non possono essere altri, alle
Nature morte di Cézanne, che non possono essere se non quelle. Le librerie e le biblioteche, come le
Borse e un certo tipo di Paesaggi, “sono” Giannoni. Per questo, secondo me, è meglio che non muti;
che sfidi perfino la monotonia, pur di non abbandonare il proprio sentiero e confondersi con troppi
altri; che continui a fare di questi pochi temi, però realizzati sempre con grande efficacia, non meno
attenzione e non inferiore resa pittorica, il proprio unico seminato.
Lo dico davanti a un Grande interno di libreria del 2005, di cui mi piacciono lo scorcio e
l’atmosfera dei tempi un po’ andati, l’assenza di perspex, plastica e altre simili diavolerie moderne,
e la si ritrova pressoché identica, soltanto una scala e pochi dettagli in più, in un analogo dipinto di
cinque anni successivo. Lo dico davanti a una Libreria del 2009, che forse è la medesima, ma vista
dall’altra parte: spostando di 180 gradi l’obiettivo pittorico. Lo dico davanti a una delle mie Seeber,
che non c’è più. Ma anche guardando Manhattan vista dall’alto, con una prospettiva che mi ricorda
tanto la Carta di Venezia di Jacopo de’ Barbari; o il reticolato delle strade romane di Prati, costruito
laicamente evitando a tutti i costi che una di loro sfondi sul cupolone della Basilica di San Pietro (e
in Roma del 2008, lo si apprezza davvero); o il brulicare di strutture e di uomini di New York Stock
Exchange (studio n. 1) del 2005, ma anche l’analogo dipinto di tre anni successivo. Senza titolo del
2008 ha una pila di libri ammucchiati a terra, in primo piano; ma, in fondo, gli scaffali sono sempre
i suoi stessi, e anche il modo di disporre i volumi: con le coste multicolori, ordinati verticalmente o
in orizzontale, pochi pencolanti e fuori posto. Forse, il Muro del Pianto è alquanto più oleografico;
ma anche qui, i “figurini” delle persone umane sono i suoi di sempre. Soltanto quando sono posati
sui tavoli, i volumi possiedono, quasi di prendono, qualche libertà ordinativa in più, e perfino ce ne
sono in diagonale, o che mostrano, in piedi ed appoggiati, le loro copertine. I libri costituiscono uno
strumento: per raccontarci la quantità, il mistero del contenuto, l’ordine almeno apparente. I colori
sono sempre vivaci, ma mai troppo; e nemmeno troppo pastello, eccessivamente sdilinquiti. È dalla
fine degli anni ’80 che Giannoni realizza questo tipo di dipinti, e non se ne è ancora stufato. E però,
davvero neppure noi. Tutti perfetti, precisi, senza manchevolezze: «So benissimo che un quadro non
di qualità non potrà mai essere venduto», dice. Eppure, in lui, che sembra tanto riflessivo e pacato,
si agita qualcosa: «Ho bisogno dell’esercizio fisico. Sono stato un karateka, ora mi dedico alla boxe;
due o tre volte alla settimana, devo per forza andare in palestra». Poi, ritorna nella quiete delle sue
biblioteche e librerie. Una quiete superficiale, ma non di fondo, che sa affascinare.
a cura di Alberto Agazzani
inaugurazione sabato 3 settembre alle ore 18.00
Palazzo della Ragione – Mantova
dal 3 settembre al 2 ottobre 2011
COMUNICATO STAMPA
Si inaugura il 3 settembre 2011 alle ore 18.00 nei prestigiosi spazi del Palazzo della Ragione
di Mantova, la personale dell’artista Massimo Giannoni dal titolo L’Aleph, progettata e curata
da Alberto Agazzani.
La mostra organizzata dalla Galleria Russo, con la collaborazione e la partecipazione del
Comune di Mantova è inserita fra gli eventi organizzati in occasione della XV edizione
del Festivaletteratura (7-11 settembre 2011): un appuntamento culturale conosciuto e
apprezzato sia in Italia e che in Europa durante il quale vengono presentati in luoghi di forte
valenza storico-artistica incontri tra pubblico e autori, letture, performances.
Questa importante manifestazione si presta perfettamente a far da cornice e ad accogliere
l’antologica di Massimo Giannoni, il cui titolo “ispirato all’Aleph di Borges - spiega il curatore
– collega il tema delle biblioteche di Massimo Giannoni al Festivaletteratura attraverso
l’invenzione della parola che si fa suono che si fa messa in scena del ricordo, parola che si fa
immagine e come tale diviene mezzo per scandagliare il mondo”.
Per l’evento di Mantova, l’artista propone circa 40 opere olio su tela di grandi e medie
dimensioni, tutti lavori che declinano appieno i tratti fondamentali della ricerca artistica
coltivata negli ultimi 15 anni.
Massimo Giannoni è il primo fra gli artisti italiani a scegliere come soggetto librerie e
biblioteche storiche che raffigurano e simboleggiano il sapere contenuto in modo stabile in
libri e scaffali.
“Quando mi sono trovato davanti agli occhi per la prima volta una grande biblioteca dipinta
da Massimo Giannoni,[…] in un attimo, seguito a quello fuggente del primario stupore, mi son
chiesto: chissà in che nuova meraviglia si trasformerà questa fresca memoria sospesa quando
s’arricchirà della polvere, della “sua” personale memoria?”. Questo è uno dei quesiti che si
pone il curatore della mostra Alberto Agazzani quando si interroga sull’artista.
Memoria e trasformazione, fissità e luce, sospensione e trascorrere del tempo, aspetti che
non generano contraddizione ma che rendono unica l’espressione artistica di Giannoni.
E se nell’Aleph vi è la messa in scena della parola, che cambia in continuazione e che con
il suo potere evocativo è strumento della ricerca, così sulle tele di Massimo Giannoni “la
materia, il grumo di colore che cresce e s’increspa sulla tela, il gesto rapido di una spatolata
grassa e spessa sono in pittura qualcosa di più di un espediente tecnico, di un “effetto
speciale” per esplorare la profondità di un’immagine”.
La visione ravvicinata e attenta dei suoi dipinti trasforma il soggetto raffigurato in un magma
materico e spesso di pittura ad olio, al limite dell’astratto. Nel contempo “una tecnica
materica e informale nel particolare ma dettagliatissima nel generale”.
Nei lavori di Giannoni vi è sempre un’iconografia riconoscibile: è la distanza nella fruizione
dell’opera a fare la differenza. Un gioco che non è ottico ma sostanziale; la realtà dunque è
sublimata, mai statica, muta col tempo, con la polvere che si deposita sul colore addensato,
con la luce che genera nuove prospettive: “Sui grumi e sulle grasse spatolate di colore che col
tempo, asciugandosi, si modificano, su questo divenire continuo s’increspa il divenire continuo
della luce, sempre mutevole, mai uguale a se stessa e così rivelatrice di ogni singolo segno
lasciato dall’uomo e arricchito da Cronos”.
Autore di opere di grande impatto e formato, Giannoni si pone come artista della tradizione
ma anche come osservatore della contemporaneità. La sua opera mette d’accordo chi ama
la pittura di figura e quella informale, la storia e la cronaca, il passaggio del tempo e il suo
permanere. Potremmo definire l’opera di Giannoni come una cerniera che collega la pittura di
storia all’attualità.
La mostra è accompagnata dall’elegante catalogo in italiano e inglese edito da Palombi Editori
(Roma) con interventi di Alberto Agazzani e Fabio Isman. Nel gennaio 2012 una seconda
antologica dell’artista sarà ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
MASSIMO GIANNONI. L’ALEPH
Progetto e cura di Alberto Agazzani
con la collaborazione e la partecipazione del Comune di Mantova
Inaugurazione sabato 3 settembre, ore 18.00
Mantova, Palazzo della Ragione
Fino al 2 ottobre
Catalogo Palombi Editori, Roma
Ingresso gratuito
Orari e apertura: 10.00 – 13.00; 16.00 - 19.00 dal martedì a domenica. Chiuso il lunedì
Per informazioni: Assessorato alla Cultura del Comune di Mantova - tel. 0376 338645
Organizzazione Segreteria mostra
Galleria Russo tel. 06 6789949, 06 69920692, info@galleriarusso.com, www.galleriarusso.com
Ufficio stampa Arteefatti
Barbara Dicorato, 340 7704969, www.arteefatti.com, barbaradicorato@arteefatti.com,
L'infinito nel particolare
“L'Aleph?” ripetei.
“Si il luogo dove si trovano,senza
L'Aleph, J.L.Borges
Ci si è lungamente interrogati, nel corso dei tanti secoli che pesano
sulla storia della nostra civiltà, sul significato e sull'essenza della
pittura.
Leonardo la definì “cosa mentale”, Picasso “quel qualcosa che sta fra la
tela ed il colore”. Oltre ai due grandi geni dell'arte di ogni tempo,
un'infinita schiera di artisti e teorici hanno cercato la chiave di volta
di quel mistero, quell'Aleph visivo, che tutt'oggi rimane ben lungi
dall'essere svelato.
La consonanza del tutto particolare che lega l'opera pittorica di Massimo
Giannoni all'invenzione borgesiana oggetto di quest'indagine è tutt'altro
che riferibile ad un'occasione, l'importante Festival Letteratura
mantovano, o al fatto che egli prediliga come soggetto della propria
espressività immensi spazi che raccolgono libri, ma riguarda la natura
intima ed il significato che la pratica della pittura assume per il suo
autore e, ancor più, il rapporto dello spettatore con le sue invenzioni
dipinte.
Parafrasando Borges, anche tutta la pittura si può intendere come “uno
specchio d'inchiostro”, nel caso specifico “uno specchio di colori”; la
pittura è creazione continua, rappresentazione di realtà invisibili,
inesistenti, impossibili e perciò portatrice di infinite suggestioni che
trascendono, sublimano e trasfigurano la realtà stessa.
È un'invenzione senza fine che si crea misteriosamente, lontano da
qualunque dimensione reale propriamente detta.
La prova più certa di questo sta nelle parole di Giannoni stesso, quando
dichiara: “La solitudine dello studio mi chiude in un'atmosfera ovattata
che spinge fuori dal tempo reale; a volte mi stupisco per quello che
ho fatto in un tempo relativamente breve, altre invece sono sorpreso
di aver passato ore ad arricciare, grattare e rileccare con la spatola
un solo grumo di colore. Tutto ciò appartiene ad una realtà fuori dal
comune, fuori dalla produttività quotidiana, eppure conserva la stessa
motivazione per la quale qualcuno molto tempo fa decise di impressionare
delle scene di caccia sulla parete di una grotta, chissà per quale motivo
lui e non altri”2 (i corsivi sono miei).
Quest'affermazione, così intrisa di un improbabile senso d'”altrove”, di
altrimenti impossibile sospensione dalla realtà, di relativismo spazio-
temporale, racconta molto del mistero della pittura e dell'invenzione.
In particolare il soffermarsi sul “grumo di colore”, quella particella
elementare della pittura di Giannoni così fondamentale, ha un ché di
straordinariamente borgesiano. E' in quella sospensione spazio-temporale,
in quel luogo silenzioso, segreto e magico che è lo studio del pittore,
attraverso proprio quel “grumo di colore” che la magia dell'Aleph si
ritrova e rinnova. Cos'è per Giannoni un “grumo di colore” se non “uno
dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”? La pittura di
1 Borges, Jorge Luis, L'Aleph, in “L'Aleph”, tr. it. di Francesco Tentori Montalto, Adelphi, Milano 1998.
2 Giannoni, Massimo, in Massimo Giannoni, Galleria Rubin, Milano 2007.
Giannoni è una pittura grumosa, infinita e informe nel particolare,
quindi portatrice di ogni forma e immagine, eppure così fortemente
evocativa, figurale, finanche dettagliatissima nel suo (in)finito
insieme. Così come la letteratura per Borges, la pittura per Giannoni,
nel suo costante divenire, assume le dimensioni di un'invenzione
senza fine, di un'inesausta messa in scena della realtà, possibile ma
impossibile, reale eppure irreale, infinita nonostante sia contenuta
nelle due dimensioni di una “pagina” di tela. Ed in questo assume proprio
un significato non secondario la scelta del pittore (o viceversa: che
non sia stato il soggetto a scegliere il suo ritrattista?), compiuta
in tempi non sospetti, cioè di riconoscere come soggetto privilegiato
della propria invenzione espressiva proprio le biblioteche, “il luogo
dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti
da tutti gli angoli”, teatri della finzione per eccellenza, nei quali
milioni di vicende, storie, immagini, paesaggi, personaggi silenziosi
attendono un lettore per far risuonare nuovamente le loro voci, battere i
propri cuori, brillare i propri colori: labirinti attraversando i quali
ognuno ritrova brandelli di se stesso, ne scopre di nuovi e inattesi,
riflettendosi nello specchio infinito dell'invenzione.
Come analizzato in seguito, ogni dipinto di Giannoni contiene un
labirinto, un labirinto di specchi. La stessa costante mutevolezza
della sua materia pittorica è uno specchio, davanti al quale riscoprire
sempre nuovi frammenti di un infinito impossibile da possedere nella sua
interezza.
Il grumo come l'Aleph di Carlos Argentino: un punto incredibile ed
inconcepibile nella realtà del quotidiano, ma che in sé contiene un
intero universo, la storia, le infinite storie che nascono, crescono e
vivono dentro di noi. Tutt'altro, dunque, dalla semplice rappresentazione
della realtà, ma piuttosto il suo tradimento, la sua sublimazione e
trasfigurazione, la sua invenzione appunto.
La realtà, così come imprigionata impietosamente da un obiettivo
fotografico, attraverso il gesto del dipingere assume in Giannoni una
varietà ancora, nuovamente altrimenti impossibile. Il medesimo luogo,
la stessa biblioteca nel caso specifico, viene creata e reinventata in
infinite forme e varietà, come la casa di Asterione: “Tutte le parti
della casa esistono molte volte, qualunque luogo di essa è un altro
luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, un abbeveratoio, una
greppia; sono quattordici [sono infinite] le greppie, gli abbeveratoi, i
cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. (…) Tutto esiste
molte volte, quattordici volte; soltanto due cose al mondo sembrano
esistere una sola volta: in alto, l’intricato sole; in basso, Asterione.
Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me
ne ricordo”3.
“Tutto esiste molte volte”, infinite quante le vite, infinite quante
le sensazioni che vivono in infiniti spettatori, capaci, anche a loro
insaputa, di creare, anche da un semplice grumo/Aleph, il mondo,
cioè “tutto quello che accade”4, come direbbe Wittgenstein. Il quale
avrebbe concluso: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”5.
Ma non dipingere, creare, osservare.
3 Borges, Jorge Luis, La casa di Asterione, in op. cit.
4 Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it. di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1964.
5 Ibid.
“Pochi soggetti? Meglio così” di FABIO ISMAN
Esistono almeno tre buoni motivi, e altrettante “chiavi”, per raccontare ed indagare la pittura
di Massimo Giannoni (Empoli, 1954). Uno è strettamente personale, quasi privato, e perciò non
pretendo che troppi lo condividano; il secondo, più ampio e vasto, riguarda la qualità e i temi della
sua produzione; e l’ultimo, di stampo ancor più generale, la riconoscibilità dell’artista, e, specie nei
pittori astratti (anche se questo non è certo il caso), il “segno”. Cominciamo dalle confessioni. Io
amo i libri. E ne ho bisogno. Li leggo; li medito; li consulto; li uso. Senza che lo volessi, e neppur
lontanamente lo immaginassi, mi è forse capitata in eredità un po’ della quasi proverbiale acribia di
uno scrittore e giornalista assai più bravo ed affermato di me, che è stato anche un (buon) ministro
dei Beni culturali, l’indimenticato Alberto Ronchey. Non sopporto una data errata; in una citazione,
non tollero una parola fuori posto. Se leggendole mi fanno pressoché infuriare, non avendole rilette,
o verificate, mi gettano addosso un immane carico di vergogna. Amo i libri, ne ho bisogno. Quindi,
le biblioteche sono tra i miei “pallini”. Ne ho perfino costruita una al piano terreno dell’edificio
in cui abito, a Roma: un locale dismesso, che ho inzeppato di scaffali da cielo a terra, e dotato di
un deumidificatore automatico; per accertare una data, sono anche capace di cinque piani a piedi
(non c’è un ascensore), metà a scendere e metà a salire. Per cui, quando grazie a Fabrizio Russo ho
incontrato un artista che dipinge biblioteche e librerie, mi sono sentito a casa (anzi, a pian terreno).
Mi sono balzati alla mente Leggere nuoce gravemente alla salute e Il morbo di Gutenberg
(ed. L’Ancora), bellissimi e istruttivi libriccini di Mauro Giancaspro, persona acuta che da 16 anni
dirige la Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III al Palazzo Reale di Napoli, e non bada soltanto
ai suoi quasi due milioni di volumi: può anche percorrere un terrazzone che guarda sul mare e dove
l’unico Vittorio Emanuele di Savoia senza un numero dopo il nome (perché spetta unicamente a chi
diventi re), si esercitava sul triciclo. Poi, Giannoni ne dipinge anche qualcuna che non esiste più, e
dove io magari spendevo, quando vi capitavo, larghi squarci delle giornate: questa non è la Seeber
di via Tornabuoni 70 a Firenze, nata nel 1861 e cara a Croce e Ungaretti, a Montale, Vittorini e Luzi
(dopo 150 anni di vita nobilissima, non c’è più: si chiama Max Mara, e vi si fa tutt’altro), con il suo
tavolone e le luci, proprio vicino ai panini tartufati migliori del mondo, che sono quelli di Procacci?
Mi diverte assai che nei dipinti di Giannoni non si riconoscano, non s’identifichino, i titoli dei libri;
ma che io, a terra o nei suoi scaffali, dove i volumi sono allineati e mostrano soltanto la costola, la
prima volta credessi di riconoscere proprio i miei: nell’ordine, o disordine, in cui li tengo e in cui
sono. Il quadro era accanto ai Balla e Boccioni, ai Paladino e Afro, in una Biennale d’antiquariato a
Palazzo Venezia; era tanto evocativo, figurativo, originale, che non stonava affatto: vi erano dipinte,
per traslato, saggezza e cultura. Le biblioteche di Giannoni sono paesaggi umani, anche se prive di
figure. E le sue librerie non sono sempre solenni (ma talora, sì), e mai ordinate; ma nemmeno mai
disordinate, o arruffate: vi dominano, comunque, un assetto, un criterio, un “sistema”. Che sia lo
specchio di quell’ordine interiore, sempre, eternamente e soltanto da ciascuno ambito?
Ma veniamo al motivo numero due: la produzione di Giannoni. Biblioteche e librerie, ma
non solo. Tuttavia, nemmeno troppo di più: non ci sono nessun guazzabuglio, e nessuna confusione.
Dipinge anche la Borsa (di solito, quella di New York; talora, quella di Tokio) e qualche panorama:
Parigi; la Roma degli angoli prospettici migliori, oppure dei tetti; ancora Manhattan. Però, con una
differenza sostanziale: che se per ritrarre le librerie e le biblioteche l’artista si pone generalmente
nel punto di vista dello spettatore, dipinge “ad alzo zero” e quasi con una prospettiva antica, le città
e i suoi templi moderni li vede invece a volo d’uccello, assai più dall’alto, talora quasi dallo zenith.
Si immedesima, quando eterna le cattedrali del sapere; ma prende le distanze dal formicolio umano,
e da quello urbanistico, che contraddistingue il resto. Ritorna ad altezza d’uomo solo quando vuole
immortalare il Muro del Pianto di Gerusalemme. Insomma, ripartisce le sue costruzioni religioso-
pittoriche in due: quelle dei libri, in cui si può (e forse si deve) vivere; e quelle che invece è più
opportuno osservare da più lunga distanza, senza “esserne dentro”, tenendosene lontani. Magari, in
una posizione più elevata: stando (perché lì stiamo, non è vero?) più in alto di loro. Una maniera per
dichiararsi superiori? Chi lo sa. Ho provato a chiederglielo; ma non mi ha dato risposte convincenti:
penso che lo faccia per istinto, perché gli viene così; forse, non se ne è nemmeno mai domandato la
motivazione.
Mi ha raccontato quali artisti ama: da Angelico a Zurbaran, da Caravaggio a Rembrandt; ma
anche i contemporanei come Gerhard Richter («usa gli spatoloni; lo faccio anch’io per i quadri delle
Borse: mi danno il senso di una pittura faticata»), Fabrizio Plessi, che realizza videoinstallazioni, o i
video di Bill Viola, che tra un biennio sarà forse nel primo padiglione del Vaticano alla Biennale di
Venezia, i Cretti e i Sacchi di Alberto Burri, le composizioni informali (per lui, che informale non è
di certo: sarà forse per l’ordinatissimo disordine?) di Jackson Pollock. Mi ha spiegato che nel secolo
scorso, ce ne sono tre da ricordare: Picasso, Duchamp, Klee; e lui si riconosce nella discendenza dal
primo. Mi ha declinato le tappe della sua esistenza, alquanto raminga prima di ritornare in Toscana
e stabilirsi a Firenze, Oltrarno: l’Australia e New York, dove si è dedicato ad acquerelli giganti e
del tutto astratti, ed eseguiva tanti ritratti. «Se la cultura del libro è finita? Non credo; lo si pensava
cinque o sei anni fa: c’era più allarmismo, come sempre di fronte alle novità». Ha ammesso che «gli
astratti innovativi sono pochi», ed ha sgranato gli occhi spiegando che «in Rembrandt non capisci
come escano i quadri: sono un mistero». Ha dipinto da sempre, fin da bambino: «Il primo quadro è
stata la prospettiva di un paesino, visto da un campanile, su compensato; frequentavo la I media, e
l’ho ancora». Ha una pittura molto materica, uno spessore di colore ad olio che misura anche sei o
sette centimetri, certe costole di suoi libri sono a rilievo; ma spesso, sulla tela di lino naturale, lascia
dei vuoti, perché ne affiori il fondo dal colore marrone-verdastro. Vive nel suo studio: «Ci trascorro
8 o 9 ore, e dimentico tutto. Vado presto la mattina; dispongo in tutto di una cinquantina di metri
quadri, e ne vorrei qualcuno in più; ma è un’isola, e nei giardini Torrigiani, che sono attorno, vedo
gli uccellini, e sento i rumori di Firenze». Non conosco quello studio, ma ne ho visto tante foto: è
davvero il luogo di un pittore; un finestrone sfonda su tanto verde; il locale è ingombro di colori, e
di tutto; una tavolozza su una parete. «Mi dà gioia il quadro finito. Li allineo a terra, ma nello studio
non li tengo rivolti verso me». Vengono come archiviati; «ogni tanto, ne riprendo uno, e ci rimetto
sopra le mani, anche a un anno di distanza». Lì passa la giornata in completa solitudine; e lì dentro,
dice, diventa un altro. È una questione non solo di intimità e di raccoglimento: «Nello studio mi
libero e mi isolo da tutto». Vive nel suo “altrove”.
Giannoni segue un percorso tutto suo. Prova ad applicare l’informale al figurativo; e talora,
si innamora degli effetti che produce ed inventa. Se è a metà tra la fotografia e l’Impressionismo, lo
diranno gli studiosi: io non lo sono, e neppure un esperto. Ma non è certo un passatista. Dice che «in
tutta la Storia dell’arte, il “come” è più del “cosa”; il come è la committenza, il cosa sono invece le
invenzioni». Alle librerie e alle biblioteche si dedica ormai da vent’anni; e negli Stati Uniti ha anche
scattato numerose foto allo Stock Market, la Borsa di New York, e visitato quella di Chicago. Sono
i suoi due temi forti; con i paesaggi, però di città e non agresti. Ci tiene alla sua riconoscibilità. E
qui, siamo al terzo motivo, la terza chiave, per parlare della sua pittura. Un artista deve rinnovarsi a
ogni costo, o invece dedicarsi, con continuità e quasi con assolutezza, a un tema tutto suo, e soltanto
a quello?
«Mi viene in mente Giorgio Morandi, che, a parte pochi fiori, per tutta la vita ha dipinto solo
bottiglie e paesaggi. Mi vengono in mente i tagli di Lucio Fontana. O anche le caratteristiche uniche
di Giorgio De Chirico, o Virgilio Guidi. Io mi dedico alle librerie e alle moltitudini: in fin dei conti,
anche i miei panorami e paesaggi lo sono; moltitudini di tetti, o di edifici. E negli scaffali, ci sono
moltitudini di libri». A me, balza invece alla mente Giuseppe Capogrossi: «Fino a una certa data,
una pittura figurativa e tonale, densa di contenuti poetici. Poi, li ha estromessi ed è scomparsa la
figurazione», nel nome di quel suo segno, del tutto misterioso e, da allora, perseguito in maniera del
tutto univoca (Giulio Carlo Argan, 1967; proprio Argan, quando ormai stava per andarsene, mi ha
raccontato di aver gettato via, come da richiesta dell’autore, tutti i propri Capogrossi figurativi; e si
lamentava che altri non si fosse invece comportato nell’identico modo). Ma se ne possono evocare
anche tanti altri, a cominciare da Paul Klee; e non necessariamente astratti. È certamente un valore
aggiunto che, davanti a un quadro, si senta che l’autore non può che essere “quello”. Di Vivaldi, i
più tetragoni disistimatori dicono che «ha composto mille volte lo stesso concerto»; siccome non ce
n’è uno che sia uguale a un altro, è davvero un male? Insomma, il tema è la riconoscibilità, anche
la ripetitività, una “cifra” inequivocabile. Dai colori di Van Gogh, che non possono essere altri, alle
Nature morte di Cézanne, che non possono essere se non quelle. Le librerie e le biblioteche, come le
Borse e un certo tipo di Paesaggi, “sono” Giannoni. Per questo, secondo me, è meglio che non muti;
che sfidi perfino la monotonia, pur di non abbandonare il proprio sentiero e confondersi con troppi
altri; che continui a fare di questi pochi temi, però realizzati sempre con grande efficacia, non meno
attenzione e non inferiore resa pittorica, il proprio unico seminato.
Lo dico davanti a un Grande interno di libreria del 2005, di cui mi piacciono lo scorcio e
l’atmosfera dei tempi un po’ andati, l’assenza di perspex, plastica e altre simili diavolerie moderne,
e la si ritrova pressoché identica, soltanto una scala e pochi dettagli in più, in un analogo dipinto di
cinque anni successivo. Lo dico davanti a una Libreria del 2009, che forse è la medesima, ma vista
dall’altra parte: spostando di 180 gradi l’obiettivo pittorico. Lo dico davanti a una delle mie Seeber,
che non c’è più. Ma anche guardando Manhattan vista dall’alto, con una prospettiva che mi ricorda
tanto la Carta di Venezia di Jacopo de’ Barbari; o il reticolato delle strade romane di Prati, costruito
laicamente evitando a tutti i costi che una di loro sfondi sul cupolone della Basilica di San Pietro (e
in Roma del 2008, lo si apprezza davvero); o il brulicare di strutture e di uomini di New York Stock
Exchange (studio n. 1) del 2005, ma anche l’analogo dipinto di tre anni successivo. Senza titolo del
2008 ha una pila di libri ammucchiati a terra, in primo piano; ma, in fondo, gli scaffali sono sempre
i suoi stessi, e anche il modo di disporre i volumi: con le coste multicolori, ordinati verticalmente o
in orizzontale, pochi pencolanti e fuori posto. Forse, il Muro del Pianto è alquanto più oleografico;
ma anche qui, i “figurini” delle persone umane sono i suoi di sempre. Soltanto quando sono posati
sui tavoli, i volumi possiedono, quasi di prendono, qualche libertà ordinativa in più, e perfino ce ne
sono in diagonale, o che mostrano, in piedi ed appoggiati, le loro copertine. I libri costituiscono uno
strumento: per raccontarci la quantità, il mistero del contenuto, l’ordine almeno apparente. I colori
sono sempre vivaci, ma mai troppo; e nemmeno troppo pastello, eccessivamente sdilinquiti. È dalla
fine degli anni ’80 che Giannoni realizza questo tipo di dipinti, e non se ne è ancora stufato. E però,
davvero neppure noi. Tutti perfetti, precisi, senza manchevolezze: «So benissimo che un quadro non
di qualità non potrà mai essere venduto», dice. Eppure, in lui, che sembra tanto riflessivo e pacato,
si agita qualcosa: «Ho bisogno dell’esercizio fisico. Sono stato un karateka, ora mi dedico alla boxe;
due o tre volte alla settimana, devo per forza andare in palestra». Poi, ritorna nella quiete delle sue
biblioteche e librerie. Una quiete superficiale, ma non di fondo, che sa affascinare.
03
settembre 2011
Massimo Giannoni – L’Aleph
Dal 03 settembre al 02 ottobre 2011
arte contemporanea
Location
PALAZZO DELLA RAGIONE
Mantova, Piazza Erbe, (Mantova)
Mantova, Piazza Erbe, (Mantova)
Orario di apertura
10.00 – 13.00; 16.00 - 19.00 dal martedì a domenica. Chiuso il lunedì
Vernissage
3 Settembre 2011, ore 18
Sito web
www.galleriarusso.com
Editore
PALOMBI
Autore
Curatore