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Mauro de Carli – Die große Gesundheit
In mostra una selezione del lavoro degli ultimi quattro anni di Mauro de Carli (Milano, 1980) secondo due linee parallele, quella esoterica e mentale e la nuova produzione in cui la dimensione fisica irrompe sul contingente
Comunicato stampa
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DELLO SPIRITO. POESIA VISUALE DI MAURO DE CARLI SOTTRATTA ALL'INDICE
DELLA SANTA INQUISIZIONE
Questo non è un testo critico. Basta gettare un colpo d'occhio preliminare sull'intera produzione di Mauro De Carli per consentire al pensiero di fluire nei meandri dell'autoreferenzialità - René
Magritte, Ceci n'est pas une pipe - e dar forma e sostanza a quella che è a tutti gli effetti una
dichiarazione programmatica. L'opera di Mauro De Carli è infatti troppo irregolare per essere
categorizzata nello schematismo della ragion critica. Che in questa circostanza indossa le vesti della critica d'arte. Perché il sommo (?) filosofo di Königsberg, Immanuel Kant, chiamò il suo magnum opus Critica della ragion pura? Ma perché la suddetta critica era sia esterna che interna: non era solo un'analisi sulla ragione, ma era anche la ragione che, analizzando se stessa, puntellava i limiti di ciò che poteva esser conosciuto di là dall'universo di ciò che poteva invece soltanto esser pensato:
Dio, l'anima, il mondo. Ecco, con De Carli la critica d'arte dovrebbe comportarsi allo stesso modo della ragione kantiana: soppesare se stessa. Anzi di più: accomiatarsi da se stessa. Perché un
approccio metateorico alla produzione artistica di Mauro De Carli sarebbe solo vaniloquio, flatus
vocis: parole, parole, parole, come diceva Mina. Questo è un testo in assoluta libertà perché
risponde al carattere intrinsecamente rivoluzionario dell'opera carliana. Ecco qui, l'artista è ancora tra i vivi e noi abbiamo già inventato l'aggettivazione sostantivata che si usa di solito per i sommi -
la produzione picassiana, byroniana, leopardiana, scespiriana, kantiana e così ad libitum.
Conobbi il succitato artista anni fa in occasione di una mostra collettiva a Milano, dove era stato
presentato anche un suo lavoro. Mi fu indicato da un suo ex collega d'Accademia, il quale me
l'introdusse così, con quel timbro nella voce che solo gl'individui dalla scorza dura sanno adottare: «questo è un disegnatore che spacca». In effetti fra le opere in mostra c'era un disegno, il disegno di Mauro De Carli. Raffigurava un soggetto antropomorfico il cui sguardo proveniva da nessun luogo e da nessun tempo; l'anatomia era espressa con segno nervoso e scabro e primitivo e infantile, umana e non umana, collocata in una messinscena, la dislocazione degli elementi della quale faceva pensare a un paesaggio mentale attraversato dalla sindrome di Tourette, mentre tutt'intorno vibrava una serie di enunciazioni verbali, autonome, fisse e sussistenti, frammenti di un universo di discorso familiare ma al contempo slegato da qualsivoglia contesto dotato di senso e codificato linguisticamente come un idioletto. Un grammelot, il grammelot di Mauro De Carli. E chi è questo folle?
Ho parlato di “primitivismo”, o meglio, ho descritto l'opera definendola “primitiva”. Questa è infatti la cifra che investe di sé complessivamente il lavoro di De Carli, nelle occasioni in cui esso si declina nelle carte come nelle tele. Il pensiero corre a Jean Dubuffet ma anche al pittore Consalvi che mangiava i gatti nel film L'uccello dalle piume di cristallo (siamo in tema: l'assassinio avvenne in una galleria d'arte e la vicenda ruotava tutt'intorno a un quadro naïf). Naturalmente un parallelismo tra l'opera di Mauro De Carli e quella di Dubuffet non sta né in cielo né in terra e
infatti siamo ben lungi dal farlo: le recondite armonie col referente illustre passano non attraverso il
segno e la cifra stilistica, bensì per il retroterra concettuale che dà l'impronta di sé a entrambe le
produzioni artistiche, intrinsecamente diverse l'una dall'altra ma accomunate dal medesimo grado
zero di elaborazione colta. Niente tecnicismi, solo la parola ai folli: è la profonda affabilità di un
linguaggio artistico assai vicino alla replica isomorfica del codice espressivo dell'infante.
Com'erano profondi i Greci nella loro superficialità!, chiosava Nietzsche nella Gaia scienza.
Piuttosto per reminiscenza sono le carte, soprattutto le carte, ad accompagnarsi a un illustre
precedente nella storia dell'arte visuale: il segno incisivo, primitivo e infantile, scabro nella
dislocazione di elementi che tuttavia alla fine risultano giustapposti nella loro apparente caoticità e
il ricorso alle sentenze epigrammatiche che sulla superficie disegnata informano di sé l'alfabeto
carliano si coordinano per vie traverse, le vie della reminiscenza appunto, alla cifra stilistica del grande Basquiat. La collocazione culturale è naturalmente diversa (gli anni Ottanta di New York, il
denaro e gli investimenti in arte, l'East Village e Madonna e Annina Nosei e Bruno Bishofberger e
Andy Warhol e Keith Haring e Elio Fiorucci, un'epoca unica e irripetibile e altra rispetto all'Italietta
de noartri), ma una certa familiarità unisce i due codici linguistici: gli “scarabocchi”, la
trascuratezza della superficie, la scabrosità del segno, le sentenze e annotazioni verbali giustapposte
agli elementi figurali e financo quell'essenza rocknrolla che impronta di sé i graffi retinici sulle
superfici sgarrupate di tela, legno, carta.
Certo nella produzione di Mauro De Carli la spiritualità emerge prepotentemente, di contro al
qui-e-ora dell'insigne predecessore, ma chi l'ha detto che lo spirito non debba essere materia, nella
fattispecie bella materia colorata? La trama segnica e pittorica assume nella creazione di De Carli le
fattezze del valore simbolico: la figurazione è deframmentata in un universo proteiforme e
magmatico di interpretazioni del testo pittorico, che sopravviene sulla figura come un grammelot
pensoso e meditativo costituito di simboli che circonfondono l'immagine, vagolano intorno ad essa
e vi si con/fondono, ne preservano la chiarezza e al contempo caricano di mistero la semantica della
composizione complessiva, ottenendo come risultato una comunicazione a-logica composta di un
linguaggio visuale enigmatico e inespugnabile.
L'opera di De Carli adotta dunque un duplice codice linguistico: iconografico e verbale. E
l'affabilità della parola visuale rappresenta l'ultima germinazione del segno - pittorico, disegnato -,
chiave di volta della figurazione espressa con anatomie ora modulari ora sconnesse, secondo una
diade armonico/disarmonico coordinata con l'idioletto carliano che a volte parla al contrario
perchè speculare al linguaggio simbolico dell'inconscio. Non v'è alcuna immagine cresciuta
nell'etere del cervello in attesa d'esser trasposta su carta o tela, ma un flusso - stream of
consciousness, James Joyce docet - in cui l'immagine stessa si edifica da sé, perimetrando lo spazio
pittorico come il campo visuale della pittura egizia. Simbolico e reale coesistono
nell'organizzazione della superficie tracciando una sorta di mappa mentale: è il meccanismo del
pensiero e dello spirito, espresso secondo la privacy epistemica di Mauro De Carli creatore di
un'impresa artistica che parla non della sur-realtà, bensì della sovra-realtà dell'apparato psichico
universale, fatta di processi spirituali di cui il soggetto pensante è il soggetto inconsapevole. Se
avesse illustrato il libro De l'Esprit del philosophe dell'Illuminismo francese Claude Adrien
Helvétius, pubblicato a Parigi nel 1758 e subito bruciato sulla pubblica piazza come libro proibito
dal clero e dal potentato politico, ebbene anche il Nostro sarebbe stato messo all'Indice dalla Santa Inquisizione. Troppo eretico. Troppo esoterico. Troppo rivoluzionario. Troppo matto.
Emanuele Beluffi
DELLA SANTA INQUISIZIONE
Questo non è un testo critico. Basta gettare un colpo d'occhio preliminare sull'intera produzione di Mauro De Carli per consentire al pensiero di fluire nei meandri dell'autoreferenzialità - René
Magritte, Ceci n'est pas une pipe - e dar forma e sostanza a quella che è a tutti gli effetti una
dichiarazione programmatica. L'opera di Mauro De Carli è infatti troppo irregolare per essere
categorizzata nello schematismo della ragion critica. Che in questa circostanza indossa le vesti della critica d'arte. Perché il sommo (?) filosofo di Königsberg, Immanuel Kant, chiamò il suo magnum opus Critica della ragion pura? Ma perché la suddetta critica era sia esterna che interna: non era solo un'analisi sulla ragione, ma era anche la ragione che, analizzando se stessa, puntellava i limiti di ciò che poteva esser conosciuto di là dall'universo di ciò che poteva invece soltanto esser pensato:
Dio, l'anima, il mondo. Ecco, con De Carli la critica d'arte dovrebbe comportarsi allo stesso modo della ragione kantiana: soppesare se stessa. Anzi di più: accomiatarsi da se stessa. Perché un
approccio metateorico alla produzione artistica di Mauro De Carli sarebbe solo vaniloquio, flatus
vocis: parole, parole, parole, come diceva Mina. Questo è un testo in assoluta libertà perché
risponde al carattere intrinsecamente rivoluzionario dell'opera carliana. Ecco qui, l'artista è ancora tra i vivi e noi abbiamo già inventato l'aggettivazione sostantivata che si usa di solito per i sommi -
la produzione picassiana, byroniana, leopardiana, scespiriana, kantiana e così ad libitum.
Conobbi il succitato artista anni fa in occasione di una mostra collettiva a Milano, dove era stato
presentato anche un suo lavoro. Mi fu indicato da un suo ex collega d'Accademia, il quale me
l'introdusse così, con quel timbro nella voce che solo gl'individui dalla scorza dura sanno adottare: «questo è un disegnatore che spacca». In effetti fra le opere in mostra c'era un disegno, il disegno di Mauro De Carli. Raffigurava un soggetto antropomorfico il cui sguardo proveniva da nessun luogo e da nessun tempo; l'anatomia era espressa con segno nervoso e scabro e primitivo e infantile, umana e non umana, collocata in una messinscena, la dislocazione degli elementi della quale faceva pensare a un paesaggio mentale attraversato dalla sindrome di Tourette, mentre tutt'intorno vibrava una serie di enunciazioni verbali, autonome, fisse e sussistenti, frammenti di un universo di discorso familiare ma al contempo slegato da qualsivoglia contesto dotato di senso e codificato linguisticamente come un idioletto. Un grammelot, il grammelot di Mauro De Carli. E chi è questo folle?
Ho parlato di “primitivismo”, o meglio, ho descritto l'opera definendola “primitiva”. Questa è infatti la cifra che investe di sé complessivamente il lavoro di De Carli, nelle occasioni in cui esso si declina nelle carte come nelle tele. Il pensiero corre a Jean Dubuffet ma anche al pittore Consalvi che mangiava i gatti nel film L'uccello dalle piume di cristallo (siamo in tema: l'assassinio avvenne in una galleria d'arte e la vicenda ruotava tutt'intorno a un quadro naïf). Naturalmente un parallelismo tra l'opera di Mauro De Carli e quella di Dubuffet non sta né in cielo né in terra e
infatti siamo ben lungi dal farlo: le recondite armonie col referente illustre passano non attraverso il
segno e la cifra stilistica, bensì per il retroterra concettuale che dà l'impronta di sé a entrambe le
produzioni artistiche, intrinsecamente diverse l'una dall'altra ma accomunate dal medesimo grado
zero di elaborazione colta. Niente tecnicismi, solo la parola ai folli: è la profonda affabilità di un
linguaggio artistico assai vicino alla replica isomorfica del codice espressivo dell'infante.
Com'erano profondi i Greci nella loro superficialità!, chiosava Nietzsche nella Gaia scienza.
Piuttosto per reminiscenza sono le carte, soprattutto le carte, ad accompagnarsi a un illustre
precedente nella storia dell'arte visuale: il segno incisivo, primitivo e infantile, scabro nella
dislocazione di elementi che tuttavia alla fine risultano giustapposti nella loro apparente caoticità e
il ricorso alle sentenze epigrammatiche che sulla superficie disegnata informano di sé l'alfabeto
carliano si coordinano per vie traverse, le vie della reminiscenza appunto, alla cifra stilistica del grande Basquiat. La collocazione culturale è naturalmente diversa (gli anni Ottanta di New York, il
denaro e gli investimenti in arte, l'East Village e Madonna e Annina Nosei e Bruno Bishofberger e
Andy Warhol e Keith Haring e Elio Fiorucci, un'epoca unica e irripetibile e altra rispetto all'Italietta
de noartri), ma una certa familiarità unisce i due codici linguistici: gli “scarabocchi”, la
trascuratezza della superficie, la scabrosità del segno, le sentenze e annotazioni verbali giustapposte
agli elementi figurali e financo quell'essenza rocknrolla che impronta di sé i graffi retinici sulle
superfici sgarrupate di tela, legno, carta.
Certo nella produzione di Mauro De Carli la spiritualità emerge prepotentemente, di contro al
qui-e-ora dell'insigne predecessore, ma chi l'ha detto che lo spirito non debba essere materia, nella
fattispecie bella materia colorata? La trama segnica e pittorica assume nella creazione di De Carli le
fattezze del valore simbolico: la figurazione è deframmentata in un universo proteiforme e
magmatico di interpretazioni del testo pittorico, che sopravviene sulla figura come un grammelot
pensoso e meditativo costituito di simboli che circonfondono l'immagine, vagolano intorno ad essa
e vi si con/fondono, ne preservano la chiarezza e al contempo caricano di mistero la semantica della
composizione complessiva, ottenendo come risultato una comunicazione a-logica composta di un
linguaggio visuale enigmatico e inespugnabile.
L'opera di De Carli adotta dunque un duplice codice linguistico: iconografico e verbale. E
l'affabilità della parola visuale rappresenta l'ultima germinazione del segno - pittorico, disegnato -,
chiave di volta della figurazione espressa con anatomie ora modulari ora sconnesse, secondo una
diade armonico/disarmonico coordinata con l'idioletto carliano che a volte parla al contrario
perchè speculare al linguaggio simbolico dell'inconscio. Non v'è alcuna immagine cresciuta
nell'etere del cervello in attesa d'esser trasposta su carta o tela, ma un flusso - stream of
consciousness, James Joyce docet - in cui l'immagine stessa si edifica da sé, perimetrando lo spazio
pittorico come il campo visuale della pittura egizia. Simbolico e reale coesistono
nell'organizzazione della superficie tracciando una sorta di mappa mentale: è il meccanismo del
pensiero e dello spirito, espresso secondo la privacy epistemica di Mauro De Carli creatore di
un'impresa artistica che parla non della sur-realtà, bensì della sovra-realtà dell'apparato psichico
universale, fatta di processi spirituali di cui il soggetto pensante è il soggetto inconsapevole. Se
avesse illustrato il libro De l'Esprit del philosophe dell'Illuminismo francese Claude Adrien
Helvétius, pubblicato a Parigi nel 1758 e subito bruciato sulla pubblica piazza come libro proibito
dal clero e dal potentato politico, ebbene anche il Nostro sarebbe stato messo all'Indice dalla Santa Inquisizione. Troppo eretico. Troppo esoterico. Troppo rivoluzionario. Troppo matto.
Emanuele Beluffi
23
aprile 2013
Mauro de Carli – Die große Gesundheit
Dal 23 aprile al 05 maggio 2013
arte contemporanea
Location
CENACOLO DI BAGUTTA
Milano, Via Mauro Macchi, 28, (Milano)
Milano, Via Mauro Macchi, 28, (Milano)
Orario di apertura
dalle 15 alle 19, domeniche incluse
Vernissage
23 Aprile 2013, h 18.30
Autore