Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
-
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
-
Matteo Bosi – Il corpo nuovo
Una peculiarità del lavoro di Matteo Bosi è appunto di far scattare nell’osservatore il ricordo di tantissime altre opere d’arte, non solo figurative, collocandolo al centro di mille audaci incroci. Si tratta, ben più che della rincorsa di una moda, di una necessità, visto che “l’ingegneria genetica, l’intelligenza artificiale, la chirurgia estetica, le realtà virtuali.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Il tema del corpo e delle sue molteplici mutazioni attraverso innesti, manipolazioni genetiche, appendici tecnologiche è in questo momento il più frequentato e familiare nell'immaginario collettivo, attraversando con modalità interdisciplinari tutta l'arte contemporanea, dalla letteratura alla danza, dal fumetto al teatro al cinema. Cercare di offrirne, anche per sommi capi, le coordinate, è impresa improba, nell'impossibilità di dar conto in poche righe dell'enorme quantità di possibili riferimenti.
Una peculiarità del lavoro di Matteo Bosi è appunto di far scattare nell'osservatore il ricordo di tantissime altre opere d'arte, non solo figurative, collocandolo al centro di mille audaci incroci. Si tratta, ben più che della rincorsa di una moda, di una necessità, visto che "l'ingegneria genetica, l'intelligenza artificiale, la chirurgia estetica, le realtà virtuali, le controculture ridefiniscono e alterano rapidamente non solo le modalità dell'arte ma anche le nostre stesse condizioni di esperienza fisica" (Francesca Alfano Miglietti). La consapevolezza di questa novità è presente in tutti noi che viviamo questo tempo, in grado maggiore o minore, e non solo tra gli appassionati d'arte e di cultura in genere; perciò tutti, soprattutto i giovani, la introiettano e la leggono e la creano nella vita quotidiana. Basti pensare alla diffusione di pratiche come il tatuaggio o il piercing .
Il cinema è il terreno in cui questi temi si traducono in immagini di facile presa e di maggiore diffusione tra il pubblico. Film diversissimi come
Blade Runner e
Tutto su mia madre mettono ambedue in discussione la concezione tradizionale della persona, l'uno ipotizzando la sua riproducibilità artificiale, l'altro descrivendo la differenza sessuale non più come differenza biologica, ma come scelta ideologica.
Ma è la tecnologia digitale che ha consentito tecnicamente a innumerevoli registi e videoartisti di scatenarsi, consentendo libertà creative impensabili e abbattendo le barriere tra cultura alta e cultura televisiva: il videoclip musicale è oggi uno dei principali strumenti di espressione artistica, i video di
Cunningham passano così da Mtv alla Biennale di Venezia 2001.
Una cosa è vedere certe sperimentazioni sullo schermo, un'altra è assistervi, per così dire, dal vivo come avviene in una lunga tradizione teatrale che ha le sue auguste radici in Antonin Artaud e conosce larga notorietà attraverso le sperimentazioni del Living Theatre, di Barba e Grotowski, fino al recente lavoro dei vari Antunez-Roca, Orlàn, Franko B., Ron Athey, moderni eredi del teatro della crudeltà. Dopo le apparizioni di questi attori/artisti in vari festival (personalmente ho vividi ricordi di esibizioni-shock a Volterra nel '97), la loro assunzione nel campo figurativo è stata 'ufficializzata' a Milano un paio d'anni fa dalla mostra
Rosso vivo , curata dalla citata Francesca Alfano Miglietti che con la rivista
Virus ha promosso in Italia il genere (tra le mostre all'estero, da ricordare almeno due esposizioni londinesi: la leggendaria Post human e la recente
Live culture alla Tate Modern).
L'incertezza dei confini tra teatro ed arte è peraltro storica, dato che la pratica delle performances risale già agli anni '60 e trova una brillante ricapitolazione nel famoso libro di Lea Vergine
Il corpo come linguaggio (1974). Da allora l'elenco degli artisti che pongono il corpo, e soprattutto il proprio corpo, al centro della loro pratica si è allungato a dismisura.
Un ulteriore doveroso riferimento è l'ambito fotografico, che nel corso dell'ultimo decennio ha piegato spesso il tema tradizionale del ritratto alla rappresentazione più o meno autobiografica di drammi storici e personali con modalità creative estrose, che hanno riguardato sia l'estensione dei soggetti rappresentabili (dalla Arbus in poi, migliaia di
freaks appartenenti ai più diversi strati sociali hanno popolato le riviste più patinate), sia la complessità di articolazione delle scene fotografate, sia naturalmente le possibilità di intervento in fase di stampa e le elaborazioni digitali. Mapplethorpe, Serrano, Witkin, Nan Goldin: nomi a caso tra le tante
star della fotografia che indagano il tema del corpo in modo imbarazzante e provocatorio.
Un tema così diffuso, accoppiato all'uso, anch'esso dilagante, del computer, potrebbe pregiudicare la possibilità di un'espressione originale ed autentica. In realtà dagli illustri modelli Bosi si distacca per molti versi, a partire dalla capacità peculiare di fondere diverse capacità artistiche nella stessa opera: Matteo non è un pittore, non è un performer, non è uno scenografo, non è un fotografo, non è un videoartista, ma è l'ambiziosa somma di tutti questi ruoli.
Le polaroid ingrandite sono solo il più frequente, ma non l'unico punto di partenza, sottoposto ad un intenso lavoro di rielaborazione digitale e manuale, teso a minimizzare e pervertire i contenuti di realtà a favore dell'immersione onirica, di atmosfere liquide ed incerte. Riesce difficile distinguere ciò che è dipinto o disegnato, ciò che è fotografato, ciò che è ottenuto tramite i programmi di elaborazione digitale. La scansione rappresenta il momento chiave del processo, nel suo dare omogeneità e coerenza a percorsi creativi eterogenei.
Il risultato è accuratamente antirealista, non solo per l'inverosimiglianza delle creature realizzate, ma per la patina di quadro o disegno che Matteo imprime alle immagini. Il mondo creato da Matteo è a tutti gli effetti il risultato di una mediazione artistica che ci tiene a non essere scambiata per realtà, mentre per la maggior parte degli artisti summenzionati, in particolare per i performer, il proposito è proprio quello di investire con la realtà l'arte tradizionale, dando luogo a situazioni sconvolgenti e impiegando se stessi come oggetto dell'opera. In questo senso il tratto più comune che si riscontra nel genere è il narcisismo, di se stessi e del proprio essere artista, anche quando si tratta di "recitare" altre vite, come fanno
Yasumasa Morimura e Francesco Vezzoli. Molti artisti famosi, da Hermann Nitsch a Gina Pane a Marina Abramovic, hanno in comune una forte componente sadomasochista, il cui parossismo è rappresentato dal tema della crocifissione, ripreso poi in fotografia da Andrès Serrano e Joel-Peter Witkin.
Proprio Witkin, nel complesso, appare il riferimento più pertinente per il lavoro di Matteo Bosi. Li accomuna il profondo senso del mistero, la presenza di un nocciolo di imperscrutabilità che non si lascia sondare, l'ansia di amore e redenzione, l'allusione ossessiva ad altri mondi più sognati che reali. Al contrario del forzato esibizionismo dei body-artisti, i personaggi di Witkin e Bosi hanno di solito il volto coperto e sfruttano appieno l'aspetto enigmatico, arcano, delle maschere: negano un'identità per assumerne altre totalmente rituali e simboliche.
Tuttavia il lavoro raffinatissimo di Witkin, pur con tutti i rapporti con la grande arte figurativa di Bosch e Goya, è comunque soprattutto il risultato della grande cura nella stampa, ore e ore passate in camera oscura per ottenere quell'effetto di incisione o al massimo di dagherrotipo che è un po' il suo marchio di fabbrica. La dimensione della fotografia definisce interamente l'artista (a questi livelli, non è certo un limite), mentre il raggio della ricerca di Matteo è molto più ampio.
Le differenze da Witkin sono marcate anche nei soggetti. La macabra ricerca di scherzi di natura, cadaveri e di "chiunque porti le ferite di Cristo" evidenzia la volontà di riscattare attraverso lo stile le parti più infime della Creazione, di schiaffare di fronte al pubblico una nuova gerarchia delle immagini, come in molta mitologia dark degli anni '80. In Matteo, invece, non c'è voglia di scandalo, né alcun intento politico, almeno diretto, di legittimazione di comportamenti outre , ma doloroso ed introverso ripiegamento sul sé, scandagli gettati negli anfratti più oscuri della mente, amore per i sotterranei più che per i riflettori, timidezza quasi, la timidezza di Ian Curtis, cantore suicida del malessere di una generazione:
Here are the young men, a weight on their shoulders
Here are the young men, well where have they been
We knocked on the doors of hell's darkest chambers
Pushed to the limits, we dragged ourselves in
Enrico Formica
Una peculiarità del lavoro di Matteo Bosi è appunto di far scattare nell'osservatore il ricordo di tantissime altre opere d'arte, non solo figurative, collocandolo al centro di mille audaci incroci. Si tratta, ben più che della rincorsa di una moda, di una necessità, visto che "l'ingegneria genetica, l'intelligenza artificiale, la chirurgia estetica, le realtà virtuali, le controculture ridefiniscono e alterano rapidamente non solo le modalità dell'arte ma anche le nostre stesse condizioni di esperienza fisica" (Francesca Alfano Miglietti). La consapevolezza di questa novità è presente in tutti noi che viviamo questo tempo, in grado maggiore o minore, e non solo tra gli appassionati d'arte e di cultura in genere; perciò tutti, soprattutto i giovani, la introiettano e la leggono e la creano nella vita quotidiana. Basti pensare alla diffusione di pratiche come il tatuaggio o il piercing .
Il cinema è il terreno in cui questi temi si traducono in immagini di facile presa e di maggiore diffusione tra il pubblico. Film diversissimi come
Blade Runner e
Tutto su mia madre mettono ambedue in discussione la concezione tradizionale della persona, l'uno ipotizzando la sua riproducibilità artificiale, l'altro descrivendo la differenza sessuale non più come differenza biologica, ma come scelta ideologica.
Ma è la tecnologia digitale che ha consentito tecnicamente a innumerevoli registi e videoartisti di scatenarsi, consentendo libertà creative impensabili e abbattendo le barriere tra cultura alta e cultura televisiva: il videoclip musicale è oggi uno dei principali strumenti di espressione artistica, i video di
Cunningham passano così da Mtv alla Biennale di Venezia 2001.
Una cosa è vedere certe sperimentazioni sullo schermo, un'altra è assistervi, per così dire, dal vivo come avviene in una lunga tradizione teatrale che ha le sue auguste radici in Antonin Artaud e conosce larga notorietà attraverso le sperimentazioni del Living Theatre, di Barba e Grotowski, fino al recente lavoro dei vari Antunez-Roca, Orlàn, Franko B., Ron Athey, moderni eredi del teatro della crudeltà. Dopo le apparizioni di questi attori/artisti in vari festival (personalmente ho vividi ricordi di esibizioni-shock a Volterra nel '97), la loro assunzione nel campo figurativo è stata 'ufficializzata' a Milano un paio d'anni fa dalla mostra
Rosso vivo , curata dalla citata Francesca Alfano Miglietti che con la rivista
Virus ha promosso in Italia il genere (tra le mostre all'estero, da ricordare almeno due esposizioni londinesi: la leggendaria Post human e la recente
Live culture alla Tate Modern).
L'incertezza dei confini tra teatro ed arte è peraltro storica, dato che la pratica delle performances risale già agli anni '60 e trova una brillante ricapitolazione nel famoso libro di Lea Vergine
Il corpo come linguaggio (1974). Da allora l'elenco degli artisti che pongono il corpo, e soprattutto il proprio corpo, al centro della loro pratica si è allungato a dismisura.
Un ulteriore doveroso riferimento è l'ambito fotografico, che nel corso dell'ultimo decennio ha piegato spesso il tema tradizionale del ritratto alla rappresentazione più o meno autobiografica di drammi storici e personali con modalità creative estrose, che hanno riguardato sia l'estensione dei soggetti rappresentabili (dalla Arbus in poi, migliaia di
freaks appartenenti ai più diversi strati sociali hanno popolato le riviste più patinate), sia la complessità di articolazione delle scene fotografate, sia naturalmente le possibilità di intervento in fase di stampa e le elaborazioni digitali. Mapplethorpe, Serrano, Witkin, Nan Goldin: nomi a caso tra le tante
star della fotografia che indagano il tema del corpo in modo imbarazzante e provocatorio.
Un tema così diffuso, accoppiato all'uso, anch'esso dilagante, del computer, potrebbe pregiudicare la possibilità di un'espressione originale ed autentica. In realtà dagli illustri modelli Bosi si distacca per molti versi, a partire dalla capacità peculiare di fondere diverse capacità artistiche nella stessa opera: Matteo non è un pittore, non è un performer, non è uno scenografo, non è un fotografo, non è un videoartista, ma è l'ambiziosa somma di tutti questi ruoli.
Le polaroid ingrandite sono solo il più frequente, ma non l'unico punto di partenza, sottoposto ad un intenso lavoro di rielaborazione digitale e manuale, teso a minimizzare e pervertire i contenuti di realtà a favore dell'immersione onirica, di atmosfere liquide ed incerte. Riesce difficile distinguere ciò che è dipinto o disegnato, ciò che è fotografato, ciò che è ottenuto tramite i programmi di elaborazione digitale. La scansione rappresenta il momento chiave del processo, nel suo dare omogeneità e coerenza a percorsi creativi eterogenei.
Il risultato è accuratamente antirealista, non solo per l'inverosimiglianza delle creature realizzate, ma per la patina di quadro o disegno che Matteo imprime alle immagini. Il mondo creato da Matteo è a tutti gli effetti il risultato di una mediazione artistica che ci tiene a non essere scambiata per realtà, mentre per la maggior parte degli artisti summenzionati, in particolare per i performer, il proposito è proprio quello di investire con la realtà l'arte tradizionale, dando luogo a situazioni sconvolgenti e impiegando se stessi come oggetto dell'opera. In questo senso il tratto più comune che si riscontra nel genere è il narcisismo, di se stessi e del proprio essere artista, anche quando si tratta di "recitare" altre vite, come fanno
Yasumasa Morimura e Francesco Vezzoli. Molti artisti famosi, da Hermann Nitsch a Gina Pane a Marina Abramovic, hanno in comune una forte componente sadomasochista, il cui parossismo è rappresentato dal tema della crocifissione, ripreso poi in fotografia da Andrès Serrano e Joel-Peter Witkin.
Proprio Witkin, nel complesso, appare il riferimento più pertinente per il lavoro di Matteo Bosi. Li accomuna il profondo senso del mistero, la presenza di un nocciolo di imperscrutabilità che non si lascia sondare, l'ansia di amore e redenzione, l'allusione ossessiva ad altri mondi più sognati che reali. Al contrario del forzato esibizionismo dei body-artisti, i personaggi di Witkin e Bosi hanno di solito il volto coperto e sfruttano appieno l'aspetto enigmatico, arcano, delle maschere: negano un'identità per assumerne altre totalmente rituali e simboliche.
Tuttavia il lavoro raffinatissimo di Witkin, pur con tutti i rapporti con la grande arte figurativa di Bosch e Goya, è comunque soprattutto il risultato della grande cura nella stampa, ore e ore passate in camera oscura per ottenere quell'effetto di incisione o al massimo di dagherrotipo che è un po' il suo marchio di fabbrica. La dimensione della fotografia definisce interamente l'artista (a questi livelli, non è certo un limite), mentre il raggio della ricerca di Matteo è molto più ampio.
Le differenze da Witkin sono marcate anche nei soggetti. La macabra ricerca di scherzi di natura, cadaveri e di "chiunque porti le ferite di Cristo" evidenzia la volontà di riscattare attraverso lo stile le parti più infime della Creazione, di schiaffare di fronte al pubblico una nuova gerarchia delle immagini, come in molta mitologia dark degli anni '80. In Matteo, invece, non c'è voglia di scandalo, né alcun intento politico, almeno diretto, di legittimazione di comportamenti outre , ma doloroso ed introverso ripiegamento sul sé, scandagli gettati negli anfratti più oscuri della mente, amore per i sotterranei più che per i riflettori, timidezza quasi, la timidezza di Ian Curtis, cantore suicida del malessere di una generazione:
Here are the young men, a weight on their shoulders
Here are the young men, well where have they been
We knocked on the doors of hell's darkest chambers
Pushed to the limits, we dragged ourselves in
Enrico Formica
17
gennaio 2004
Matteo Bosi – Il corpo nuovo
Dal 17 gennaio al 04 febbraio 2004
arte contemporanea
Location
SATURA – PALAZZO STELLA
Genova, Piazza Stella, 5/1, (Genova)
Genova, Piazza Stella, 5/1, (Genova)
Orario di apertura
dal martedì al sabato ore 16.30 - 19.00
chiuso lunedì e festivo
Vernissage
17 Gennaio 2004, ore 17.00