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Mauro Raffini – Altrove
Torino 1968-1975. L’immigrazione dal Sud. Attimi catturati, fermati, fissati allora, e riportati oggi alla luce. Volti, oggetti, luoghi, spazi che narrano di un incontro spesso difficile con una città e i suoi abitanti.
Comunicato stampa
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ALTROVE
A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa. Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria
Erri De Luca
Torino 1968 - Torino 1975. Attimi catturati, fermati, fissati allora, e riportati oggi alla luce. Restituiti a noi che li guardiamo attoniti e sgomenti. Volti, oggetti, luoghi, spazi che narrano di un incontro spesso difficile, finanche scontro con una città e i suoi abitanti negli anni della grande immigrazione dal Sud. Gli occhi di un giovane Mauro Raffini, fotografo empatico e sensibile, capace ogni volta di stupirci, si fermano su un mondo a parte, visitano un altrove lasciato troppo in ombra, ritraggono volti che ci interrogano sul senso di quella esperienza, di quei viaggi intrapresi alla ricerca di una vita migliore, degna di essere vissuta. Un viaggio di sola andata sovente, come il viaggio di tanti migranti oggi.
Di fronte a quelle immagini, capaci però di lasciarci libertà e facoltà di giudizio, pur nella loro forte denuncia sociale, possiamo intraprendere un percorso in parte guidato dal fotografo, che individua tappe e scandisce momenti fortemente simbolici. Raffini ci sorprende con una narrazione che non lascia spazio a sentimentalismi, con la sua messa in forma, leggermente scandalosa e beffarda, come quella di ragazzini che esibiscono un corpo anticipatamente adulto dentro un modello sfacciato di mascolinità. Immagini che ci pongono interrogativi, disorganizzano le nostre certezze, le mettono in movimento, ponendoci domande sui percorsi di integrazione ed esclusione.
Attraverso i suoi occhi superiamo discretamente la soglia abitata, scorgiamo camere buie, fredde, esageratamente cariche di oggetti, ricordi, mobili recuperati chissà dove, simboli religiosi e profani, donne senza età dentro corpi stanchi. Stanze dove la famiglia si riunisce intorno a un tavolo per lavorare, nessuno escluso, in nero, a montare penne a sfera, ma anche per mangiare insieme e bere un bicchiere di vino, quello buono, del paese.
Una città che non lascia spazio a luce, energie nuove, una città fatta di macerie a cielo aperto, bidoni di immondizia, una città ferita e disordinata. Disagio, vergogna, degrado, solitudine, gettano lunghe ombre su un conclamato sviluppo lineare e progressivo. Emergono ambiguità, ambivalenze. A prevalere è il lato oscuro. Mauro Raffini osa in quel tempo sollevare il velo, osserva coniugando il cuore e la mente. La macchina fotografica si fa strumento di ciò che guardiamo con fatica e forse non vorremmo nemmeno vedere. Foto-choc, nel senso più alto del termine, quel concetto suggerito da Roland Barthes, che auspicava immagini capaci di introdurci allo scandalo, inducendo lo spettatore sulla via di “un giudizio che egli stesso elabora senza essere intralciato dalla presenza demiurgica del fotografo”.
Raffini ci conduce, senza sostituirsi alla nostra libertà di opinione, lungo stazioni ferroviarie, strade, piazze, piazzali spogli e disselciati, al mercato di Porta Palazzo, dove un uomo, una sorta di gorille di Brassens, esibisce per un pugno di monete la sua forza sovrumana agli astanti ammaliati. Ma poi ci sono i bambini che giocano, scavano buche, addentano un panino, o restano a guardare dietro una porta chiusa, quasi sbarre di una prigione. Con i loro sguardi dai grandi occhi scuri, i loro sorrisi, magari anche in posa, le loro maglie a righe strette, i pantaloni troppo corti. Speranza di un futuro, forse migliore.
Una ragazza dai capelli lunghi e sciolti si affaccia a una finestra accanto a una pianta malconcia, e ci interroga intensamente. A noi trovare il punctum che leggermente ci punge, ci tocca, ci ghermisce. Punti sensibili, punteggiate, maculate che sfilano in questo percorso di immagini di una umanità dolente.
A venire i giorni e il tempo del riconoscimento e del cambiamento.
A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa. Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria
Erri De Luca
Torino 1968 - Torino 1975. Attimi catturati, fermati, fissati allora, e riportati oggi alla luce. Restituiti a noi che li guardiamo attoniti e sgomenti. Volti, oggetti, luoghi, spazi che narrano di un incontro spesso difficile, finanche scontro con una città e i suoi abitanti negli anni della grande immigrazione dal Sud. Gli occhi di un giovane Mauro Raffini, fotografo empatico e sensibile, capace ogni volta di stupirci, si fermano su un mondo a parte, visitano un altrove lasciato troppo in ombra, ritraggono volti che ci interrogano sul senso di quella esperienza, di quei viaggi intrapresi alla ricerca di una vita migliore, degna di essere vissuta. Un viaggio di sola andata sovente, come il viaggio di tanti migranti oggi.
Di fronte a quelle immagini, capaci però di lasciarci libertà e facoltà di giudizio, pur nella loro forte denuncia sociale, possiamo intraprendere un percorso in parte guidato dal fotografo, che individua tappe e scandisce momenti fortemente simbolici. Raffini ci sorprende con una narrazione che non lascia spazio a sentimentalismi, con la sua messa in forma, leggermente scandalosa e beffarda, come quella di ragazzini che esibiscono un corpo anticipatamente adulto dentro un modello sfacciato di mascolinità. Immagini che ci pongono interrogativi, disorganizzano le nostre certezze, le mettono in movimento, ponendoci domande sui percorsi di integrazione ed esclusione.
Attraverso i suoi occhi superiamo discretamente la soglia abitata, scorgiamo camere buie, fredde, esageratamente cariche di oggetti, ricordi, mobili recuperati chissà dove, simboli religiosi e profani, donne senza età dentro corpi stanchi. Stanze dove la famiglia si riunisce intorno a un tavolo per lavorare, nessuno escluso, in nero, a montare penne a sfera, ma anche per mangiare insieme e bere un bicchiere di vino, quello buono, del paese.
Una città che non lascia spazio a luce, energie nuove, una città fatta di macerie a cielo aperto, bidoni di immondizia, una città ferita e disordinata. Disagio, vergogna, degrado, solitudine, gettano lunghe ombre su un conclamato sviluppo lineare e progressivo. Emergono ambiguità, ambivalenze. A prevalere è il lato oscuro. Mauro Raffini osa in quel tempo sollevare il velo, osserva coniugando il cuore e la mente. La macchina fotografica si fa strumento di ciò che guardiamo con fatica e forse non vorremmo nemmeno vedere. Foto-choc, nel senso più alto del termine, quel concetto suggerito da Roland Barthes, che auspicava immagini capaci di introdurci allo scandalo, inducendo lo spettatore sulla via di “un giudizio che egli stesso elabora senza essere intralciato dalla presenza demiurgica del fotografo”.
Raffini ci conduce, senza sostituirsi alla nostra libertà di opinione, lungo stazioni ferroviarie, strade, piazze, piazzali spogli e disselciati, al mercato di Porta Palazzo, dove un uomo, una sorta di gorille di Brassens, esibisce per un pugno di monete la sua forza sovrumana agli astanti ammaliati. Ma poi ci sono i bambini che giocano, scavano buche, addentano un panino, o restano a guardare dietro una porta chiusa, quasi sbarre di una prigione. Con i loro sguardi dai grandi occhi scuri, i loro sorrisi, magari anche in posa, le loro maglie a righe strette, i pantaloni troppo corti. Speranza di un futuro, forse migliore.
Una ragazza dai capelli lunghi e sciolti si affaccia a una finestra accanto a una pianta malconcia, e ci interroga intensamente. A noi trovare il punctum che leggermente ci punge, ci tocca, ci ghermisce. Punti sensibili, punteggiate, maculate che sfilano in questo percorso di immagini di una umanità dolente.
A venire i giorni e il tempo del riconoscimento e del cambiamento.
16
maggio 2013
Mauro Raffini – Altrove
Dal 16 maggio al 02 giugno 2013
fotografia
Location
GALLERIA OBLOM
Torino, Via Giuseppe Baretti, 28, (Torino)
Torino, Via Giuseppe Baretti, 28, (Torino)
Orario di apertura
da martedì a venerdì ore 16-20; sabato su appuntamento
Vernissage
16 Maggio 2013, ore 21
Autore
Curatore