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Massimo Poldelmengo – Il progetto e l’opera. XVI e Impronta del XVI
La grande scultura in ferro, intitolata XVI, realizzata da Massimo Poldelmengo nel 2012 e oggi posta davanti all’ingresso della Galleria, accompagna la mostra XVI e Impronta del XVI, un percorso in cui prende forma la storia di un progetto sviluppatosi in due opere diverse legate al medesimo pensiero. All’origine vi è la commissione a Poldelmengo di un’opera da porre nel vigneto di Ronco Pitotti, gestito da i Vignai da Duline: ispirato dalla bellezza del luogo, l’artista ha realizzato una “mensa” profana, che posta su uno sperone dominante l’anfiteatro del podere si offre al visitatore come luogo di sosta per la degustazione del vino sulla terra e nel paesaggio in cui è nato.
Il piano della mensa, formato da sedici lastre simboleggianti i filari di Pinot nero, si è sviluppato parallelamente in una seconda scultura, il XVI la cui tensione verticale rappresenta una diversa soluzione plastica dello stesso pensiero che si articola nello spazio volgendosi all’alto.
Conversazione con l’artista Massimo Poldelmengo e i “Vignai da Duline” Federica
Magrini e Lorenzo Mocchiutti
A cura di Annalia Delneri
Annalia Delneri: XVI e Impronta del XVI: due titoli per due opere diverse ma strettamente
connesse perché nate dallo stesso progetto. Per eliminare possibili equivoci la
collocazione del XVI davanti alla Galleria Spazzapan si accompagna a una mostra volta a
illustrare la totalità del progetto, dalla prima idea della scultura commissionata dai Vignai
da Duline per il Ronco Pittotti, alla realizzazione delle due opere come evoluzione dello
stesso pensiero.
Massimo Poldelmengo: Le due sculture nascono parallelamente: temporalmente XVI è
stato realizzato prima, ma in realtà è nato dal progetto dell’opera per il Ronco Pittotti, un
luogo di straordinaria bellezza che il lavoro dell’uomo sta preservando da decenni con
coltivazioni innovative in sinergia con l’ambiente.
Quando mi fu chiesto di realizzare un’opera non era stato specificato lo spazio cui era
destinata. Istintivamente ho scartato l’idea della cantina perché avevo l’impressione che
quello non fosse il luogo nevralgico del lavoro di Federica e Lorenzo: la cantina non
bastava come luogo a rappresentare il valore del loro vino il cui processo di natura inizia
nel vigneto.
Non avevo in mente nulla di specifico, escludevo l’idea di un’opera descrittiva e
cercavo qualcosa di interattivo, un quid capace di mettere in relazione le aspettative dei
“committenti” con il mio pensiero, per realizzare un’opera che sintetizzasse il senso del
luogo, ne diventasse il simbolo. Così sono andato, durante la vendemmia, a fotografare
il sito per mettere a fuoco lo spazio e rendermi conto del lavoro che vi si svolgeva nel
momento culmine della vita in vigna. Oltre che dalla bellezza dell’insieme, sono rimasto
colpito dai grappoli del Pinot nero i cui acini presentano una texture simile a quella della
ruggine, richiamando l’idea della patina del tempo che agisce sulla materia. L’attenzione
si è focalizzata su questo vitigno, facendomi pensare a un’opera in ferro da collocarsi nel
vigneto. La scelta si è poi rafforzata scoprendo che i filari di Pinot nero erano sedici, un
multiplo di quattro, e quindi del quadrato. Avevo tutti gli elementi per sviluppare un’idea,
che ha preso forma in una lastra di metallo di centoquaranta per centoquaranta centimetri,
suddivisa con un taglio laser in sedici quadrati che “nominavano” il filare di riferimento, con
una cifra romana intagliata al centro.
Fino a quel momento avevo pensato in orizzontale ma, come spesso succede durante
la realizzazione di un progetto, la mente si sofferma anche su altre soluzioni possibili e
così, dopo aver visto il piano con le lastre tagliate, ma non ancora staccate dal telaio, ho
pensato che l’opera poteva svilupparsi anche verticalmente. In sostanza mi ero reso conto
che l’opera possedeva già una sua autonomia e che, ribaltando il piano da orizzontale a
verticale, la struttura ottenuta aveva la forza di opera compiuta: in questo modo è nato
XVI.
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Parallelamente ho continuato il lavoro per l’opera destinata al vigneto realizzando una
seconda lastra metallica delle stesse dimensioni e ripartita allo stesso modo della prima.
Riprendendo il pensiero dell’analogia tra la texture degli acini di Pinot nero e della
ruggine ho atteso la nuova vendemmia e sepolto una lastra per ciascun filare in modo
che assorbissero dal suolo le stesse sostanze della vite e dell’uva. L’idea di creare con
le lastre il ripiano di un tavolo è stata successiva ed è nata sul luogo, quando ho avuto
l’intuizione di poterlo collocare al “culmine” delle possibilità panoramiche della tenuta. Il
punto prescelto presentava però la difficoltà del piano inclinato e per risolverlo ho pensato
a una piramide rovesciata da costruire con tutti accorgimenti atti a renderla funzionale al
declivio su cui non si voleva intervenire. Pertanto la piramide non è simmetrica e presenta
lati e piano sfalsati. La rigidità dell’allineamento è stata scartata anche nell’ordinamento
delle piastre numerate del ripiano, che non seguono una disposizione legata alla logica
numerica. L’apparente caos dispositivo ha una chiave di lettura strettamente legata alla
storia del vigneto e risponde all’ordine di quattro quadranti riferiti ai quattro innesti delle
viti: i sedici filari furono impiantati con lo stesso tipo di Pinot nero, ma innestati su quattro
porta innesti diversi, per cui i filari sono suddivisi in gruppi di quattro.
La piramide rovesciata ha avuto la sua copertura solo durante la vendemmia dell’anno
successivo, quando sono state dissotterrate le lastre e la vigna ha avuto il suo tavolo
o “mensa” su cui poggiare le bottiglie e i bicchieri per degustare il vino, ammirando
l’eccezionale paesaggio offerto dalla tenuta.
Federica Magrini: L’opera di Massimo ha reso reale il nostro desiderio di rendere la vigna
il nostro vero showroom. È interessante osservare i visitatori che, mentre ascoltano il
nostro racconto sulla storia del Ronco legata all’idea pioneristica dei proprietari che negli
anni settanta iniziarono la coltivazione biologica della vite, improvvisamente si trovano
davanti alla scultura di Massimo. C’è prima l’effetto sorpresa, poi la percezione dell’opera
d’arte e l’istintiva e timorosa retrocessione subito superata dalla possibilità funzionale
offerta dell’opera come mensa su cui poggiare i calici e attendere l’apertura del vino La
scultura diventa un tavolo di incontro e si percepisce il rilassamento delle persone che
incominciano a toccarlo e a guardarlo con attenzione: attraverso la condivisione del vino
la distanza con l’opera si annulla e si assiste a una sorta di ribaltamento perché prima era
l’opera che faceva incontrare il vino, ora è il vino che fa incontrare l’opera.
Lorenzo Mocchiutti: A volte è difficile comunicare al consumatore l’“anima” del vino, per
farlo abbiamo pensato all’arte come via per sollecitare il pensiero e l’intelligenza emotiva,
per arrivare a comunicare la sostanza del nostro prodotto e del nostro lavoro.
Come in passato, anche questa volta con Massimo c’è stata un’empatia immediata e con
il linguaggio dell’arte, lui è riuscito a creare un’opera che ci rappresenta. È chiaro che
per noi il vino è fonte di reddito, ma non è solo questo, perché vorremmo far intendere
l’importanza di una viticultura che agisce sul territorio esaltandone le caratteristiche.
Non si tratta solo di pensare all’arte come strumento di marketing della cantina, ma
di promuovere, attraverso l’arte, una viticoltura che custodisca e migliori il paesaggio
arrivando a produrre un vino senza forzature. Se riusciamo a diffondere il nostro modo
di lavorare, il territorio ne ricaverà sicuramente un beneficio, anche nella qualità dei vini
prodotti. Questo naturalmente è un investimento a lungo termine.
Federica Magrini: Quando si ha come obiettivo la comunicazione di un messaggio più
alto della semplice promozione del prodotto, si deve pensare a come rendere efficace il
racconto, perché il vino di alta qualità non si fabbrica ma si “coltiva” sia come processo
produttivo sia come progetto intellettuale. Ci sono tantissimi produttori che investono
nell’arte, ma noi volevamo andare oltre. Non doveva essere solo la commissione di
un’etichetta, di una mostra o di un’installazione nella tenuta o nella cantina. Per questa via
i due mondi si affiancano, ma non dialogano; era quindi necessario trovare un momento
di condivisione sul territorio inteso simbolicamente anche come Terra. È nato un’intesa:
abbiamo cercato di spiegare quello che avremmo voluto e Massimo ne ha colto il senso
dando forma alla nostra e alla sua sensibilità.
Massimo Poldelmengo – Il progetto e l’opera. XVI e Impronta del XVI
Gradisca D'isonzo, Via Cesare Battisti, 34, (Gorizia)