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Matej Krén – Scanner
Scanner è l’installazione appositamente ideata per il MAMbo, la più alta finora realizzata dall’artista slovacco, che a partire dagli anni Novanta ha proposto questa tipologia d’intervento in vari Paesi, muovendo dalla volontà di indagare l’impossibilità di una conquista umana che possa considerarsi definitiva o conclusa, proponendo invece un’esperienza individuale destabilizzante.
Comunicato stampa
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Dal 25 marzo al 25 luglio 2010 il MAMbo – Museo d'Arte Moderna di Bologna apre i suoi spazi espositivi a Matej Krén, che è intervenuto nella Sala delle Ciminiere con un'opera appartenente alla serie più rappresentativa e spettacolare dei suoi lavori: la creazione di ambienti architettonici costruiti con decine di migliaia di libri.
Scanner è l'installazione appositamente ideata per il MAMbo, la più imponente finora realizzata dall'artista, che a partire dagli anni Novanta ha proposto questa tipologia d'intervento in vari Paesi, muovendo dalla volontà di indagare l'impossibilità di una conquista umana che possa considerarsi definitiva o conclusa, proponendo invece un'esperienza individuale destabilizzante. Con un'altezza di 11 metri, raggiunta con l'accumulo di circa 90.000 volumi, l'imponente costruzione modifica consistentemente lo spazio del museo e, obbligando i visitatori ad entrare uno alla volta al suo interno, li spiazza con una spettacolare vertigine sensoriale.
La presenza al MAMbo, prima volta per Krén in Italia, è resa possibile grazie alla collaborazione con il LIC, Literárne informačné centrum di Bratislava (Centro di informazione letteraria), Associazione culturale che fa capo al Ministero della Cultura della Repubblica Slovacca e si pone come ideale coronamento della serie di eventi della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, di cui quest'anno la Slovacchia è ospite d'onore.
La mostra si inserisce inoltre a pieno titolo nella programmazione 2010 del museo, che celebra la multidisciplinarietà del distretto culturale della Manifattura delle Arti attraverso appuntamenti che indagano campi extra-artistici che vanno dal mondo del cinema, con la mostra su Federico Fellini, in collaborazione con la Cineteca, al design, con la mostra su Dino Gavina che il MAMbo ospiterà a settembre.
Considerato uno dei maggiori artisti slovacchi contemporanei, Matej Krén, nel corso della sua quasi trentennale carriera, si è particolarmente concentrato sui mezzi di elaborazione e di trasmissione del sapere, creando suggestive associazioni fra la loro relatività storica e ideologica e la sperimentazione di varie forme di illusionismo ottico e percettivo.
Lo spazio angusto dell'interno, moltiplicato e complicato da una serie di specchi, provoca una sensazione di sublime atterrimento, di alterazione che rimanda ad un infinito disorientante creato per destabilizzare le consuetudini spaziali tradizionalmente adottate. Lo specchio diventa lo strumento per creare l'illusione e, al contempo, per svelarla. Dal momento che lo spettatore può agilmente vedersi riflesso in un falso infinito e scoprirne l'illusione, il problema diventa la stabilità della percezione.
Centrale è il portato simbolico legato al concetto di libro, come oggetto o veicolo di significato, dove lo slittamento continuo tra il ruolo di contenitore e contenuto del sapere è piegato alla funzione-base di materia da scolpire, ammassata e stipata e quindi inaccessibile. Scelto in quanto luogo di conoscenza e simbolo di un pensiero libero legato ad un ambito prettamente umano, il libro viene “usato” come materiale grezzo per un processo artistico che recupera diversi livelli di interpretazione e di esistenza. Le dimensioni della costruzione impediscono la decifrazione dei titoli e dei nomi degli autori, mentre la massiccia accumulazione dei libri-mattone li priva del concetto che li definisce, impedendo la loro fruizione e ammutolendone il senso.
Gli interventi di Krén manipolano testimonianze significative della cultura accademica provocando uno sconfinamento tra realtà e illusione.
La parabola della Torre di Babele, come brillantemente intuito da Leonor Nazarè per Book Cell, altra rappresentativa opera dell'artista, viene alterata fino ad assumere il ruolo di “Biblioteca di Babele” in cui l'impossibilità di leggere e quindi catturare, trattenere la conoscenza diventa la metafora della “Caduta” constestuale alla presa di coscienza rispetto alla realtà.
Posto al centro dell'opera l'osservatore diventa artefice a sua volta, catturato dalla vibrazione di immagini e riflessi in bilico tra reale e immaginario, dove l'andamento dialettico architettura/opera, scultura/materiale, esterno/interno fonda sia il lavoro che la sua fruizione e pone lo spettatore come soggetto che agisce tra spirito e sostanza, tra pensiero e sensi.
Dopo il successo delle edizioni dedicate a Giuseppe Penone e Gilberto Zorio, in occasione dell'apertura della mostra sarà disponibile la terza uscita della collana INSTANT BOOK, edita da Edizioni MAMbo: in questo caso, l'intervista del curatore all'artista si trasforma in espediente per riflettere sia sull'opera di Matej Krén che sulla figura del critico e del curatore, dato che Egon Alter è Krén, nei panni inediti del suo stesso esegeta.
Dati tecnici dell'opera
Scanner, 2010
costruzione di libri, specchi, changing lights
h 11,70 m, Φ 11,63 m
# Praga, “Na Ultrafialce”, febbraio 2010
# IN MEDIAS RES: Matej Krén conversa con Egon Alter
Egon Alter: La tua è una produzione di largo respiro. Ti occupi infatti di pittura, fotografia, performance, video, musica, animazione, scultura e installazioni. Ti sei cimentato con diversi mezzi espressivi, ma il libro occupa per te un posto speciale. È un caso o un’intenzione? Come è nata l’idea di lavorare con i libri?
Matej Krén: L’utilizzo del libro nelle mie opere è stato il frutto di un lungo percorso. Nulla di premeditato, è stata un’evoluzione graduale. Per molto tempo non ho adoperato questo mezzo, né so dire cosa succederà in futuro. Il libro è molto importante per me, è davvero il mio “oggetto degli oggetti”.
EA: È innegabile che la presenza dei libri in certe tue opere sia un elemento insostituibile. Secondo te, questo dipende dalle loro particolari caratteristiche o qualità? Tu come definiresti un libro?
MK: Il libro è semplice e complesso al tempo stesso. È strettamente pratico, eppure formato da una grande varietà di significati, influenze, effetti. È l'incarnazione del nostro bisogno di comunicazione reciproca nello spazio e nel tempo. Ogni libro è contemporaneamente espressione particolare di un tutto e dell'ambizione interiore di ognuno di noi. Pochissimi oggetti sono in grado di raggiungere questo risultato.
Inoltre mi interessa molto capire il perché del nostro legame così forte con i libri, tanto che la loro sola presenza ha valenze emotive. Si tratta forse di dipendenza da loro? O piuttosto ne siamo i prigionieri? Dove risiede la vera ragione per cui esistono i libri? Le questioni che mi attraggono riguardano altre problematiche, al di là dei libri stessi. Ma senza di essi non potrei pormele…
EA: Allora attraverso l’utilizzo dei libri si mettono in moto altre dinamiche?
MK: Sì, attraverso l'uso dei libri scaturisce dalle mie opere un messaggio particolare, di ampia portata, che si manifesta contemporaneamente a più livelli. Dalla percezione del libro quale strumento di trasformazione della “complessità dell'esperienza” in una serie intangibile di singole caratteristiche, all’idea del libro come interfaccia tra mondi complementari, fino ad arrivare al suo utilizzo manifesto quale “semplice materiale da costruzione”.
EA: Una simile “dispersione” dei significati delle cose era presente, anche se in forme differenti, già nei tuoi lavori più vecchi. Nella serie delle cosiddette “dimore librarie” tale dispersione sembra essere il presupposto stesso della loro creazione. Sembra sia proprio la presenza dei libri a concedere questa possibilità di movimento intorno alla densa “topografia” dei significati. Ciò era molto evidente, ad esempio, nel progetto intitolato Passage.
MK: In quel progetto ho trasformato lo spettatore, fisicamente presente, nell'immagine di un pellegrino. Attraversando Passage, egli transita da una condizione “normale” a uno stato di caos interiore. Lo spettatore si muove lungo il confine tra realtà e illusione, in un continuo alternarsi tra ciò che è reale e ciò che è illusorio. Il tutto viene poi amplificato dalla natura stessa del materiale utilizzato per la realizzazione dell’opera, ovvero i libri. In tale contesto, i libri rappresentano un'ulteriore interfaccia oscillante tra realtà fisica e realtà virtuale. Lo spettatore si trova così all’interno di uno spazio cinetico chiuso e agitato a più livelli.
EA: Una forma analoga di “cinetismo” diventa anche il tema visivo di un’altra tua opera, Tele Well, creata per gli ambienti sacri dell’ossario di Sant’Anna a Skalica.
MK: Lì ho cercato di animare lo spazio attraverso il netto contrasto cromatico e grafico creato dai libri, ottenendo così un effetto “vibrante” simile all’effetto moiré. Era un ulteriore modo di agitare la presenza fisica dell’oggetto in quanto realtà che, pur nella sua solida determinatezza, sfugge continuamente alla nostra percezione e deve lottare per rimanere una presenza stabile nella nostra mente. In tutto ciò è stata fondamentale la cruciale congiunzione tra la mia opera e il presupposto concettuale di un “movimento interiore”alla base della struttura stessa dell’ossario, col suo stretto rapporto con altri mondi e il suo complesso labirinto di significati, simboli e insegnamenti della fede cristiana.
EA: Questo si collega anche al tuo vecchio interesse per l’esistenza paradossale, ovvero per la presenza dell’immagine, la rappresentazione e l’illusione.
MK: Probabilmente sì. Ho sempre sognato e desiderato di riuscire a entrare nell’immagine, di trovarmi “al suo interno”, non tanto per sfuggire al mondo, ma piuttosto perché immagino che là dentro si possa percepire molto più intensamente quello che altrimenti percepiamo sempre e solamente dal di fuori, in modo mediato. Penetrare questo confine è fisicamente impossibile, quindi la “perfezione” dell’immagine, l’illusione esasperata, diventavano un varco per entrarci più a fondo, in modo ancora più perfetto. Non era che un sogno, una sorta di esperimento. Col passare del tempo, il mio lavoro si è andato arricchendo di altri interessi e obiettivi, ma alla fine ho capito che ero ancora attratto da quel vecchio pensiero.
EA: Già nel 1979, in una delle tue prime opere, The Book of Illusions, ti eri occupato dell’illusione e del suo rapporto problematico con la realtà…
MK: Volevo esprimere il rapporto particolare tra la pittura illusoria e il suo modello, la realtà. Sparsi una serie di fogli bianchi strappati in mezzo al paesaggio e li pitturai direttamente sul posto, in modo tale da nascondere o camuffare, grazie all’inganno creato dalla pittura illusoria, la loro reale presenza fisica. E così alla fine i fogli “scomparvero” completamente fondendosi con il proprio “modello”. L’illusione aveva sostituito temporaneamente il paesaggio reale e, contemporaneamente, si era impressa sui fogli di carta, quasi “denaturata” nella sua forma più pura.
EA: In seguito tu, attraverso ulteriori “esplorazioni”, hai analizzato ancor più nel dettaglio il rapporto tra realtà e finzione. Di fronte a questo, fino a che punto lo spazio delle tue opere è reale? Esiste da qualche parte un confine tra realtà e illusione?
MK: Mi trovo spesso a lavorare sul confine tra spazio fisico e spazio non fisico, o “virtuale”. Mettendoli in connessione diretta, l’osservatore si trova davanti a una nuova situazione, a una sorta di “verosimiglianza suggestiva”, in cui realtà e finzione sono indistinguibili. Entra così in una nebulosa zona di passaggio definibile come “realtà sfuocata”.
EA: In un testo sul tuo lavoro, Peter Sykora fa riferimento al crepuscolo e ne parla come di un luogo in cui avviene una fusione tra poli opposti, in cui le “cose chiare e visibili del mondo” si confondono. Per questa ragione ti definisce un “Twilighter”. Egli infatti afferma che “il crepuscolo non è né parte dell’esistenza né parte del nulla, poiché è un confine, un’interfaccia tra di essi”, e insiste ulteriormente sull’esistenza metaforica di una tale natura del crepuscolo, definendolo come una “creatura costantemente di passaggio, che allenta il confine tra realtà e illusione”. Un simile rapporto antitetico con lo spazio è presente anche nel tema della serie di disegni intitolata Horizon, risalente al 1993. Qui una strada ideale si snoda nello spazio di una realtà ambigua, in cui la personale interiorità mentale e l'esteriorità fisica del mondo si confondono continuamente.
MK: In questa serie i progetti che avevo in mente, o meglio che intuivo, si mescolavano con la realtà fisica degli ambienti in cui allora vivevo. Sincronizzando l' incompatibilità tra livelli differenti, la loro vicendevole incongruenza si riuniva in un orizzonte comune, così che la loro natura reale veniva sottoposta a un esame qualitativo. Potrebbe essere stato solo un tentativo per ottenere una migliore percezione della presenza del “crepuscolo” che mi ha permesso di creare i disegni e l'intera mostra di oggetti e modelli che ne sono stati poi l’ulteriore sviluppo.
EA: Una concezione simile dello spazio è ravvisabile anche nelle tue opere più vecchie. In Parking, dei primi anni Novanta, per esempio. In quel progetto hai lavorato con uno spazio per così dire “negato”. L’esterno diventa interno e l'interno è proiettato fuori. Herve Gauville, nel suo testo su quest’opera, parla di “macchina che disorienta”, uno strumento che procede alla decostruzione dello spazio, dunque la struttura in qualche modo imprescindibile della nostra mente e della nostra fisicità. Gli ha ricordato anche la macchina di tortura di Kafka, poiché lacerare lo spazio equivale a lacerare anche la nostra corporalità. Il mezzo espressivo a cui ricorri principalmente in quest’opera sono gli specchi.
MK: “Lo specchio è una cosa strana”, diceva Borges. Esso sembra esistere a cavallo tra due mondi. Sa negare con discrezione la sua stessa presenza e fondersi perfettamente con l’ambiente circostante. Allo stesso tempo sa essere molto presente e mostrare con chiarezza la propria visibilità. Gli specchi sono per me strumenti importanti e mezzi di riflessione.
EA: In molte tue opere utilizzi lo specchio sfruttandone tutta la gamma di possibili impieghi. Altre volte, invece, ne custodisci gelosamente una sola precisa caratteristica.
MK: Lo specchio è un oggetto polimorfo, capace di sollevare molte domande. È l'immagine del reale, o non è altro che una lastra di vetro? Nell’opera intitolata Passage ne ho sfruttato le molteplici potenzialità: dalla sua capacità di nascondersi con discrezione camuffandosi nella fittizia “estensione” della realtà, alla sua abilità di creare efficacemente l’illusione di spazi grandissimi, fino alla sua trasformazione ottica attraverso il gioco di molteplici meta-riflessi di se stesso. Questo ci permette di intravedere un vago orizzonte in cui ravvisare la fine di tutta la proiezione illusoria.
EA: Questo genere di “meta-riflessi” era già presente nelle tue sequenze di xerografie della fine degli anni Settanta, quando riproducevi copie su copie dello stesso soggetto. La sequenza di quelle copie sembrava anche allora tendere a qualcosa di intrinseco, ciò che tu ora definisci “vago orizzonte”. Quella serie di stampe era già di stimolo per le tue opere successive legate all’utilizzo dello specchio, o ritieni che non vi sia alcun legame?
MK: No, non c’è un nesso diretto. D’altra parte, però, le opere a cui sono tornato più volte nel corso degli anni sono paradossalmente proprio quelle nate con l’intenzione di risolverle una volta per tutte.
EA: Al polo opposto del tuo pensiero vedo un'altra paradossale connessione con le opere in cui utilizzi lo specchio e le sue proiezioni nello spazio, in cui tutto sembra sprofondare in se stesso. Parlo ad esempio di Virtual Rock Garden, un’opera costituita da migliaia di pietre illusorie. Si tratta nuovamente di libri, ma questa volta trasformati in pietre.
MK: L’illusione di “mineralizzazione” o “sedimentazione” di libri in un giardino è anche uno strumento per confondere il contrasto tra natura e cultura. L’illusorietà dell’apparenza mi ha permesso di compiere uno spostamento sostanziale verso un'incrinatura della fiducia che solitamente riponiamo in questa e in altre concezioni dicotomiche del mondo e forse anche verso la proposta di “praticabilità” di altre idee.
EA: Il rapporto tra cultura e natura è presente anche in un altro tuo progetto risalente al 2008, per il momento solo ideato e non ancora realizzato, sempre legato al giardino, intitolato Parallel Garden, concepito come l'accostamento parallelo di elementi antitetici. L’osservatore si trova così al confine tra due mondi, il mondo autentico, naturale, e quello della proiezione illusoria di un orizzonte del mondo “artificiale” della cultura, caratterizzato dalla presenza del linguaggio, del testo e della memoria.
MK: Questo giardino ha la forma di un cubo scavato nel terreno. Un sistema di specchi posti ad angolo retto, combinandosi con i libri accatastati, crea una visione convincente di uno spazio inferiore continuo ed illimitato, posto sotto la superficie. Questa apparenza di parallelismo tra due “scene” è ottenuta grazie al sincronismo preciso di prospettiva e illuminazione, grazie al quale il giardino “funziona” ed è visibile da ogni lato. I visitatori possono così guardare dentro le cavità al di sotto della scena “reale” e all'interno della presenza di una natura diversa creata attraverso i libri come mezzo della memoria, che al tempo stesso provoca un mutamento nell'esperienza del luogo "sotto i loro piedi".
EA: Nel progetto History of Art lavori in modo consistente con il cambiamento del punto di vista, che arriva perfino a suggestionare la nostra stessa percezione visiva. In tale progetto riproduci "una visione dall’alto" sulla continuità del tempo, rappresentata da una serie di oggetti illuminati immersi nell’oscurità e sparpagliati negli ambienti museali. Mediante un processo metaforico e materiale al tempo stesso, si assiste alla trasformazione del materiale cartaceo di singoli volumi di storia dell’arte. La loro esistenza è stata sottoposta a un cambiamento drammatico, a una sorta di “denaturazione” della funzione attraverso la loro immersione nella materia del vetro fuso. Di fronte a queste opere si riesce a percepire letteralmente la compressione del tempo. L’ambiente museale si trasforma così in un collegamento con la Storia, ma anche in luogo di meditazione sul significato della fine.
Anche in uno dei tuoi ultimi progetti, Window, il tuo sguardo sembra essere volto altrove. Cosa si vede al di là di quella finestra?
MK: La vista su un qualche “luogo di mezzo”. Non solo nel senso spaziale del termine. Qui si perde la distinzione tra esterno e interno. La sostanza stessa della spazialità, il suo essere vuota, è disturbata. La proiezione illusoria al tempo stesso agisce in senso opposto portando all'autonegazione. Il collage cinetico di pezzi di carta strappati da libri, giornali e riviste che vibra nell'aria, riempie tutta l’opera e al suo interno trasforma tutto in una specie di “protomateria” di un'ancora informe dispersione del contrasto tra universo esteriore ed universo interiore.
EA: Il progetto di Scanner in mostra al MAMbo immerge i visitatori in una strana atmosfera, infatti loro stessi diventano parte dell’opera e completano così il significato della tua visione architettonica del processo di “trasformazione simbolica del mondo”. La forma finale dell’installazione è data da una vasta gamma di mezzi espressivi, quali l’illusione spaziale, la citazione, il cinetismo e l'uso di nuovi materiali, che infine convergono in una complessa semplicità con effetti sorprendenti. Cos’è questo Scanner?
MK: Si tratta di una metafora relativa al processo di scansione, la forma di un tipo di passaggio di dati gestaltici dal mondo reale al suo modello artificiale. Scanner rappresenta l'interfaccia percepita tra i due, in cui tutto "cambia di stato" trasformandosi in annotazioni immateriali, nella crescente memoria surrogata del nostro mondo. È una proiezione metaforica della prigionia esistenziale delle nostre concezioni della realtà nella geologia delle loro stratificazioni sedimentarie.
EA: Tu hai degli obiettivi creativi chiari, che però finiscono quasi sempre per soccombere di fronte ai tanti eventi fortuiti e imprevedibili che capitano. È possibile preparare tutto in anticipo e nei minimi dettagli, o almeno ipotizzarlo?
MK: Certo che no, e gran parte di ciò che poi accade si può a malapena intuire. La preparazione delle mie opere è sempre un’esperienza unica. Non nascono in fretta, ma sono anzi il frutto di una lunga fase di tentativi e collaborazioni con un gran numero di persone diverse. Non nascono soltanto da uno sforzo inventivo iniziale, ma hanno bisogno di un’intensa concentrazione successiva. Riuscire a portarle a compimento spesso richiede una grande dose di pazienza e un gran dispendio di energia. Anche in tal senso sono molto “complesse”. Ho collocato alcuni lavori in ambienti diversi da quello museale o dalla galleria d’arte, ambienti caratterizzati da uno specifico genius loci. Questi luoghi, unici nel loro genere, sono per me contesti di un’importanza imprescindibile, ma è anche vero che tali ambienti hanno portato con sé situazioni imprevedibili in fase di realizzazione. Sono in grado di intuirne molte in anticipo, ma altre si manifestano strada facendo e perfino quando ormai non ho alcun potere di intervento.
EA: Quando lavori alla realizzazione delle tue opere, che presentano difficoltà costruttive e tecniche molto particolari, sei sempre assistito da un gruppo piuttosto nutrito di collaboratori, che ti porti dietro e che ti aiutano a “materializzare” la tua visione. Quanto è importante tale collaborazione in fase di creazione dell’opera?
MK: La mia idea di collaborazione si è formata molto tempo fa, non è frutto della mia esperienza degli ultimi anni. Ho ancora chiaramente impressa nella memoria un'immagine che vidi, ancora bambino, nello studio di mio padre, l’artista Juraj Krén. C’erano molti dei suoi collaboratori, provenienti da varie professioni. Tutti lavoravano per raggiungere lo stesso obiettivo: la realizzazione dell’opera di mio padre. Ne rimasi affascinato e mi sembrò che, proprio grazie al loro contributo, tutto assumesse uno scopo ulteriore, nascosto. Molti anni dopo si sarebbe sviluppato un analogo senso di “fratellanza” intorno a me, durante il periodo del Comunismo. Da una società completamente devastata e depressa era nato comunque qualcosa che riuscì a cambiare tutto. Obiettivi e interessi in comune univano le persone, trasformando delle “normali” amicizie in qualcosa di molto più importante. Le piccole opportunità ne venivano in tal modo moltiplicate e l’intera impresa assumeva ben altre dimensioni. Oggi non potrei lavorare senza la collaborazione della mia squadra. Quello di cui mi sto occupando al momento sarebbe impossibile senza l’aiuto degli altri. Ma sono contento di essere ancora in grado di tornare indietro col pensiero e dare a questa nuda necessità ben altro significato. A volte ho perfino la sensazione di impegnarmi in tutto questo proprio perché questa società possa continuare ad esserci.
EA: Per te, il "viaggio" è più importante della meta?
MK: Non ho preferenze a questo riguardo, perciò per decidere se privilegiare questo o quell’aspetto deve esserci un continuo aggiustamento in base ai miei nuovi obiettivi e un adattamento di caso in caso. Paradossalmente, a volte proprio grazie a qualcosa che mi coglie di sorpresa, a qualche cambiamento inaspettato nel processo o nel metodo di lavoro, il viaggio stesso finisce per cambiare destinazione, al di là di quel che può essere stata la mia intenzione iniziale.
EA: Concludendo, vorrei farti ancora una domanda. Credi che potrai mai ritenere concluso il tuo lavoro? Qual è il tuo rapporto con i tuoi lavori dopo averli terminati?
MK: Il mio modo di rapportarmi alle mie opere non è mai quello di chi le considera opere finite. Non lo sono assolutamente. Il mio legame con esse è di altra natura. Mi sorprende però il fatto che tutte le mie opere abbiano, misteriosamente, qualcosa in comune tra loro. Una parte di me, una certa ombra inafferrabile. Una sorta di intenzione nell'intenzione. La mia non è una collezione di opere “finite”, ma è sempre presente il flusso di una “trama di intenzioni” che ci unisce. È un flusso che, però, non so controllare e, certamente, neppure fermare...
Scanner è l'installazione appositamente ideata per il MAMbo, la più imponente finora realizzata dall'artista, che a partire dagli anni Novanta ha proposto questa tipologia d'intervento in vari Paesi, muovendo dalla volontà di indagare l'impossibilità di una conquista umana che possa considerarsi definitiva o conclusa, proponendo invece un'esperienza individuale destabilizzante. Con un'altezza di 11 metri, raggiunta con l'accumulo di circa 90.000 volumi, l'imponente costruzione modifica consistentemente lo spazio del museo e, obbligando i visitatori ad entrare uno alla volta al suo interno, li spiazza con una spettacolare vertigine sensoriale.
La presenza al MAMbo, prima volta per Krén in Italia, è resa possibile grazie alla collaborazione con il LIC, Literárne informačné centrum di Bratislava (Centro di informazione letteraria), Associazione culturale che fa capo al Ministero della Cultura della Repubblica Slovacca e si pone come ideale coronamento della serie di eventi della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, di cui quest'anno la Slovacchia è ospite d'onore.
La mostra si inserisce inoltre a pieno titolo nella programmazione 2010 del museo, che celebra la multidisciplinarietà del distretto culturale della Manifattura delle Arti attraverso appuntamenti che indagano campi extra-artistici che vanno dal mondo del cinema, con la mostra su Federico Fellini, in collaborazione con la Cineteca, al design, con la mostra su Dino Gavina che il MAMbo ospiterà a settembre.
Considerato uno dei maggiori artisti slovacchi contemporanei, Matej Krén, nel corso della sua quasi trentennale carriera, si è particolarmente concentrato sui mezzi di elaborazione e di trasmissione del sapere, creando suggestive associazioni fra la loro relatività storica e ideologica e la sperimentazione di varie forme di illusionismo ottico e percettivo.
Lo spazio angusto dell'interno, moltiplicato e complicato da una serie di specchi, provoca una sensazione di sublime atterrimento, di alterazione che rimanda ad un infinito disorientante creato per destabilizzare le consuetudini spaziali tradizionalmente adottate. Lo specchio diventa lo strumento per creare l'illusione e, al contempo, per svelarla. Dal momento che lo spettatore può agilmente vedersi riflesso in un falso infinito e scoprirne l'illusione, il problema diventa la stabilità della percezione.
Centrale è il portato simbolico legato al concetto di libro, come oggetto o veicolo di significato, dove lo slittamento continuo tra il ruolo di contenitore e contenuto del sapere è piegato alla funzione-base di materia da scolpire, ammassata e stipata e quindi inaccessibile. Scelto in quanto luogo di conoscenza e simbolo di un pensiero libero legato ad un ambito prettamente umano, il libro viene “usato” come materiale grezzo per un processo artistico che recupera diversi livelli di interpretazione e di esistenza. Le dimensioni della costruzione impediscono la decifrazione dei titoli e dei nomi degli autori, mentre la massiccia accumulazione dei libri-mattone li priva del concetto che li definisce, impedendo la loro fruizione e ammutolendone il senso.
Gli interventi di Krén manipolano testimonianze significative della cultura accademica provocando uno sconfinamento tra realtà e illusione.
La parabola della Torre di Babele, come brillantemente intuito da Leonor Nazarè per Book Cell, altra rappresentativa opera dell'artista, viene alterata fino ad assumere il ruolo di “Biblioteca di Babele” in cui l'impossibilità di leggere e quindi catturare, trattenere la conoscenza diventa la metafora della “Caduta” constestuale alla presa di coscienza rispetto alla realtà.
Posto al centro dell'opera l'osservatore diventa artefice a sua volta, catturato dalla vibrazione di immagini e riflessi in bilico tra reale e immaginario, dove l'andamento dialettico architettura/opera, scultura/materiale, esterno/interno fonda sia il lavoro che la sua fruizione e pone lo spettatore come soggetto che agisce tra spirito e sostanza, tra pensiero e sensi.
Dopo il successo delle edizioni dedicate a Giuseppe Penone e Gilberto Zorio, in occasione dell'apertura della mostra sarà disponibile la terza uscita della collana INSTANT BOOK, edita da Edizioni MAMbo: in questo caso, l'intervista del curatore all'artista si trasforma in espediente per riflettere sia sull'opera di Matej Krén che sulla figura del critico e del curatore, dato che Egon Alter è Krén, nei panni inediti del suo stesso esegeta.
Dati tecnici dell'opera
Scanner, 2010
costruzione di libri, specchi, changing lights
h 11,70 m, Φ 11,63 m
# Praga, “Na Ultrafialce”, febbraio 2010
# IN MEDIAS RES: Matej Krén conversa con Egon Alter
Egon Alter: La tua è una produzione di largo respiro. Ti occupi infatti di pittura, fotografia, performance, video, musica, animazione, scultura e installazioni. Ti sei cimentato con diversi mezzi espressivi, ma il libro occupa per te un posto speciale. È un caso o un’intenzione? Come è nata l’idea di lavorare con i libri?
Matej Krén: L’utilizzo del libro nelle mie opere è stato il frutto di un lungo percorso. Nulla di premeditato, è stata un’evoluzione graduale. Per molto tempo non ho adoperato questo mezzo, né so dire cosa succederà in futuro. Il libro è molto importante per me, è davvero il mio “oggetto degli oggetti”.
EA: È innegabile che la presenza dei libri in certe tue opere sia un elemento insostituibile. Secondo te, questo dipende dalle loro particolari caratteristiche o qualità? Tu come definiresti un libro?
MK: Il libro è semplice e complesso al tempo stesso. È strettamente pratico, eppure formato da una grande varietà di significati, influenze, effetti. È l'incarnazione del nostro bisogno di comunicazione reciproca nello spazio e nel tempo. Ogni libro è contemporaneamente espressione particolare di un tutto e dell'ambizione interiore di ognuno di noi. Pochissimi oggetti sono in grado di raggiungere questo risultato.
Inoltre mi interessa molto capire il perché del nostro legame così forte con i libri, tanto che la loro sola presenza ha valenze emotive. Si tratta forse di dipendenza da loro? O piuttosto ne siamo i prigionieri? Dove risiede la vera ragione per cui esistono i libri? Le questioni che mi attraggono riguardano altre problematiche, al di là dei libri stessi. Ma senza di essi non potrei pormele…
EA: Allora attraverso l’utilizzo dei libri si mettono in moto altre dinamiche?
MK: Sì, attraverso l'uso dei libri scaturisce dalle mie opere un messaggio particolare, di ampia portata, che si manifesta contemporaneamente a più livelli. Dalla percezione del libro quale strumento di trasformazione della “complessità dell'esperienza” in una serie intangibile di singole caratteristiche, all’idea del libro come interfaccia tra mondi complementari, fino ad arrivare al suo utilizzo manifesto quale “semplice materiale da costruzione”.
EA: Una simile “dispersione” dei significati delle cose era presente, anche se in forme differenti, già nei tuoi lavori più vecchi. Nella serie delle cosiddette “dimore librarie” tale dispersione sembra essere il presupposto stesso della loro creazione. Sembra sia proprio la presenza dei libri a concedere questa possibilità di movimento intorno alla densa “topografia” dei significati. Ciò era molto evidente, ad esempio, nel progetto intitolato Passage.
MK: In quel progetto ho trasformato lo spettatore, fisicamente presente, nell'immagine di un pellegrino. Attraversando Passage, egli transita da una condizione “normale” a uno stato di caos interiore. Lo spettatore si muove lungo il confine tra realtà e illusione, in un continuo alternarsi tra ciò che è reale e ciò che è illusorio. Il tutto viene poi amplificato dalla natura stessa del materiale utilizzato per la realizzazione dell’opera, ovvero i libri. In tale contesto, i libri rappresentano un'ulteriore interfaccia oscillante tra realtà fisica e realtà virtuale. Lo spettatore si trova così all’interno di uno spazio cinetico chiuso e agitato a più livelli.
EA: Una forma analoga di “cinetismo” diventa anche il tema visivo di un’altra tua opera, Tele Well, creata per gli ambienti sacri dell’ossario di Sant’Anna a Skalica.
MK: Lì ho cercato di animare lo spazio attraverso il netto contrasto cromatico e grafico creato dai libri, ottenendo così un effetto “vibrante” simile all’effetto moiré. Era un ulteriore modo di agitare la presenza fisica dell’oggetto in quanto realtà che, pur nella sua solida determinatezza, sfugge continuamente alla nostra percezione e deve lottare per rimanere una presenza stabile nella nostra mente. In tutto ciò è stata fondamentale la cruciale congiunzione tra la mia opera e il presupposto concettuale di un “movimento interiore”alla base della struttura stessa dell’ossario, col suo stretto rapporto con altri mondi e il suo complesso labirinto di significati, simboli e insegnamenti della fede cristiana.
EA: Questo si collega anche al tuo vecchio interesse per l’esistenza paradossale, ovvero per la presenza dell’immagine, la rappresentazione e l’illusione.
MK: Probabilmente sì. Ho sempre sognato e desiderato di riuscire a entrare nell’immagine, di trovarmi “al suo interno”, non tanto per sfuggire al mondo, ma piuttosto perché immagino che là dentro si possa percepire molto più intensamente quello che altrimenti percepiamo sempre e solamente dal di fuori, in modo mediato. Penetrare questo confine è fisicamente impossibile, quindi la “perfezione” dell’immagine, l’illusione esasperata, diventavano un varco per entrarci più a fondo, in modo ancora più perfetto. Non era che un sogno, una sorta di esperimento. Col passare del tempo, il mio lavoro si è andato arricchendo di altri interessi e obiettivi, ma alla fine ho capito che ero ancora attratto da quel vecchio pensiero.
EA: Già nel 1979, in una delle tue prime opere, The Book of Illusions, ti eri occupato dell’illusione e del suo rapporto problematico con la realtà…
MK: Volevo esprimere il rapporto particolare tra la pittura illusoria e il suo modello, la realtà. Sparsi una serie di fogli bianchi strappati in mezzo al paesaggio e li pitturai direttamente sul posto, in modo tale da nascondere o camuffare, grazie all’inganno creato dalla pittura illusoria, la loro reale presenza fisica. E così alla fine i fogli “scomparvero” completamente fondendosi con il proprio “modello”. L’illusione aveva sostituito temporaneamente il paesaggio reale e, contemporaneamente, si era impressa sui fogli di carta, quasi “denaturata” nella sua forma più pura.
EA: In seguito tu, attraverso ulteriori “esplorazioni”, hai analizzato ancor più nel dettaglio il rapporto tra realtà e finzione. Di fronte a questo, fino a che punto lo spazio delle tue opere è reale? Esiste da qualche parte un confine tra realtà e illusione?
MK: Mi trovo spesso a lavorare sul confine tra spazio fisico e spazio non fisico, o “virtuale”. Mettendoli in connessione diretta, l’osservatore si trova davanti a una nuova situazione, a una sorta di “verosimiglianza suggestiva”, in cui realtà e finzione sono indistinguibili. Entra così in una nebulosa zona di passaggio definibile come “realtà sfuocata”.
EA: In un testo sul tuo lavoro, Peter Sykora fa riferimento al crepuscolo e ne parla come di un luogo in cui avviene una fusione tra poli opposti, in cui le “cose chiare e visibili del mondo” si confondono. Per questa ragione ti definisce un “Twilighter”. Egli infatti afferma che “il crepuscolo non è né parte dell’esistenza né parte del nulla, poiché è un confine, un’interfaccia tra di essi”, e insiste ulteriormente sull’esistenza metaforica di una tale natura del crepuscolo, definendolo come una “creatura costantemente di passaggio, che allenta il confine tra realtà e illusione”. Un simile rapporto antitetico con lo spazio è presente anche nel tema della serie di disegni intitolata Horizon, risalente al 1993. Qui una strada ideale si snoda nello spazio di una realtà ambigua, in cui la personale interiorità mentale e l'esteriorità fisica del mondo si confondono continuamente.
MK: In questa serie i progetti che avevo in mente, o meglio che intuivo, si mescolavano con la realtà fisica degli ambienti in cui allora vivevo. Sincronizzando l' incompatibilità tra livelli differenti, la loro vicendevole incongruenza si riuniva in un orizzonte comune, così che la loro natura reale veniva sottoposta a un esame qualitativo. Potrebbe essere stato solo un tentativo per ottenere una migliore percezione della presenza del “crepuscolo” che mi ha permesso di creare i disegni e l'intera mostra di oggetti e modelli che ne sono stati poi l’ulteriore sviluppo.
EA: Una concezione simile dello spazio è ravvisabile anche nelle tue opere più vecchie. In Parking, dei primi anni Novanta, per esempio. In quel progetto hai lavorato con uno spazio per così dire “negato”. L’esterno diventa interno e l'interno è proiettato fuori. Herve Gauville, nel suo testo su quest’opera, parla di “macchina che disorienta”, uno strumento che procede alla decostruzione dello spazio, dunque la struttura in qualche modo imprescindibile della nostra mente e della nostra fisicità. Gli ha ricordato anche la macchina di tortura di Kafka, poiché lacerare lo spazio equivale a lacerare anche la nostra corporalità. Il mezzo espressivo a cui ricorri principalmente in quest’opera sono gli specchi.
MK: “Lo specchio è una cosa strana”, diceva Borges. Esso sembra esistere a cavallo tra due mondi. Sa negare con discrezione la sua stessa presenza e fondersi perfettamente con l’ambiente circostante. Allo stesso tempo sa essere molto presente e mostrare con chiarezza la propria visibilità. Gli specchi sono per me strumenti importanti e mezzi di riflessione.
EA: In molte tue opere utilizzi lo specchio sfruttandone tutta la gamma di possibili impieghi. Altre volte, invece, ne custodisci gelosamente una sola precisa caratteristica.
MK: Lo specchio è un oggetto polimorfo, capace di sollevare molte domande. È l'immagine del reale, o non è altro che una lastra di vetro? Nell’opera intitolata Passage ne ho sfruttato le molteplici potenzialità: dalla sua capacità di nascondersi con discrezione camuffandosi nella fittizia “estensione” della realtà, alla sua abilità di creare efficacemente l’illusione di spazi grandissimi, fino alla sua trasformazione ottica attraverso il gioco di molteplici meta-riflessi di se stesso. Questo ci permette di intravedere un vago orizzonte in cui ravvisare la fine di tutta la proiezione illusoria.
EA: Questo genere di “meta-riflessi” era già presente nelle tue sequenze di xerografie della fine degli anni Settanta, quando riproducevi copie su copie dello stesso soggetto. La sequenza di quelle copie sembrava anche allora tendere a qualcosa di intrinseco, ciò che tu ora definisci “vago orizzonte”. Quella serie di stampe era già di stimolo per le tue opere successive legate all’utilizzo dello specchio, o ritieni che non vi sia alcun legame?
MK: No, non c’è un nesso diretto. D’altra parte, però, le opere a cui sono tornato più volte nel corso degli anni sono paradossalmente proprio quelle nate con l’intenzione di risolverle una volta per tutte.
EA: Al polo opposto del tuo pensiero vedo un'altra paradossale connessione con le opere in cui utilizzi lo specchio e le sue proiezioni nello spazio, in cui tutto sembra sprofondare in se stesso. Parlo ad esempio di Virtual Rock Garden, un’opera costituita da migliaia di pietre illusorie. Si tratta nuovamente di libri, ma questa volta trasformati in pietre.
MK: L’illusione di “mineralizzazione” o “sedimentazione” di libri in un giardino è anche uno strumento per confondere il contrasto tra natura e cultura. L’illusorietà dell’apparenza mi ha permesso di compiere uno spostamento sostanziale verso un'incrinatura della fiducia che solitamente riponiamo in questa e in altre concezioni dicotomiche del mondo e forse anche verso la proposta di “praticabilità” di altre idee.
EA: Il rapporto tra cultura e natura è presente anche in un altro tuo progetto risalente al 2008, per il momento solo ideato e non ancora realizzato, sempre legato al giardino, intitolato Parallel Garden, concepito come l'accostamento parallelo di elementi antitetici. L’osservatore si trova così al confine tra due mondi, il mondo autentico, naturale, e quello della proiezione illusoria di un orizzonte del mondo “artificiale” della cultura, caratterizzato dalla presenza del linguaggio, del testo e della memoria.
MK: Questo giardino ha la forma di un cubo scavato nel terreno. Un sistema di specchi posti ad angolo retto, combinandosi con i libri accatastati, crea una visione convincente di uno spazio inferiore continuo ed illimitato, posto sotto la superficie. Questa apparenza di parallelismo tra due “scene” è ottenuta grazie al sincronismo preciso di prospettiva e illuminazione, grazie al quale il giardino “funziona” ed è visibile da ogni lato. I visitatori possono così guardare dentro le cavità al di sotto della scena “reale” e all'interno della presenza di una natura diversa creata attraverso i libri come mezzo della memoria, che al tempo stesso provoca un mutamento nell'esperienza del luogo "sotto i loro piedi".
EA: Nel progetto History of Art lavori in modo consistente con il cambiamento del punto di vista, che arriva perfino a suggestionare la nostra stessa percezione visiva. In tale progetto riproduci "una visione dall’alto" sulla continuità del tempo, rappresentata da una serie di oggetti illuminati immersi nell’oscurità e sparpagliati negli ambienti museali. Mediante un processo metaforico e materiale al tempo stesso, si assiste alla trasformazione del materiale cartaceo di singoli volumi di storia dell’arte. La loro esistenza è stata sottoposta a un cambiamento drammatico, a una sorta di “denaturazione” della funzione attraverso la loro immersione nella materia del vetro fuso. Di fronte a queste opere si riesce a percepire letteralmente la compressione del tempo. L’ambiente museale si trasforma così in un collegamento con la Storia, ma anche in luogo di meditazione sul significato della fine.
Anche in uno dei tuoi ultimi progetti, Window, il tuo sguardo sembra essere volto altrove. Cosa si vede al di là di quella finestra?
MK: La vista su un qualche “luogo di mezzo”. Non solo nel senso spaziale del termine. Qui si perde la distinzione tra esterno e interno. La sostanza stessa della spazialità, il suo essere vuota, è disturbata. La proiezione illusoria al tempo stesso agisce in senso opposto portando all'autonegazione. Il collage cinetico di pezzi di carta strappati da libri, giornali e riviste che vibra nell'aria, riempie tutta l’opera e al suo interno trasforma tutto in una specie di “protomateria” di un'ancora informe dispersione del contrasto tra universo esteriore ed universo interiore.
EA: Il progetto di Scanner in mostra al MAMbo immerge i visitatori in una strana atmosfera, infatti loro stessi diventano parte dell’opera e completano così il significato della tua visione architettonica del processo di “trasformazione simbolica del mondo”. La forma finale dell’installazione è data da una vasta gamma di mezzi espressivi, quali l’illusione spaziale, la citazione, il cinetismo e l'uso di nuovi materiali, che infine convergono in una complessa semplicità con effetti sorprendenti. Cos’è questo Scanner?
MK: Si tratta di una metafora relativa al processo di scansione, la forma di un tipo di passaggio di dati gestaltici dal mondo reale al suo modello artificiale. Scanner rappresenta l'interfaccia percepita tra i due, in cui tutto "cambia di stato" trasformandosi in annotazioni immateriali, nella crescente memoria surrogata del nostro mondo. È una proiezione metaforica della prigionia esistenziale delle nostre concezioni della realtà nella geologia delle loro stratificazioni sedimentarie.
EA: Tu hai degli obiettivi creativi chiari, che però finiscono quasi sempre per soccombere di fronte ai tanti eventi fortuiti e imprevedibili che capitano. È possibile preparare tutto in anticipo e nei minimi dettagli, o almeno ipotizzarlo?
MK: Certo che no, e gran parte di ciò che poi accade si può a malapena intuire. La preparazione delle mie opere è sempre un’esperienza unica. Non nascono in fretta, ma sono anzi il frutto di una lunga fase di tentativi e collaborazioni con un gran numero di persone diverse. Non nascono soltanto da uno sforzo inventivo iniziale, ma hanno bisogno di un’intensa concentrazione successiva. Riuscire a portarle a compimento spesso richiede una grande dose di pazienza e un gran dispendio di energia. Anche in tal senso sono molto “complesse”. Ho collocato alcuni lavori in ambienti diversi da quello museale o dalla galleria d’arte, ambienti caratterizzati da uno specifico genius loci. Questi luoghi, unici nel loro genere, sono per me contesti di un’importanza imprescindibile, ma è anche vero che tali ambienti hanno portato con sé situazioni imprevedibili in fase di realizzazione. Sono in grado di intuirne molte in anticipo, ma altre si manifestano strada facendo e perfino quando ormai non ho alcun potere di intervento.
EA: Quando lavori alla realizzazione delle tue opere, che presentano difficoltà costruttive e tecniche molto particolari, sei sempre assistito da un gruppo piuttosto nutrito di collaboratori, che ti porti dietro e che ti aiutano a “materializzare” la tua visione. Quanto è importante tale collaborazione in fase di creazione dell’opera?
MK: La mia idea di collaborazione si è formata molto tempo fa, non è frutto della mia esperienza degli ultimi anni. Ho ancora chiaramente impressa nella memoria un'immagine che vidi, ancora bambino, nello studio di mio padre, l’artista Juraj Krén. C’erano molti dei suoi collaboratori, provenienti da varie professioni. Tutti lavoravano per raggiungere lo stesso obiettivo: la realizzazione dell’opera di mio padre. Ne rimasi affascinato e mi sembrò che, proprio grazie al loro contributo, tutto assumesse uno scopo ulteriore, nascosto. Molti anni dopo si sarebbe sviluppato un analogo senso di “fratellanza” intorno a me, durante il periodo del Comunismo. Da una società completamente devastata e depressa era nato comunque qualcosa che riuscì a cambiare tutto. Obiettivi e interessi in comune univano le persone, trasformando delle “normali” amicizie in qualcosa di molto più importante. Le piccole opportunità ne venivano in tal modo moltiplicate e l’intera impresa assumeva ben altre dimensioni. Oggi non potrei lavorare senza la collaborazione della mia squadra. Quello di cui mi sto occupando al momento sarebbe impossibile senza l’aiuto degli altri. Ma sono contento di essere ancora in grado di tornare indietro col pensiero e dare a questa nuda necessità ben altro significato. A volte ho perfino la sensazione di impegnarmi in tutto questo proprio perché questa società possa continuare ad esserci.
EA: Per te, il "viaggio" è più importante della meta?
MK: Non ho preferenze a questo riguardo, perciò per decidere se privilegiare questo o quell’aspetto deve esserci un continuo aggiustamento in base ai miei nuovi obiettivi e un adattamento di caso in caso. Paradossalmente, a volte proprio grazie a qualcosa che mi coglie di sorpresa, a qualche cambiamento inaspettato nel processo o nel metodo di lavoro, il viaggio stesso finisce per cambiare destinazione, al di là di quel che può essere stata la mia intenzione iniziale.
EA: Concludendo, vorrei farti ancora una domanda. Credi che potrai mai ritenere concluso il tuo lavoro? Qual è il tuo rapporto con i tuoi lavori dopo averli terminati?
MK: Il mio modo di rapportarmi alle mie opere non è mai quello di chi le considera opere finite. Non lo sono assolutamente. Il mio legame con esse è di altra natura. Mi sorprende però il fatto che tutte le mie opere abbiano, misteriosamente, qualcosa in comune tra loro. Una parte di me, una certa ombra inafferrabile. Una sorta di intenzione nell'intenzione. La mia non è una collezione di opere “finite”, ma è sempre presente il flusso di una “trama di intenzioni” che ci unisce. È un flusso che, però, non so controllare e, certamente, neppure fermare...
25
marzo 2010
Matej Krén – Scanner
Dal 25 marzo al 25 luglio 2010
arte contemporanea
Location
MAMBO – MUSEO D’ARTE MODERNA DI BOLOGNA
Bologna, Via Don Giovanni Minzoni, 14, (Bologna)
Bologna, Via Don Giovanni Minzoni, 14, (Bologna)
Biglietti
intero € 6 / ridotto € 4
Orario di apertura
martedì – domenica 10.00 – 18.00 giovedì 10.00 - 22.00 lunedì chiuso
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