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Matthew Day Jackson – In search of…
Il progetto espositivo, a cura di Gianfranco Maraniello, ha come filo conduttore l’omonimo video basato su una popolare serie televisiva americana andata in onda dal 1976 al 1982, che indagava misteri e fenomeni paranormali. A partire dalle domande fondamentali sull’esistenza umana – chi siamo, da dove veniamo, cosa ci riserva il futuro – l’artista mette in atto un’esplorazione delle mitologie personali e collettive attraverso una selezione di lavori realizzati tra il 2007 e il 2010.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
COMUNICATO STAMPA
Matthew Day Jackson
In search of...
A cura di Gianfranco Maraniello
MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
27 gennaio – 1 maggio 2011
LA MOSTRA
Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna presenta In search of... la
prima personale in un museo europeo di Matthew Day Jackson, uno dei
maggiori protagonisti della nuova scena artistica americana, esponente
di una generazione che non è possibile inquadrare all'interno di un unico
movimento o di una logica avanguardistica.
Nella mostra, partendo dalle domande fondamentali che tutti ci poniamo
sull’esistenza umana - chi siamo, da dove veniamo, cosa ci riserva il
futuro - l’artista mette in atto un’esplorazione delle mitologie personali e
collettive attraverso una selezione di lavori realizzati tra il 2006 e il 2010.
La ricca esposizione trasforma lo spazio del MAMbo: lo fa vibrare di
cromatismo grazie a speciali pellicole che modificano l’impianto di
illuminazione attraverso il riverbero dell’intero prisma dei colori, lo
interroga con l’ambigua presenza di uno speciale pendolo di Foucault
calato da un’altezza di 16 metri, lo anima con opere a motore alimentate
da pannelli solari posti sulla terrazza del museo.
I CONTENUTI
In search of... ha come filo conduttore l’omonimo video di Jackson (2010)
basato sul format di una popolare serie televisiva americana andata in
onda dal 1976 al 1982, condotta da Leonard Nimoy (il celebre dottor Spock
di Star Trek), che indagava misteri e fenomeni paranormali.
Il filmato, diviso in tre parti scandite dall’inserimento di finti spot Audi,
unisce pezzi di girato tratti da banche immagini o dall’archivio Getty,
messinscene di interviste con intellettuali come David Mindell (storico e
ingegnere del MIT) o Alexander Dumbadze (scrittore e storico dell’arte)
e la conduzione narrativa interpretata con toni tra il solenne e l’ironico da
David Tompkins. Nella prima parte le forme antropomorfe riconoscibili
nelle nuvole, che si muovono intorno alla Terra vista dalla luna, sollevano
interrogativi sulle mitologie tracciate nei paesaggi terrestri. Nella seconda
1
parte la misteriosa scomparsa di Matthew Day Jackson fa da spunto per
evidenziare la complessa natura degli oggetti che ci lasciamo alle spalle,
come testimonianze della nostra esistenza. Nella terza ed ultima parte
alcuni manufatti ritrovati attraverso scavi archeologici rivelano l'esistenza
di Eidolon, una antica civiltà estinta.
Le situazioni narrate nel video rimandano alle modalità in cui gli esseri
umani partecipano alla cultura contemporanea e attraverso gli oggetti
che li circondano definiscono se stessi: tematiche rintracciabili in tutti gli
altri lavori in mostra al MAMbo.
Si pensi ad esempio a Study Collection VI (2010), un monumentale
scaffale d’acciaio colmo di manufatti (alcuni dei quali presenti anche nel
filmato) che insieme generano una sorta di scultura figurativa, attraverso
la quale l’artista si oppone a una visione lineare della storia affiancando
elementi disparati sul medesimo piano.
È il caso anche di The Tomb (2010), un’opera di grandi dimensioni ispirata
alla Tomba di Philippe Pot (XV secolo) attribuita a Antoine Le Moiturier ed
esposta al Louvre di Parigi. I monaci incappucciati che nella versione
originale portano l’effigie di Pot sono sostituiti da Jackson con astronauti
ricavati da scarti di legno e plastica e poi compressi in un unico blocco e
tagliati con un processo CNC (computer numerical control). Gli astronauti
trasportano sulle spalle una cassa d’acciaio e vetro contenente una
struttura scheletrica basata sul corpo dell’artista. Guardato attraverso
uno specchio unidirezionale che permette allo spettatore di vedere
simultaneamente la propria immagine e il contenuto dell’effigie, lo
scheletro di Matthew Day Jackson fornisce un riferimento autobiografico
e al contempo crea interconnessioni tra forme e racconti disparati.
In The Way We Were (2010), opera composta di sette forme craniche in
titanio, piombo, rame, bronzo, alluminio, ferro e acciaio ritroviamo la
ricerca delle origini dell’uomo, mentre in Me Dead at 35 (2009) e Me Dead
at 36 (2010) – due stampe fotografiche di grandi dimensioni - ritorna,
come accade in ogni sua mostra, il tema della simulazione della morte
dell’artista, della sua assenza, della sua esistenza esclusivamente
attraverso la materia dell’opera. L’idea del trapasso è sempre presente
come rinascita e palingenesi come nel grande gruppo scultoreo The
Tomb.
In mostra a Bologna è possibile vedere una serie importante di altri lavori
con un allestimento pensato per lo spazio stesso del museo dal curatore
insieme all’artista: Everett Coleman Jackson (2009), Foucault Pendulum
(2010), Reflections of the Sky (2010), J. Robert Oppenheimer (I am Become
Death, Destroyer of Worlds ) (2010), Chariot II (I like America and America
likes me) (2007/2010).
2
IL PERCORSO ESPOSITIVO
Entrando in mostra, il visitatore viene iniziato all’universo di Matthew Day
Jackson con una sala introduttiva che anticipa, tramite testi a muro, le
principali tematiche che si incontreranno lungo il percorso.
L’ingresso all’interno della Sala delle Ciminiere è di forte impatto grazie Il
prisma di colori voluto dall’artista che si riverbera nello spazio avvolgendo
The Tomb sulla sinistra, mentre il pendolo di Foucault Pendulum, in cui
sono riconoscibili le forme Futuriste di Renato Bertelli, scende dall’alto,
enfatizzando i 16 metri di altezza dell’ex Forno del pane. Al centro della
sala attira l’attenzione la carcassa d’auto da corsa che fa parte di
Chariot II (I like America and America likes me), opera alimentata da
pannelli solari. Oltre l’entrata, sulla sinistra il visitatore incontra l’immagine
del figlio dell’artista - Everett Coleman Jackson – e dalla parte opposta il
primo ritratto dell’artista morto - Me Dead at 35 - mentre tra le due
ciminiere scorrono per 12 metri le Ninfee di Monet, rivisitate in prospettiva
“lunare”, in Reflections of the Sky. Dal fondo della sala si accede all’area
destinata alla proiezione del film In search of..., chiave di volta
dell’esposizione. Negli spazi a destra del salone principale si collocano
infine la classificazione da museo di scienze di Study Collection VI ,
Robert Oppenheimer (I am Become Death, Destroyer of Worlds), ispirato
agli slanci visionari del celebre fisico, lo studio dell’evoluzione della
specie umana attraverso i teschi di The Way We Were e l’immagine del
corpo dell’artista avvolto in un sacco per cadaveri, dichiarato morto alla
viglia di questa come di ogni nuova mostra (Me Dead at 36 ).
Lungo il percorso di visita viene data la possibilità al pubblico di portare
con sé un lavoro di Matthew Day Jackson ritirando liberamente una copia
di The Lower 48, un poster-collage fotografico di immagini scattate in 48
stati americani, in cui si riconoscono “misteriose” forme antropomorfe.
MAMbo – CRITICISM
Con In search of... di Matthew Day Jackson prosegue il filone di ricerca
denominato Criticism che il MAMbo porta avanti fin dal 2006, ovvero un
percorso di riflessione e di indagine sulle pratiche artistiche e sulla
funzione del museo contemporaneo, che ha coinvolto artisti quali Ryan
Gander, Paolo Chiasera, Markus Schinwald, Giovanni Anselmo,
Christopher Williams, Bojan Sarcevic, Adam Chodzko, Eva Marisaldi, Diego
Perrone, Ding Yi, DeRijke/De Rooij, GuytonWalker, Natasha Sadr
Haghighian, Trisha Donnelly, Sarah Morris, Seth Price.
3
DIPARTIMENTO EDUCATIVO MAMbo
Attività didattiche, visite guidate e laboratori, a cura del Dipartimento
educativo MAMbo arricchiscono la mostra per l'intero periodo di
apertura. Visite speciali a In search of... si tengono ogni domenica alle
ore 17.30. Ingresso: € 4 a persona più ingresso in mostra (€ 6 intero, € 4
ridotto) minimo 6 max 30 persone. Info e prenotazioni: tel. 051/6496652
(dal lunedì al venerdì, dalle ore 10 alle ore 13); tel. 051/6496611 (dal sabato
alla domenica dalle 10 alle 17).
PARTNERSHIP E COLLABORAZIONI
Dopo l’anteprima al MAMbo, la mostra di Matthew Day Jackson farà
tappa in altre due importanti istituzioni museali europee: il Kunstmuseum
Luzern (Lucerna, Svizzera) e il Gemeente Museum den Haag (L’Aia,
Olanda).
Si ringraziano per la preziosa collaborazione le gallerie Peter Blum di New
York, Hauser & Wirth di Londra e GRIMM di Amsterdam.
PUBBLICAZIONI
Sul piano editoriale, in concomitanza con l'apertura della mostra è
disponibile la quinta uscita della collana INSTANT BOOK di Edizioni
MAMbo: agile strumento in cui una conversazione tra Matthew Day
Jackson e Gianfranco Maraniello è affiancata a immagini di opere
dell'artista.
Per ulteriori informazioni:
www.mambo-bologna.org
Ufficio Stampa MAMbo
Elisa Maria Cerra
Tel. +39 051 6496653 - 620
ufficiostampamambo@comune.bologna.it
4
LISTA OPERE
The Tomb, 2010
scarti di legno, plastica, acciaio inossidabile, vetro, sicomoro, falce, tubi
al neon, protesi di Charles e Ray Eames, filo, argento, collante, occhio di
tigre
321,3 x 238,8 x 315 cm
The Flowering Trees Collection
The Way We Were, 2010
Ed. 3/3 sette forme di teschio: piombo, rame, bronzo, ferro, acciaio,
alluminio, titanio, scaffale di acciaio inossidabile lucidato
43 x 320 x 36 cm
Peter Blum Gallery, New York
In Search of, 2010
Blue ray DVD, 30'
Courtesy dell'artista e Peter Blum Gallery, New York
Chariot II (I like America and America likes me), 2008/2010
carcassa dell’auto da corsa di Skip Nichols (distrutta), acciaio, lana
infeltrita, pelle, vetro colorato, tubi al neon, pannelli solari, fibra di vetro,
resina
172,72 x 231,14 x 490 cm
VanhaerentsArtCollection Brussels
Me Dead at 35, 2009
Stampa digitale C-Print
Edizione 1 di 5
104,1 x 78,7 cm.
Courtesy Collezione privata, Wassenaar
Me, Dead at 36, 2010
Stampa digitale C-Print, incorniciata, edizione API
208,6 x 90,5 x 3,8 cm
Courtesy l'artista e Peter Blum Gallery
Study Collection VI, 2010
Acciaio inossidabile, gesso, ottone, visori, radiografie, teste in gesso,
protesi di Eames, neon, vasi di argilla, trinitite, oggetto intagliato, legno,
asfalto, t-shirt, resina, lucite, prismi di luce, materiale a prototipazione
rapida, Haliotis iris, cemento, mattoni
243,8 x 579,1 x 30,5 cm
5
Collezione privata
Everett Coleman Jackson, 2009
Stampa digitale C-Print
79 x 53 cm
Courtesy l'artista
Foucault’s Pendulum, 2010
Pendolo di bronzo e ottone, cavo, tenditore
Diametro 30,5 cm
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth
Reflections of the Sky, 2010
Cartongesso, legno, acciaio inox
6 pezzi: 1) 200 x 243,8 cm; 2) 200 x 181,6 cm; 3) 200 x 184,2 cm; 4) 200 x 243,8
cm; 5) 200 x 243,8 cm; 6) 200 x 179,1 cm; misure complessive: 203,2 x 1280,2 x
7,6 cm. 545,5 kg.
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth
J. Robert Oppenheimer (I am become Death, destroyer of Worlds), 2010
Legno, plastica, scolpito tramite CNC
244 x 76 x 76 cm
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth
The Lower 48, 2006-2010
poster (a disposizione del pubblico)
91.4 x 102.9 cm
6
BIOGRAFIA BREVE
Matthew Day Jackson nasce nel 1974 a Panorama City, California (USA) e
attualmente vive e lavora a Brooklyn, New York.
Tra le mostre personali realizzate: Peter Blum Gallery Soho, New York
(2010); Peter Blum Gallery Chelsea, New York (2010); Douglas Hyde Gallery,
Dublino (2009); MIT List Visual Art Center, Cambridge, Massachussets
(2009); Contemporary Art Museum, Houston, Texas (2009); Blanton
Museum of Art, Austin, Texas (2007); Cubitt Artists Space, Londra (2006);
Portland Institute of Contemporary Art, Portland, Oregon (2006).
Lavori di Jackson sono stati esposti in numerose esposizioni collettive
presso: Ullens Center for Contemporary Art, Pechino (2010); Lousiana
Museum of Modern Art, Humlebæk, Danimarca (2009); Hayward Gallery,
Londra (2009); Punta della Dogana, Venezia (2009); Van Abbemuseum,
Eindhoven, Olanda (2008-9); Henry Art Gallery, Seattle, Washington (2008);
Contemporary Arts Museum Houston, Texas (2008); Whitney Biennial, New
York (2006) e Greater New York, PS1 Contemporary Art Center, New York
(2005).
7
MAMbo è sostenuto da:
Partnership con:
In collaborazione con:
Musei partner della mostra:
Si ringraziano i prestatori delle opere in mostra
Peter Blum Gallery, New York
Hauser & Wirth, London
Grimm Fine Art, Amsterdam
The Flowering Trees Collection
Vanhaerents Art Collection, Brussels
Unitamente a tutti gli altri prestatori che hanno preferito rimanere anonimi
8
SCHEDA TECNICA
Titolo: Matthew Day Jackson. In search of...
Curatore: Gianfranco Maraniello
Sede espositiva: MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
via Don Minzoni 14 – Bologna
Periodo di esposizione: 27 gennaio – 1 maggio 2011
Orari: martedì, mercoledì e venerdì 12.00 – 18.00
giovedì 12.00 – 22.00
sabato, domenica e festivi 12.00 – 20.00
Ingresso: Intero 6 €; ridotto 4 €
Informazioni: tel. 051 6496611 - fax 051 6496600
info@mambo-bologna.org
www.mambo-bologna.org
Visite guidate per gruppi e scuole la prenotazione è obbligatoria
Dipartimento educativo tel. 051 6496652 – 611
mamboedu@comune.bologna.it
Gruppi (massimo 30 persone): € 80
Visite in lingua: € 100
Scuole: € 50
Laboratori per le scuole: Laboratori per la scuola dell’obbligo e superiore:
Dipartimento educativo € 100 (comprensivi di visita senza radioguida)
tel. 051 6496626 – 628
mamboedu@comune.bologna.it
Catalogo: Instant book Edizioni MAMbo
Press: ufficiostampamambo@comune.bologna.it
tel. 051 6496653 - 620
MAMbo è sostenuto da: Regione Emilia-Romagna
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna
Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
Partnership con: UniCredit
In collaborazione con: Arte Fiera
9
Matthew Day Jackson conversa con Gianfranco Maraniello
Gianfranco Maraniello: Il tuo lavoro presenta così tanti spunti di riflessione
grazie agli ampi riferimenti e ai diversi processi creativi e materiali che
adotti... Tuttavia vorrei cominciare con l'idea stessa di “mostra” e, in
particolare, con la presenza ricorrente di tuoi ritratti da “morto” all'età che
hai nel momento in cui esponi pubblicamente le tue opere. Che tipo di
soglia o che specifico momento è per te una mostra?
Matthew Day Jackson: Una mostra è una collezione di oggetti che delinea
non solo dove sono stato, ma chi sono stato. Fare arte è per me un modo
di cercare me stesso, e un tentativo di dare un senso al mondo in cui vivo.
L’oggetto artistico è una registrazione, o una sorta di prova materiale, di
un’indagine su chi sto per diventare. Una volta creato l’oggetto, la
“lezione” è completa. Sono forse più vicino a comprendere chi sono? Non
ne sono certo, ma ci provo. Gli oggetti non seguono un approccio lineare,
e sono legati l’uno all’altro da un rapporto nebuloso. Ogni mostra è un
tentativo di imbrigliare questa nube di oggetti per comunicare una serie di
idee, che rappresentano un momento della mia vita. Nella speranza che
trovino risonanza in qualcun altro oltre che in me.Per quanto riguarda la
morte, un artista deve sempre lottare contro le implicazioni filosofiche
della creazione di un oggetto artistico. Come dicevo prima, ogni lavoro è
una registrazione di chi sono stato, ma alcuni di essi resteranno, magari
fra due secoli, a comunicare chi ero a trentasei anni. La serie Me Dead
at… è una meditazione sulla mia mortalità, e sull’idea che, andando
avanti, sarò costretto a lasciarmi alle spalle qualcosa di me. La serie
proseguirà fino alla mia morte, culminando con una foto finale del mio
cadavere. La scatterà Will Villalongo, o Sun Tek Chung, o Larry Bamburg,
o chiunque sia rimasto ancora in piedi.
G.M.: La tua stessa presenza si dà in molte precedenti opere che hai
realizzato. Nella produzione filmica, ad esempio, sei colui che si assume
la responsabilità delle nefandezze derivanti dalla cultura maschilista
(Untitled - A Mother's Prayer for Her Son), mentre sono diversi i ruoli che
interpreti in Paradise Now. Nel tuo ultimo In Search of... sei, invece, lo
“scomparso” evocato dalla presenza in scena dei tuoi genitori che ti
cercano disperatamente, dal tuo furgone abbandonato e da immagini del
passato che ti ritraggono. Ci sono solo tracce di te ora. Pare che tu stia
suggerendo una diversa (aliena) realtà in cui sia possibile trovarti. Hai
forse abbandonato questo mondo?
M.D.J.: Credo sia il contrario. Ciò che sto facendo è perdermi in questo
mondo. Il che non è male, dato che abbiamo sempre bisogno di assumere
10
parte del mondo che ci circonda nel tentativo di diventare ciò che siamo.
Il mondo diventa parte di me, e io di esso. Fare arte è un modo per non
esserci: l’opera è una traccia della mia vita vissuta su questo mondo, e in
esso.
G.M.: Ho l'impressione che tu utilizzi l'arte come una “controvita” per citare
il grandioso titolo di un interessante e recente libro di Philip Roth. Ti
mantieni in una condizione permanente di manipolazione di memoria,
storia e futuro da “impastare” con finzione e immaginazione. Tu parli di
“questo mondo”, ma lo fai ricorrendo a fantascienza e archeologia. Forse
l'arte è proprio tale incerto (o impossibile) collocarsi nel confine di tutti
questi ambiti?
M.D.J.: Sì, ma al di là dell’Arte, è in questo mondo di fatti e finzioni che tutti
noi viviamo. Viviamo in un mondo che è al contempo sintetico e naturale,
composto di verità e di falsità, di bene e male; è un mondo che esiste
nelle polarità estreme di ogni sua parte. Mi sono avvicinato a quest’idea
quando ho cominciato a rivisitare alcuni elementi della storia
statunitense, rendendomi gradualmente conto che gran parte di ciò che
mi era stato insegnato da piccolo è falso, almeno in parte. Nella finzione
c’è un elemento di verità, o un fondamento di realtà, che ci permette di
proiettare noi stessi nella narrazione per identificarci con i personaggi o
con una situazione. Questa constatazione, invertita, descrive bene il
racconto storiografico. Nella storia c’è un elemento di finzione, o un
fondamento di falsità, che ci impedisce di proiettarci nella narrazione e di
identificarci con i personaggi o con una situazione.
Non c’è bianco, né nero, solo grigio. La verità sta nel grigio.
G.M.: O forse è un prisma con il suo intero spettro cromatico, come hai
dimostrato al MAMbo intervenendo sull'impianto di illuminazione del
museo?
M.D.J.: La combinazione di tutti i colori dello spettro crea la luce bianca,
ed è in questa luce che tutti noi esistiamo. Tutto ciò che vediamo è luce
riflessa dalle superfici di ciò che ci circonda. Usare lo spettro cromatico
nel mio lavoro è un modo per dire “tutto” ed è lo sfondo di tutto il resto.
Non è sempre presente, ma lo uso abbastanza spesso. Il grigio è la
combinazione del bianco e del nero, che potrebbero essere considerate
polarità opposte. Nel mio lavoro, potremmo considerare lo spettro
cromatico come il “tutto” e la scala dei grigi come l’esperienza umana
all’interno di quel “tutto”.
11
G.M.: Anche l'arte rientra tra le fonti consapevoli o privilegiate del tuo
immaginario?
M.D.J.: Non sono certo di capire la tua domanda, ma forse posso
rispondere così: gli artisti non sono speciali, per cui neppure l’arte lo è. Si
dà il caso che l’arte sia una lingua in cui mi esprimo molto liberamente. Le
parole non funzionano altrettanto bene. E inoltre, l’Arte non è la fonte,
quanto piuttosto il risultato della vita che vivo in quanto Artista. L’Arte è la
somma della mia esperienza.
Hai la sensazione che la mia opera sia lo spazio fondamentale, o
privilegiato, del mio immaginario?
G.M.: Ho la sensazione che il tuo immaginario – tramite il tuo lavoro –
assuma un significato universale e vada al di là di ogni proiezione
soggettiva. Comincia come “tuo” immaginario e si trasforma in una sorta
di moderna mitologia. Per fortuna la tua risposta è stata più interessante
della mia domanda. Intendevo semplicemente indagare le fonti artistiche
del tuo lavoro per poi portarti a commentare alcune tue opere come The
Tomb o la straordinaria versione (sotto una luce “lunare”) della pitturaambiente
di Monet.
M.D.J.: Non c’è una vera e propria fonte artistica. Non accade mai che io
veda un’opera d’arte e decida di reagire, o rispondere, ad essa. Ogni
volta che il mio lavoro include una citazione (Nauman, Beuys, ecc.) si
tratta piuttosto di un punto in cui mi sono trovato, forse, a dire qualcosa
che suonava familiare, e a quel punto mi sono rivolto alla fonte da cui
l’avevo preso. La mia comprensione di un certo lavoro, o di un certo
artista, è resa visibile, senza nascondigli. Il modo in cui la citazione si
integra agli altri elementi della scultura o della mostra è ciò che permette
di far sentire la mia voce, che la rende visibile. The Tomb, Reflections on
Water-Lily Pond e Pendulum sono tutte forme “prese a prestito”, ma nel
senso che in esse modifico sia il soggetto che il predicato. La forma resta
la medesima (o, perlomeno, resta riconoscibile), ma ciò di cui parla il
lavoro trascende il significato iniziale, e il rapporto fra queste opere e le
altre nella mostra ne amplia il campo semantico. A fare da motore, qui, è
la mitologia, il rapporto che si instaura fra due culture attraverso un
formalismo condiviso da miti apparentemente irrelati. Mi interessa anche
la comprensione di questioni filosofiche quotidiane che determinano in
larga parte ciò che tutti noi siamo, e perché siamo qui. Questo, spero, è
universale.
G.M.: Credo che molta critica d'arte si basi su stereotipi e non sia
adeguata a comprendere modi e pratiche di alcuni artisti di oggi. Parlare
12
di “remake”, ad esempio, sarebbe facile ma fuorviante in riferimento al
tuo lavoro. Penso infatti che tu abbia appena detto qualcosa di assai
importante per una generazione che non ha più alcun coinvolgimento
con le avanguardie, né condivide una specifica ideologia, ma che, in
modalità inedite, è ancora interessata al valore dell'utopia in relazione ai
temi della memoria e della comprensione della condizione di esseri
umani. Le cose accadono nella nostra mente, ma come scrive Borges: «Le
cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i
dettagli quando la gente le dimentichi. È classico l'esempio di un'antica
soglia, che perdurò finché un mendicante venne a visitarla, e che alla
morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo,
salvarono le rovine di un anfiteatro».
M.D.J.: Per prima cosa, credo che gli artisti della mia generazione
abbiano in massima parte abbandonato il tracciato delle ideologie,
perché in generale non è cool credere in qualche cosa. Sì, si potrebbe
obiettare che anche non credere in nulla è un’ideologia, ma mi sembra
che sarebbe troppo facile. Siamo stati cresciuti da persone convinte che
avrebbero cambiato il mondo, e la nostra inclinazione naturale predilige
posizioni opposte a quelle dei nostri genitori. È una cosa che comincia
dalla nascita e prosegue poi per tutta la vita, come sto iniziando a
scoprire io stesso con mio figlio. L’idea di un remake in un’epoca
governata da un totale sovraccarico di immagini è un modo, per l’artista,
di fare qualcosa di reale, di concreto, imparando i passi che sono stati
necessari al creatore iniziale per produrre l’originale. Si tratta di un
processo piuttosto intimo, una sorta di conoscenza, dato che in genere il
remake fa parte di un tentativo di esprimere se stessi.
G.M.: OK, allora insisto su questo mondo borgesiano di Finzioni e cito un
altro passo dal tuo caro Tlön, Uqbar, Orbis Tertius: «La geometria di Tlön
comprende due discipline abbastanza distinte: la visuale e la tattile».
Queste polarità potrebbero descrivere il tuo stesso modo di lavorare. Molti
artisti oggi necessitano di alibi concettuali per i loro interventi e i visitatori
dei musei sono spesso delusi da questo “stile”. Non credo che ciò ti
riguardi: malgrado la densità dei riferimenti e la ricchezza di elementi
narrativi, le tue opere sono autosufficienti, fondate su una straordinaria
forza visiva e tattile. Questa caratteristica è meditata o dipende dal tuo
modo quotidiano di affrontare il lavoro?
M.D.J.: Il riferimento non è mai lasciato a se stesso, ed è qualificato dai
suoi vicini; la sua origine, d’altro canto, è messa in discussione dal nuovo
contesto. In un certo senso è come curare una mostra collettiva
all’interno di una scultura. Ogni materiale, ogni colore, ogni forma, ogni
13
citazione, va considerata sia di per sé che nella sua giustapposizione ad
ogni altro elemento. Mi verrebbe da dire che le uniche cose che
cambiano in modo quotidiano sono le cose personali, ma il mio lavoro è
l’unica costante che attraversa la mia vita. Verrebbe da dire che questa è
una delle ragioni principali per cui lo faccio. Mi fa piacere che tu veda
una logica Tloniana nei miei processi, dato che Tlön non è a tutti gli effetti
un luogo e i suoi abitanti fittizi si relazionano al mondo in un modo molto
diverso da come lo faremmo noi. Quando ho letto quel racconto per la
prima volta ho pensato che si trattasse di una parodia della società
contemporanea.
Il visivo e il tattile coesistono in armonia perfetta quando il lavoro è
buono. Questo è un altro modo di dire che Materia e Forma esistono in
armonia perfetta quando il lavoro è buono.
G.M.: In occasione di una visita preparatoria al MAMbo ho notato la tua
sorpresa nel ritrovare nelle collezioni del museo un'opera che, come mi
hai rivelato, tu stesso avevi visto poche settimane prima alla fiera di
Basilea e che avevi cercato di acquistare. Si tratta di un lavoro di
Elisabetta Benassi che presenta un telegramma inviato da Buckminster
Fuller a Isamu Noguchi. Strana coincidenza: il museo l'ha comprata poco
prima che lo facessi tu. Ora, però, sono curioso di sapere perché eri
interessato a tale lavoro di un altro artista. Anche l'idea di acquisirlo...
che cosa significa “possedere arte” per te?
M.D.J.: L’opera è un documento che registra il processo di scoperta di me
stesso all’interno della società. Lo stesso vale per gli altri artisti. Mi sono
innamorato di quel lavoro perché ai tempi stavo leggendo le teorie della
relatività generale e particolare di Einstein, e sognavo di avere un amico
come Bucky che mi mandasse lo stesso telegramma che aveva mandato
a Isamu Noguchi. Bucky e Isamu Noguchi erano amici da una vita, e il
telegramma che Bucky gli ha mandato era un documento di tale amicizia.
Mi aveva molto colpito anche il tappeto1 di Benassi che avevo visto
quell’anno ad Art Unlimited, a Basilea. Mi sembrava che mostrasse un
matrimonio perfetto di materiali e significato, avrei voluto essere stato io a
farlo. Il tappeto è un materiale che rende confortevole il nostro spazio più
intimo (quello domestico), e il telegramma rendeva confortevole, o
compresa, un’idea, oltre ad essere il documento intimo di un’amicizia. Il
disegno che volevo acquistare era per me la traccia di un momento, e mi
offriva un riflesso di me stesso. Ciò che intendo dire è che mostrava che
1 A Basilea era esposto anche un tappeto su cui era ricamato il
medesimo testo del telegramma-lettera di Buckminster Fuller a
Noguchi.
14
non ero solo in una parte della mia ricerca. Vedo ogni artista come un
compatriota che lavora con tutti gli altri per dare forma al linguaggio
dell’arte. E quell’opera era una traccia anche di questo. Non ho comprato
molti lavori, ma ne ho scambiati un sacco: ognuno di essi è una traccia
dei miei interessi riflessi nell’opera altrui. È una cosa piuttosto intima,
benché non differisca granché da qualunque altro acquisto. Gli abiti che
indosso, il posto in cui vivo, la birra che bevo, il mio ristorante preferito
non sono che espressioni esterne di chi sono, e di chi voglio essere.
G.M.: “Bucky” è così ricorrente nella tua opera. Cosa rappresenta per il
tuo orizzonte intellettuale?
M.D.J.: Buckminster Fuller non seguiva un percorso lineare nella sua
ricerca di risposte ai problemi che, secondo lui, bisognava risolvere nel
mondo in cui viveva. Si concedeva spesso di andare controcorrente,
osava avere torto. Era un visionario: la sua scienza, la sua architettura, la
sua ingegneria non avevano il “successo” di quelle dei suoi
contemporanei, ma la sua visione è viva a tutt’oggi, non tanto nelle forme
che ha prodotto o nei suoi scritti, quanto piuttosto nella struttura formale
che componeva la vita che ha vissuto. È da questo che ho tratto
ispirazione. Bisogna essere spregiudicatamente nel torto, ottimisti sino al
ridicolo, bisogna cogliere un’opportunità anche se tutto e tutti ti dicono di
non farlo. È questo che significa farsi guidare da una visione. È una cosa
molto vicina all’abbandono totale, dato che il portatore di una visione non
è che un mezzo per produrre e proteggere i frutti della sua visione.
La cosa più importante che un artista possa fare per se stesso è farsi
molte concessioni. La seconda cosa più importante è che la conferma
che cerca non coincida coi soldi, col successo, con altri scopi vacui. La
conferma viene quando i sogni della tua carne possono essere esperiti
da tutti gli altri sensi. Credo che sia una sorta di sfizio, un regalino, come
quelli che si danno al proprio cane quando si comporta bene o porta a
termine un esercizio. È in questo che devo molto a ciò che ho scoperto su
Bucky, oltre che al modo in cui sono stato educato.
G.M.: A proposito di arte e valori come "soldi, successo e altri scopi vacui",
come sei giunto a pensare agli spot dell'Audi e a integrarli nel tuo In
Search of...?
M.D.J.: La pubblicità dell’Audi Face of Vorsprung non è che una delle
molte che volevo usare in quel video. Ce n’è anche una dell’American
Express di cui ho cercato di ottenere i diritti, ma mi hanno fatto una
quantità eccezionale di problemi. Lo spot dell’Audi è l’espressione
concisa di qualcosa che mi interessa molto, e cioè l’idea che si possa
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trovare il nostro riflesso nell’ambiente che ci circonda e negli oggetti che
consumiamo. Al di là dell’ambiente naturale, che ho esplorato nella
realizzazione dell’opera The Lower 48 (che è una collezione di forme
naturali antropomorfe raccolte nei cosiddetti “Stati Uniti contigui”, quegli
stati, cioè, che formano il blocco continentale a sud del Canada,
escludendo quindi Hawaii e Alaska), vediamo il nostro riflesso in ciò che
compriamo, che a propria volta diviene espressione di ciò che siamo. È un
processo molto intimo. Quella pubblicità esprime perfettamente
quest’idea. Usarla come una sorta di trattato all’interno di un’opera d’arte
mi pareva interessante ed è quello che sto cercando di esplorare nella
mia produzione attuale. È qualcosa che deriva dalla consapevolezza di
vivere in un ambiente di specchi che riflettono la mia identità. Io divento
loro, nel diventare me stesso.
G.M.: Mi pare molto interessante quel che definisci "una sorta di trattato
all’interno di un’opera d’arte". Non credi però che una tale formula possa
essere anche il sintomo di una qualche carenza, di un fallimento nella
pratica artistica contemporanea o, quanto meno, nell'autonomia delle
sue forme ed espressioni?
M.D.J.: Non c’è autonomia delle forme, né delle espressioni. Tutto ciò che
facciamo cresce sugli sviluppi forgiati dai nostri predecessori. Non è una
linea retta, per cui forse sarebbe meglio dirla così: ogni nostra azione è
influenzata dalla sommatoria della storia umana. Allo stesso tempo, non
ci sono che nuove idee, per quanto il presente possa dare spazio a
chimere del passato, non appena queste si riflettono sull’ambiente in cui
sono rinate divengono qualcosa di nuovo. Le combinazioni infinitamente
remixate, fraintese, e parziali, di ogni cosa – dalle Opere d’Arte alla
riproduzione dei mammiferi – non fanno che rendere tutto nuovo di zecca.
Queste due credenze possono coesistere perfettamente, ed è la cosa più
bella della vita. C’è spazio per tutti e per tutto.
Sono tuo, tu sei mia, e siamo ciò che siamo… (una specie di
bastardizzazione di Judy Blue Eyes di Crosby Stills Nash and Young)
G.M.: Ma tu credi che l'arte sia un modo speciale per modulare i riverberi
di tutto quel che ci arriva dai nostri predecessori o dal nostro tempo?
Intendo dire: il tuo In Search of... evidenzia anche che tutti gli esseri
umani hanno bisogno di figurarsi il mondo e, così, di regolarlo in una sorta
di antropometria di quel che si vive. Ma cosa c'è di così specifico per
l'arte? Cosa può consentire a questa assurda pratica di rendere le nostre
vite immense oppure appena sopportabili?
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M.D.J.: L’arte si concentra sul presente e trova ispirazione nelle azioni dei
miei predecessori. L’arte non dovrebbe farsi fardello del dovere di
insegnare qualcosa, di rendere la vita più facile, di fornire illuminazioni.
L’arte è come un telescopio (o un microscopio, poco cambia), nella misura
in cui non è che uno strumento per aiutarci a vedere cose che a occhio
nudo ci sono invisibili. Questi strumenti sono interamente passivi e,
pertanto, dipendono completamente dal modo in cui sono usati. Chi ha
creato uno strumento come un telescopio o un microscopio vedeva in ciò
che aveva fatto un mezzo per guardare i corpi celesti o le cellule. Lo
stesso, in un certo senso, vale per gli oggetti d’arte: non parlano di tutto,
e hanno uno spettro semantico designato dall’artista. L’artista scopre
alcune cose circa ciò che vede realizzando una certa opera, ma non per
questo lo scopo è insegnare qualcosa al pubblico o condurlo da qualche
parte; forse non si vuole altro che offrirgli un’ispirazione, dargli il
permesso di cominciare, o condurre più oltre, la sua ricerca.
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Matthew Day Jackson
In search of...
A cura di Gianfranco Maraniello
MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
27 gennaio – 1 maggio 2011
LA MOSTRA
Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna presenta In search of... la
prima personale in un museo europeo di Matthew Day Jackson, uno dei
maggiori protagonisti della nuova scena artistica americana, esponente
di una generazione che non è possibile inquadrare all'interno di un unico
movimento o di una logica avanguardistica.
Nella mostra, partendo dalle domande fondamentali che tutti ci poniamo
sull’esistenza umana - chi siamo, da dove veniamo, cosa ci riserva il
futuro - l’artista mette in atto un’esplorazione delle mitologie personali e
collettive attraverso una selezione di lavori realizzati tra il 2006 e il 2010.
La ricca esposizione trasforma lo spazio del MAMbo: lo fa vibrare di
cromatismo grazie a speciali pellicole che modificano l’impianto di
illuminazione attraverso il riverbero dell’intero prisma dei colori, lo
interroga con l’ambigua presenza di uno speciale pendolo di Foucault
calato da un’altezza di 16 metri, lo anima con opere a motore alimentate
da pannelli solari posti sulla terrazza del museo.
I CONTENUTI
In search of... ha come filo conduttore l’omonimo video di Jackson (2010)
basato sul format di una popolare serie televisiva americana andata in
onda dal 1976 al 1982, condotta da Leonard Nimoy (il celebre dottor Spock
di Star Trek), che indagava misteri e fenomeni paranormali.
Il filmato, diviso in tre parti scandite dall’inserimento di finti spot Audi,
unisce pezzi di girato tratti da banche immagini o dall’archivio Getty,
messinscene di interviste con intellettuali come David Mindell (storico e
ingegnere del MIT) o Alexander Dumbadze (scrittore e storico dell’arte)
e la conduzione narrativa interpretata con toni tra il solenne e l’ironico da
David Tompkins. Nella prima parte le forme antropomorfe riconoscibili
nelle nuvole, che si muovono intorno alla Terra vista dalla luna, sollevano
interrogativi sulle mitologie tracciate nei paesaggi terrestri. Nella seconda
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parte la misteriosa scomparsa di Matthew Day Jackson fa da spunto per
evidenziare la complessa natura degli oggetti che ci lasciamo alle spalle,
come testimonianze della nostra esistenza. Nella terza ed ultima parte
alcuni manufatti ritrovati attraverso scavi archeologici rivelano l'esistenza
di Eidolon, una antica civiltà estinta.
Le situazioni narrate nel video rimandano alle modalità in cui gli esseri
umani partecipano alla cultura contemporanea e attraverso gli oggetti
che li circondano definiscono se stessi: tematiche rintracciabili in tutti gli
altri lavori in mostra al MAMbo.
Si pensi ad esempio a Study Collection VI (2010), un monumentale
scaffale d’acciaio colmo di manufatti (alcuni dei quali presenti anche nel
filmato) che insieme generano una sorta di scultura figurativa, attraverso
la quale l’artista si oppone a una visione lineare della storia affiancando
elementi disparati sul medesimo piano.
È il caso anche di The Tomb (2010), un’opera di grandi dimensioni ispirata
alla Tomba di Philippe Pot (XV secolo) attribuita a Antoine Le Moiturier ed
esposta al Louvre di Parigi. I monaci incappucciati che nella versione
originale portano l’effigie di Pot sono sostituiti da Jackson con astronauti
ricavati da scarti di legno e plastica e poi compressi in un unico blocco e
tagliati con un processo CNC (computer numerical control). Gli astronauti
trasportano sulle spalle una cassa d’acciaio e vetro contenente una
struttura scheletrica basata sul corpo dell’artista. Guardato attraverso
uno specchio unidirezionale che permette allo spettatore di vedere
simultaneamente la propria immagine e il contenuto dell’effigie, lo
scheletro di Matthew Day Jackson fornisce un riferimento autobiografico
e al contempo crea interconnessioni tra forme e racconti disparati.
In The Way We Were (2010), opera composta di sette forme craniche in
titanio, piombo, rame, bronzo, alluminio, ferro e acciaio ritroviamo la
ricerca delle origini dell’uomo, mentre in Me Dead at 35 (2009) e Me Dead
at 36 (2010) – due stampe fotografiche di grandi dimensioni - ritorna,
come accade in ogni sua mostra, il tema della simulazione della morte
dell’artista, della sua assenza, della sua esistenza esclusivamente
attraverso la materia dell’opera. L’idea del trapasso è sempre presente
come rinascita e palingenesi come nel grande gruppo scultoreo The
Tomb.
In mostra a Bologna è possibile vedere una serie importante di altri lavori
con un allestimento pensato per lo spazio stesso del museo dal curatore
insieme all’artista: Everett Coleman Jackson (2009), Foucault Pendulum
(2010), Reflections of the Sky (2010), J. Robert Oppenheimer (I am Become
Death, Destroyer of Worlds ) (2010), Chariot II (I like America and America
likes me) (2007/2010).
2
IL PERCORSO ESPOSITIVO
Entrando in mostra, il visitatore viene iniziato all’universo di Matthew Day
Jackson con una sala introduttiva che anticipa, tramite testi a muro, le
principali tematiche che si incontreranno lungo il percorso.
L’ingresso all’interno della Sala delle Ciminiere è di forte impatto grazie Il
prisma di colori voluto dall’artista che si riverbera nello spazio avvolgendo
The Tomb sulla sinistra, mentre il pendolo di Foucault Pendulum, in cui
sono riconoscibili le forme Futuriste di Renato Bertelli, scende dall’alto,
enfatizzando i 16 metri di altezza dell’ex Forno del pane. Al centro della
sala attira l’attenzione la carcassa d’auto da corsa che fa parte di
Chariot II (I like America and America likes me), opera alimentata da
pannelli solari. Oltre l’entrata, sulla sinistra il visitatore incontra l’immagine
del figlio dell’artista - Everett Coleman Jackson – e dalla parte opposta il
primo ritratto dell’artista morto - Me Dead at 35 - mentre tra le due
ciminiere scorrono per 12 metri le Ninfee di Monet, rivisitate in prospettiva
“lunare”, in Reflections of the Sky. Dal fondo della sala si accede all’area
destinata alla proiezione del film In search of..., chiave di volta
dell’esposizione. Negli spazi a destra del salone principale si collocano
infine la classificazione da museo di scienze di Study Collection VI ,
Robert Oppenheimer (I am Become Death, Destroyer of Worlds), ispirato
agli slanci visionari del celebre fisico, lo studio dell’evoluzione della
specie umana attraverso i teschi di The Way We Were e l’immagine del
corpo dell’artista avvolto in un sacco per cadaveri, dichiarato morto alla
viglia di questa come di ogni nuova mostra (Me Dead at 36 ).
Lungo il percorso di visita viene data la possibilità al pubblico di portare
con sé un lavoro di Matthew Day Jackson ritirando liberamente una copia
di The Lower 48, un poster-collage fotografico di immagini scattate in 48
stati americani, in cui si riconoscono “misteriose” forme antropomorfe.
MAMbo – CRITICISM
Con In search of... di Matthew Day Jackson prosegue il filone di ricerca
denominato Criticism che il MAMbo porta avanti fin dal 2006, ovvero un
percorso di riflessione e di indagine sulle pratiche artistiche e sulla
funzione del museo contemporaneo, che ha coinvolto artisti quali Ryan
Gander, Paolo Chiasera, Markus Schinwald, Giovanni Anselmo,
Christopher Williams, Bojan Sarcevic, Adam Chodzko, Eva Marisaldi, Diego
Perrone, Ding Yi, DeRijke/De Rooij, GuytonWalker, Natasha Sadr
Haghighian, Trisha Donnelly, Sarah Morris, Seth Price.
3
DIPARTIMENTO EDUCATIVO MAMbo
Attività didattiche, visite guidate e laboratori, a cura del Dipartimento
educativo MAMbo arricchiscono la mostra per l'intero periodo di
apertura. Visite speciali a In search of... si tengono ogni domenica alle
ore 17.30. Ingresso: € 4 a persona più ingresso in mostra (€ 6 intero, € 4
ridotto) minimo 6 max 30 persone. Info e prenotazioni: tel. 051/6496652
(dal lunedì al venerdì, dalle ore 10 alle ore 13); tel. 051/6496611 (dal sabato
alla domenica dalle 10 alle 17).
PARTNERSHIP E COLLABORAZIONI
Dopo l’anteprima al MAMbo, la mostra di Matthew Day Jackson farà
tappa in altre due importanti istituzioni museali europee: il Kunstmuseum
Luzern (Lucerna, Svizzera) e il Gemeente Museum den Haag (L’Aia,
Olanda).
Si ringraziano per la preziosa collaborazione le gallerie Peter Blum di New
York, Hauser & Wirth di Londra e GRIMM di Amsterdam.
PUBBLICAZIONI
Sul piano editoriale, in concomitanza con l'apertura della mostra è
disponibile la quinta uscita della collana INSTANT BOOK di Edizioni
MAMbo: agile strumento in cui una conversazione tra Matthew Day
Jackson e Gianfranco Maraniello è affiancata a immagini di opere
dell'artista.
Per ulteriori informazioni:
www.mambo-bologna.org
Ufficio Stampa MAMbo
Elisa Maria Cerra
Tel. +39 051 6496653 - 620
ufficiostampamambo@comune.bologna.it
4
LISTA OPERE
The Tomb, 2010
scarti di legno, plastica, acciaio inossidabile, vetro, sicomoro, falce, tubi
al neon, protesi di Charles e Ray Eames, filo, argento, collante, occhio di
tigre
321,3 x 238,8 x 315 cm
The Flowering Trees Collection
The Way We Were, 2010
Ed. 3/3 sette forme di teschio: piombo, rame, bronzo, ferro, acciaio,
alluminio, titanio, scaffale di acciaio inossidabile lucidato
43 x 320 x 36 cm
Peter Blum Gallery, New York
In Search of, 2010
Blue ray DVD, 30'
Courtesy dell'artista e Peter Blum Gallery, New York
Chariot II (I like America and America likes me), 2008/2010
carcassa dell’auto da corsa di Skip Nichols (distrutta), acciaio, lana
infeltrita, pelle, vetro colorato, tubi al neon, pannelli solari, fibra di vetro,
resina
172,72 x 231,14 x 490 cm
VanhaerentsArtCollection Brussels
Me Dead at 35, 2009
Stampa digitale C-Print
Edizione 1 di 5
104,1 x 78,7 cm.
Courtesy Collezione privata, Wassenaar
Me, Dead at 36, 2010
Stampa digitale C-Print, incorniciata, edizione API
208,6 x 90,5 x 3,8 cm
Courtesy l'artista e Peter Blum Gallery
Study Collection VI, 2010
Acciaio inossidabile, gesso, ottone, visori, radiografie, teste in gesso,
protesi di Eames, neon, vasi di argilla, trinitite, oggetto intagliato, legno,
asfalto, t-shirt, resina, lucite, prismi di luce, materiale a prototipazione
rapida, Haliotis iris, cemento, mattoni
243,8 x 579,1 x 30,5 cm
5
Collezione privata
Everett Coleman Jackson, 2009
Stampa digitale C-Print
79 x 53 cm
Courtesy l'artista
Foucault’s Pendulum, 2010
Pendolo di bronzo e ottone, cavo, tenditore
Diametro 30,5 cm
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth
Reflections of the Sky, 2010
Cartongesso, legno, acciaio inox
6 pezzi: 1) 200 x 243,8 cm; 2) 200 x 181,6 cm; 3) 200 x 184,2 cm; 4) 200 x 243,8
cm; 5) 200 x 243,8 cm; 6) 200 x 179,1 cm; misure complessive: 203,2 x 1280,2 x
7,6 cm. 545,5 kg.
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth
J. Robert Oppenheimer (I am become Death, destroyer of Worlds), 2010
Legno, plastica, scolpito tramite CNC
244 x 76 x 76 cm
Courtesy l’artista e Hauser & Wirth
The Lower 48, 2006-2010
poster (a disposizione del pubblico)
91.4 x 102.9 cm
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BIOGRAFIA BREVE
Matthew Day Jackson nasce nel 1974 a Panorama City, California (USA) e
attualmente vive e lavora a Brooklyn, New York.
Tra le mostre personali realizzate: Peter Blum Gallery Soho, New York
(2010); Peter Blum Gallery Chelsea, New York (2010); Douglas Hyde Gallery,
Dublino (2009); MIT List Visual Art Center, Cambridge, Massachussets
(2009); Contemporary Art Museum, Houston, Texas (2009); Blanton
Museum of Art, Austin, Texas (2007); Cubitt Artists Space, Londra (2006);
Portland Institute of Contemporary Art, Portland, Oregon (2006).
Lavori di Jackson sono stati esposti in numerose esposizioni collettive
presso: Ullens Center for Contemporary Art, Pechino (2010); Lousiana
Museum of Modern Art, Humlebæk, Danimarca (2009); Hayward Gallery,
Londra (2009); Punta della Dogana, Venezia (2009); Van Abbemuseum,
Eindhoven, Olanda (2008-9); Henry Art Gallery, Seattle, Washington (2008);
Contemporary Arts Museum Houston, Texas (2008); Whitney Biennial, New
York (2006) e Greater New York, PS1 Contemporary Art Center, New York
(2005).
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MAMbo è sostenuto da:
Partnership con:
In collaborazione con:
Musei partner della mostra:
Si ringraziano i prestatori delle opere in mostra
Peter Blum Gallery, New York
Hauser & Wirth, London
Grimm Fine Art, Amsterdam
The Flowering Trees Collection
Vanhaerents Art Collection, Brussels
Unitamente a tutti gli altri prestatori che hanno preferito rimanere anonimi
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SCHEDA TECNICA
Titolo: Matthew Day Jackson. In search of...
Curatore: Gianfranco Maraniello
Sede espositiva: MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
via Don Minzoni 14 – Bologna
Periodo di esposizione: 27 gennaio – 1 maggio 2011
Orari: martedì, mercoledì e venerdì 12.00 – 18.00
giovedì 12.00 – 22.00
sabato, domenica e festivi 12.00 – 20.00
Ingresso: Intero 6 €; ridotto 4 €
Informazioni: tel. 051 6496611 - fax 051 6496600
info@mambo-bologna.org
www.mambo-bologna.org
Visite guidate per gruppi e scuole la prenotazione è obbligatoria
Dipartimento educativo tel. 051 6496652 – 611
mamboedu@comune.bologna.it
Gruppi (massimo 30 persone): € 80
Visite in lingua: € 100
Scuole: € 50
Laboratori per le scuole: Laboratori per la scuola dell’obbligo e superiore:
Dipartimento educativo € 100 (comprensivi di visita senza radioguida)
tel. 051 6496626 – 628
mamboedu@comune.bologna.it
Catalogo: Instant book Edizioni MAMbo
Press: ufficiostampamambo@comune.bologna.it
tel. 051 6496653 - 620
MAMbo è sostenuto da: Regione Emilia-Romagna
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna
Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
Partnership con: UniCredit
In collaborazione con: Arte Fiera
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Matthew Day Jackson conversa con Gianfranco Maraniello
Gianfranco Maraniello: Il tuo lavoro presenta così tanti spunti di riflessione
grazie agli ampi riferimenti e ai diversi processi creativi e materiali che
adotti... Tuttavia vorrei cominciare con l'idea stessa di “mostra” e, in
particolare, con la presenza ricorrente di tuoi ritratti da “morto” all'età che
hai nel momento in cui esponi pubblicamente le tue opere. Che tipo di
soglia o che specifico momento è per te una mostra?
Matthew Day Jackson: Una mostra è una collezione di oggetti che delinea
non solo dove sono stato, ma chi sono stato. Fare arte è per me un modo
di cercare me stesso, e un tentativo di dare un senso al mondo in cui vivo.
L’oggetto artistico è una registrazione, o una sorta di prova materiale, di
un’indagine su chi sto per diventare. Una volta creato l’oggetto, la
“lezione” è completa. Sono forse più vicino a comprendere chi sono? Non
ne sono certo, ma ci provo. Gli oggetti non seguono un approccio lineare,
e sono legati l’uno all’altro da un rapporto nebuloso. Ogni mostra è un
tentativo di imbrigliare questa nube di oggetti per comunicare una serie di
idee, che rappresentano un momento della mia vita. Nella speranza che
trovino risonanza in qualcun altro oltre che in me.Per quanto riguarda la
morte, un artista deve sempre lottare contro le implicazioni filosofiche
della creazione di un oggetto artistico. Come dicevo prima, ogni lavoro è
una registrazione di chi sono stato, ma alcuni di essi resteranno, magari
fra due secoli, a comunicare chi ero a trentasei anni. La serie Me Dead
at… è una meditazione sulla mia mortalità, e sull’idea che, andando
avanti, sarò costretto a lasciarmi alle spalle qualcosa di me. La serie
proseguirà fino alla mia morte, culminando con una foto finale del mio
cadavere. La scatterà Will Villalongo, o Sun Tek Chung, o Larry Bamburg,
o chiunque sia rimasto ancora in piedi.
G.M.: La tua stessa presenza si dà in molte precedenti opere che hai
realizzato. Nella produzione filmica, ad esempio, sei colui che si assume
la responsabilità delle nefandezze derivanti dalla cultura maschilista
(Untitled - A Mother's Prayer for Her Son), mentre sono diversi i ruoli che
interpreti in Paradise Now. Nel tuo ultimo In Search of... sei, invece, lo
“scomparso” evocato dalla presenza in scena dei tuoi genitori che ti
cercano disperatamente, dal tuo furgone abbandonato e da immagini del
passato che ti ritraggono. Ci sono solo tracce di te ora. Pare che tu stia
suggerendo una diversa (aliena) realtà in cui sia possibile trovarti. Hai
forse abbandonato questo mondo?
M.D.J.: Credo sia il contrario. Ciò che sto facendo è perdermi in questo
mondo. Il che non è male, dato che abbiamo sempre bisogno di assumere
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parte del mondo che ci circonda nel tentativo di diventare ciò che siamo.
Il mondo diventa parte di me, e io di esso. Fare arte è un modo per non
esserci: l’opera è una traccia della mia vita vissuta su questo mondo, e in
esso.
G.M.: Ho l'impressione che tu utilizzi l'arte come una “controvita” per citare
il grandioso titolo di un interessante e recente libro di Philip Roth. Ti
mantieni in una condizione permanente di manipolazione di memoria,
storia e futuro da “impastare” con finzione e immaginazione. Tu parli di
“questo mondo”, ma lo fai ricorrendo a fantascienza e archeologia. Forse
l'arte è proprio tale incerto (o impossibile) collocarsi nel confine di tutti
questi ambiti?
M.D.J.: Sì, ma al di là dell’Arte, è in questo mondo di fatti e finzioni che tutti
noi viviamo. Viviamo in un mondo che è al contempo sintetico e naturale,
composto di verità e di falsità, di bene e male; è un mondo che esiste
nelle polarità estreme di ogni sua parte. Mi sono avvicinato a quest’idea
quando ho cominciato a rivisitare alcuni elementi della storia
statunitense, rendendomi gradualmente conto che gran parte di ciò che
mi era stato insegnato da piccolo è falso, almeno in parte. Nella finzione
c’è un elemento di verità, o un fondamento di realtà, che ci permette di
proiettare noi stessi nella narrazione per identificarci con i personaggi o
con una situazione. Questa constatazione, invertita, descrive bene il
racconto storiografico. Nella storia c’è un elemento di finzione, o un
fondamento di falsità, che ci impedisce di proiettarci nella narrazione e di
identificarci con i personaggi o con una situazione.
Non c’è bianco, né nero, solo grigio. La verità sta nel grigio.
G.M.: O forse è un prisma con il suo intero spettro cromatico, come hai
dimostrato al MAMbo intervenendo sull'impianto di illuminazione del
museo?
M.D.J.: La combinazione di tutti i colori dello spettro crea la luce bianca,
ed è in questa luce che tutti noi esistiamo. Tutto ciò che vediamo è luce
riflessa dalle superfici di ciò che ci circonda. Usare lo spettro cromatico
nel mio lavoro è un modo per dire “tutto” ed è lo sfondo di tutto il resto.
Non è sempre presente, ma lo uso abbastanza spesso. Il grigio è la
combinazione del bianco e del nero, che potrebbero essere considerate
polarità opposte. Nel mio lavoro, potremmo considerare lo spettro
cromatico come il “tutto” e la scala dei grigi come l’esperienza umana
all’interno di quel “tutto”.
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G.M.: Anche l'arte rientra tra le fonti consapevoli o privilegiate del tuo
immaginario?
M.D.J.: Non sono certo di capire la tua domanda, ma forse posso
rispondere così: gli artisti non sono speciali, per cui neppure l’arte lo è. Si
dà il caso che l’arte sia una lingua in cui mi esprimo molto liberamente. Le
parole non funzionano altrettanto bene. E inoltre, l’Arte non è la fonte,
quanto piuttosto il risultato della vita che vivo in quanto Artista. L’Arte è la
somma della mia esperienza.
Hai la sensazione che la mia opera sia lo spazio fondamentale, o
privilegiato, del mio immaginario?
G.M.: Ho la sensazione che il tuo immaginario – tramite il tuo lavoro –
assuma un significato universale e vada al di là di ogni proiezione
soggettiva. Comincia come “tuo” immaginario e si trasforma in una sorta
di moderna mitologia. Per fortuna la tua risposta è stata più interessante
della mia domanda. Intendevo semplicemente indagare le fonti artistiche
del tuo lavoro per poi portarti a commentare alcune tue opere come The
Tomb o la straordinaria versione (sotto una luce “lunare”) della pitturaambiente
di Monet.
M.D.J.: Non c’è una vera e propria fonte artistica. Non accade mai che io
veda un’opera d’arte e decida di reagire, o rispondere, ad essa. Ogni
volta che il mio lavoro include una citazione (Nauman, Beuys, ecc.) si
tratta piuttosto di un punto in cui mi sono trovato, forse, a dire qualcosa
che suonava familiare, e a quel punto mi sono rivolto alla fonte da cui
l’avevo preso. La mia comprensione di un certo lavoro, o di un certo
artista, è resa visibile, senza nascondigli. Il modo in cui la citazione si
integra agli altri elementi della scultura o della mostra è ciò che permette
di far sentire la mia voce, che la rende visibile. The Tomb, Reflections on
Water-Lily Pond e Pendulum sono tutte forme “prese a prestito”, ma nel
senso che in esse modifico sia il soggetto che il predicato. La forma resta
la medesima (o, perlomeno, resta riconoscibile), ma ciò di cui parla il
lavoro trascende il significato iniziale, e il rapporto fra queste opere e le
altre nella mostra ne amplia il campo semantico. A fare da motore, qui, è
la mitologia, il rapporto che si instaura fra due culture attraverso un
formalismo condiviso da miti apparentemente irrelati. Mi interessa anche
la comprensione di questioni filosofiche quotidiane che determinano in
larga parte ciò che tutti noi siamo, e perché siamo qui. Questo, spero, è
universale.
G.M.: Credo che molta critica d'arte si basi su stereotipi e non sia
adeguata a comprendere modi e pratiche di alcuni artisti di oggi. Parlare
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di “remake”, ad esempio, sarebbe facile ma fuorviante in riferimento al
tuo lavoro. Penso infatti che tu abbia appena detto qualcosa di assai
importante per una generazione che non ha più alcun coinvolgimento
con le avanguardie, né condivide una specifica ideologia, ma che, in
modalità inedite, è ancora interessata al valore dell'utopia in relazione ai
temi della memoria e della comprensione della condizione di esseri
umani. Le cose accadono nella nostra mente, ma come scrive Borges: «Le
cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i
dettagli quando la gente le dimentichi. È classico l'esempio di un'antica
soglia, che perdurò finché un mendicante venne a visitarla, e che alla
morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo,
salvarono le rovine di un anfiteatro».
M.D.J.: Per prima cosa, credo che gli artisti della mia generazione
abbiano in massima parte abbandonato il tracciato delle ideologie,
perché in generale non è cool credere in qualche cosa. Sì, si potrebbe
obiettare che anche non credere in nulla è un’ideologia, ma mi sembra
che sarebbe troppo facile. Siamo stati cresciuti da persone convinte che
avrebbero cambiato il mondo, e la nostra inclinazione naturale predilige
posizioni opposte a quelle dei nostri genitori. È una cosa che comincia
dalla nascita e prosegue poi per tutta la vita, come sto iniziando a
scoprire io stesso con mio figlio. L’idea di un remake in un’epoca
governata da un totale sovraccarico di immagini è un modo, per l’artista,
di fare qualcosa di reale, di concreto, imparando i passi che sono stati
necessari al creatore iniziale per produrre l’originale. Si tratta di un
processo piuttosto intimo, una sorta di conoscenza, dato che in genere il
remake fa parte di un tentativo di esprimere se stessi.
G.M.: OK, allora insisto su questo mondo borgesiano di Finzioni e cito un
altro passo dal tuo caro Tlön, Uqbar, Orbis Tertius: «La geometria di Tlön
comprende due discipline abbastanza distinte: la visuale e la tattile».
Queste polarità potrebbero descrivere il tuo stesso modo di lavorare. Molti
artisti oggi necessitano di alibi concettuali per i loro interventi e i visitatori
dei musei sono spesso delusi da questo “stile”. Non credo che ciò ti
riguardi: malgrado la densità dei riferimenti e la ricchezza di elementi
narrativi, le tue opere sono autosufficienti, fondate su una straordinaria
forza visiva e tattile. Questa caratteristica è meditata o dipende dal tuo
modo quotidiano di affrontare il lavoro?
M.D.J.: Il riferimento non è mai lasciato a se stesso, ed è qualificato dai
suoi vicini; la sua origine, d’altro canto, è messa in discussione dal nuovo
contesto. In un certo senso è come curare una mostra collettiva
all’interno di una scultura. Ogni materiale, ogni colore, ogni forma, ogni
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citazione, va considerata sia di per sé che nella sua giustapposizione ad
ogni altro elemento. Mi verrebbe da dire che le uniche cose che
cambiano in modo quotidiano sono le cose personali, ma il mio lavoro è
l’unica costante che attraversa la mia vita. Verrebbe da dire che questa è
una delle ragioni principali per cui lo faccio. Mi fa piacere che tu veda
una logica Tloniana nei miei processi, dato che Tlön non è a tutti gli effetti
un luogo e i suoi abitanti fittizi si relazionano al mondo in un modo molto
diverso da come lo faremmo noi. Quando ho letto quel racconto per la
prima volta ho pensato che si trattasse di una parodia della società
contemporanea.
Il visivo e il tattile coesistono in armonia perfetta quando il lavoro è
buono. Questo è un altro modo di dire che Materia e Forma esistono in
armonia perfetta quando il lavoro è buono.
G.M.: In occasione di una visita preparatoria al MAMbo ho notato la tua
sorpresa nel ritrovare nelle collezioni del museo un'opera che, come mi
hai rivelato, tu stesso avevi visto poche settimane prima alla fiera di
Basilea e che avevi cercato di acquistare. Si tratta di un lavoro di
Elisabetta Benassi che presenta un telegramma inviato da Buckminster
Fuller a Isamu Noguchi. Strana coincidenza: il museo l'ha comprata poco
prima che lo facessi tu. Ora, però, sono curioso di sapere perché eri
interessato a tale lavoro di un altro artista. Anche l'idea di acquisirlo...
che cosa significa “possedere arte” per te?
M.D.J.: L’opera è un documento che registra il processo di scoperta di me
stesso all’interno della società. Lo stesso vale per gli altri artisti. Mi sono
innamorato di quel lavoro perché ai tempi stavo leggendo le teorie della
relatività generale e particolare di Einstein, e sognavo di avere un amico
come Bucky che mi mandasse lo stesso telegramma che aveva mandato
a Isamu Noguchi. Bucky e Isamu Noguchi erano amici da una vita, e il
telegramma che Bucky gli ha mandato era un documento di tale amicizia.
Mi aveva molto colpito anche il tappeto1 di Benassi che avevo visto
quell’anno ad Art Unlimited, a Basilea. Mi sembrava che mostrasse un
matrimonio perfetto di materiali e significato, avrei voluto essere stato io a
farlo. Il tappeto è un materiale che rende confortevole il nostro spazio più
intimo (quello domestico), e il telegramma rendeva confortevole, o
compresa, un’idea, oltre ad essere il documento intimo di un’amicizia. Il
disegno che volevo acquistare era per me la traccia di un momento, e mi
offriva un riflesso di me stesso. Ciò che intendo dire è che mostrava che
1 A Basilea era esposto anche un tappeto su cui era ricamato il
medesimo testo del telegramma-lettera di Buckminster Fuller a
Noguchi.
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non ero solo in una parte della mia ricerca. Vedo ogni artista come un
compatriota che lavora con tutti gli altri per dare forma al linguaggio
dell’arte. E quell’opera era una traccia anche di questo. Non ho comprato
molti lavori, ma ne ho scambiati un sacco: ognuno di essi è una traccia
dei miei interessi riflessi nell’opera altrui. È una cosa piuttosto intima,
benché non differisca granché da qualunque altro acquisto. Gli abiti che
indosso, il posto in cui vivo, la birra che bevo, il mio ristorante preferito
non sono che espressioni esterne di chi sono, e di chi voglio essere.
G.M.: “Bucky” è così ricorrente nella tua opera. Cosa rappresenta per il
tuo orizzonte intellettuale?
M.D.J.: Buckminster Fuller non seguiva un percorso lineare nella sua
ricerca di risposte ai problemi che, secondo lui, bisognava risolvere nel
mondo in cui viveva. Si concedeva spesso di andare controcorrente,
osava avere torto. Era un visionario: la sua scienza, la sua architettura, la
sua ingegneria non avevano il “successo” di quelle dei suoi
contemporanei, ma la sua visione è viva a tutt’oggi, non tanto nelle forme
che ha prodotto o nei suoi scritti, quanto piuttosto nella struttura formale
che componeva la vita che ha vissuto. È da questo che ho tratto
ispirazione. Bisogna essere spregiudicatamente nel torto, ottimisti sino al
ridicolo, bisogna cogliere un’opportunità anche se tutto e tutti ti dicono di
non farlo. È questo che significa farsi guidare da una visione. È una cosa
molto vicina all’abbandono totale, dato che il portatore di una visione non
è che un mezzo per produrre e proteggere i frutti della sua visione.
La cosa più importante che un artista possa fare per se stesso è farsi
molte concessioni. La seconda cosa più importante è che la conferma
che cerca non coincida coi soldi, col successo, con altri scopi vacui. La
conferma viene quando i sogni della tua carne possono essere esperiti
da tutti gli altri sensi. Credo che sia una sorta di sfizio, un regalino, come
quelli che si danno al proprio cane quando si comporta bene o porta a
termine un esercizio. È in questo che devo molto a ciò che ho scoperto su
Bucky, oltre che al modo in cui sono stato educato.
G.M.: A proposito di arte e valori come "soldi, successo e altri scopi vacui",
come sei giunto a pensare agli spot dell'Audi e a integrarli nel tuo In
Search of...?
M.D.J.: La pubblicità dell’Audi Face of Vorsprung non è che una delle
molte che volevo usare in quel video. Ce n’è anche una dell’American
Express di cui ho cercato di ottenere i diritti, ma mi hanno fatto una
quantità eccezionale di problemi. Lo spot dell’Audi è l’espressione
concisa di qualcosa che mi interessa molto, e cioè l’idea che si possa
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trovare il nostro riflesso nell’ambiente che ci circonda e negli oggetti che
consumiamo. Al di là dell’ambiente naturale, che ho esplorato nella
realizzazione dell’opera The Lower 48 (che è una collezione di forme
naturali antropomorfe raccolte nei cosiddetti “Stati Uniti contigui”, quegli
stati, cioè, che formano il blocco continentale a sud del Canada,
escludendo quindi Hawaii e Alaska), vediamo il nostro riflesso in ciò che
compriamo, che a propria volta diviene espressione di ciò che siamo. È un
processo molto intimo. Quella pubblicità esprime perfettamente
quest’idea. Usarla come una sorta di trattato all’interno di un’opera d’arte
mi pareva interessante ed è quello che sto cercando di esplorare nella
mia produzione attuale. È qualcosa che deriva dalla consapevolezza di
vivere in un ambiente di specchi che riflettono la mia identità. Io divento
loro, nel diventare me stesso.
G.M.: Mi pare molto interessante quel che definisci "una sorta di trattato
all’interno di un’opera d’arte". Non credi però che una tale formula possa
essere anche il sintomo di una qualche carenza, di un fallimento nella
pratica artistica contemporanea o, quanto meno, nell'autonomia delle
sue forme ed espressioni?
M.D.J.: Non c’è autonomia delle forme, né delle espressioni. Tutto ciò che
facciamo cresce sugli sviluppi forgiati dai nostri predecessori. Non è una
linea retta, per cui forse sarebbe meglio dirla così: ogni nostra azione è
influenzata dalla sommatoria della storia umana. Allo stesso tempo, non
ci sono che nuove idee, per quanto il presente possa dare spazio a
chimere del passato, non appena queste si riflettono sull’ambiente in cui
sono rinate divengono qualcosa di nuovo. Le combinazioni infinitamente
remixate, fraintese, e parziali, di ogni cosa – dalle Opere d’Arte alla
riproduzione dei mammiferi – non fanno che rendere tutto nuovo di zecca.
Queste due credenze possono coesistere perfettamente, ed è la cosa più
bella della vita. C’è spazio per tutti e per tutto.
Sono tuo, tu sei mia, e siamo ciò che siamo… (una specie di
bastardizzazione di Judy Blue Eyes di Crosby Stills Nash and Young)
G.M.: Ma tu credi che l'arte sia un modo speciale per modulare i riverberi
di tutto quel che ci arriva dai nostri predecessori o dal nostro tempo?
Intendo dire: il tuo In Search of... evidenzia anche che tutti gli esseri
umani hanno bisogno di figurarsi il mondo e, così, di regolarlo in una sorta
di antropometria di quel che si vive. Ma cosa c'è di così specifico per
l'arte? Cosa può consentire a questa assurda pratica di rendere le nostre
vite immense oppure appena sopportabili?
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M.D.J.: L’arte si concentra sul presente e trova ispirazione nelle azioni dei
miei predecessori. L’arte non dovrebbe farsi fardello del dovere di
insegnare qualcosa, di rendere la vita più facile, di fornire illuminazioni.
L’arte è come un telescopio (o un microscopio, poco cambia), nella misura
in cui non è che uno strumento per aiutarci a vedere cose che a occhio
nudo ci sono invisibili. Questi strumenti sono interamente passivi e,
pertanto, dipendono completamente dal modo in cui sono usati. Chi ha
creato uno strumento come un telescopio o un microscopio vedeva in ciò
che aveva fatto un mezzo per guardare i corpi celesti o le cellule. Lo
stesso, in un certo senso, vale per gli oggetti d’arte: non parlano di tutto,
e hanno uno spettro semantico designato dall’artista. L’artista scopre
alcune cose circa ciò che vede realizzando una certa opera, ma non per
questo lo scopo è insegnare qualcosa al pubblico o condurlo da qualche
parte; forse non si vuole altro che offrirgli un’ispirazione, dargli il
permesso di cominciare, o condurre più oltre, la sua ricerca.
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gennaio 2011
Matthew Day Jackson – In search of…
Dal 26 gennaio al primo maggio 2011
arte contemporanea
Location
MAMBO – MUSEO D’ARTE MODERNA DI BOLOGNA
Bologna, Via Don Giovanni Minzoni, 14, (Bologna)
Bologna, Via Don Giovanni Minzoni, 14, (Bologna)
Orario di apertura
martedì, mercoledì e venerdì ore 12-18
giovedì ore 12-22
sabato, domenica e festivi ore 12-20
Vernissage
26 Gennaio 2011, ore 18 su invito
Autore
Curatore