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Memento
Memento. Una mostra che non intende puntare il dito sui tratti nichilistici della vita, ma esibire qualcosa di più ambiguo e sfuggente, ossia quell’abbraccio mortale tra apparenza e realtà, tra certezza e problematicità in cui sta naufragando il mondo d’oggi. Non il disastro sbattuto in faccia, ma i
Comunicato stampa
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“Le immagini di mattatoi e di carne mi hanno sempre colpito (...) che altro siamo se non potenziali carcasse?” Così scriveva Francis Bacon tra i suoi tormenti e le sue estasi. E se nel '600 il tema della “Vanitas” aveva una valenza prettamente allegorica, in quanto tutto il suo arredo di libri, candele, orologi, teschi richiamava la misurazione e il trascorrere del tempo, traducendo in immagine la constatazione della preziosità/fragilità dei desideri, delle aspettative terrene dell'uomo (della ricca borghesia mercantile del tempo), oggi le stesse “immagini obitoriali” hanno perso ogni dimensione moraleggiante: non sono più figure simboliche, giudizi o riflessioni sulla decadenza (e sulla fine), ma sono traduzioni indiziarie di quella che è la pura e semplice realtà. Fumo, inconsistenza, polvere non costituiscono richiami o rappresentazioni di un disfacimento, ma si identificano con la lampante presentazione del disfacimento stesso. E' il sentimento della perdita che viene testimoniato: è l'osservazione della precarietà e della provvisorietà del mondo reale che viene documentata. Quello che allora era uno sguardo tragico sul futuro, adesso è diventato uno sguardo ansioso sul passato (o sul presente?) e sulla sporca desolazione che esso porta dentro di sè: come la caduta dei muri, la frantumazione dei progetti, l'esplosione delle forme. Non si può fare altro che riflettere sui propri confini, pensarsi al limite, sentirsi in un tempo senza più tempo. E allora, anche le “potenziali carcasse” di Bacon diventano immagini pittoriche già distrutte, già finite; come le figure di Giacometti fanno pensare ad esseri prosciugati, aspirati, spazzati via...
Così, il titolo della mostra Memento (quia pulvis es...) fa prospettiva sul concetto di vuoto e sulla sua rappresentazione: è una riflessione sull'effimero, una celebrazione dell'assenza. E le opere prevedono la morte della natura al posto della classica “natura morta” (con tutte le sue magiche simbologie). Sulla scena si accampano solo simulacri, spettri, fantasmi di cose. E' come se fosse il mutismo a venir colto o un'eco che si eclissa, dimentica di ciò che l'ha generata. Non si dà creazione che non porti in sè i sintomi della distruzione; non si offre apparizione che non contempli la scomparsa. C'è l'incubo di Hiroshima, ci sono le macerie delle Torri, c'è la strage dello Tsunami, dietro a queste opere. Il loro paesaggio è quello dello sconcerto e dello straniamento. La loro dimensione è quella del mondo della “vita che va via”. L'artista non fornisce allora che testimonianze di tracce incerte, di cose che si ritirano, di spazi che si dissolvono. Il suo sguardo è come quello di colui che entra in un magazzino polveroso, pieno di oggetti affastellati senza poterne più riconoscere che la perdita, la realtà velata. Non gli è concesso darne un'interpretazione o fornirne un senso plausibile. La sua è un'opera che non rimanda al grido o al silenzio, ma un'opera che fa silenzio “in quanto domanda che vuole restare tale”: ferita aperta, inquietudine senza soluzione di continuità.
E' quanto suggeriscono le teche di Maria Teresa Novello che custodiscono “paesaggi” di cenere, dove ogni idea di oggetto diventa a suo modo spirituale, misteriosa, ma anche quanto suggeriscono le foto di Silvano Tessarollo: resti di vita, scarti che sembrano esistere solo perchè risvegliati dal tormento di una luce livida. Con le immagini di Brigitte Niedermaier (fotografa di moda) cambia lo scenario: lei allestisce (e poi riprende) dei set in cui mescola tipiche icone della “vanitas” con quelli che sono i segni dell'”impero dell'effimero”. Infine, i dipinti e le installazioni di Manfredi Beninati, ricorrono ad un inquietante e fastoso gioco di sovrapposizioni per dar vita a un mondo in cui ogni forma è colta nell'atto di trasformarsi, di sciogliersi, di disfarsi.
Memento. Una mostra che non intende puntare il dito sui tratti nichilistici della vita, ma esibire qualcosa di più ambiguo e sfuggente, ossia quell'abbraccio mortale tra apparenza e realtà, tra certezza e problematicità in cui sta naufragando il mondo d'oggi. Non il disastro sbattuto in faccia, ma il concetto di obsolescenza che è incistato come un cancro in ogni cosa e persona: la convivenza del sublime con il sinistro, della bellezza con l'orrore.
Così, il titolo della mostra Memento (quia pulvis es...) fa prospettiva sul concetto di vuoto e sulla sua rappresentazione: è una riflessione sull'effimero, una celebrazione dell'assenza. E le opere prevedono la morte della natura al posto della classica “natura morta” (con tutte le sue magiche simbologie). Sulla scena si accampano solo simulacri, spettri, fantasmi di cose. E' come se fosse il mutismo a venir colto o un'eco che si eclissa, dimentica di ciò che l'ha generata. Non si dà creazione che non porti in sè i sintomi della distruzione; non si offre apparizione che non contempli la scomparsa. C'è l'incubo di Hiroshima, ci sono le macerie delle Torri, c'è la strage dello Tsunami, dietro a queste opere. Il loro paesaggio è quello dello sconcerto e dello straniamento. La loro dimensione è quella del mondo della “vita che va via”. L'artista non fornisce allora che testimonianze di tracce incerte, di cose che si ritirano, di spazi che si dissolvono. Il suo sguardo è come quello di colui che entra in un magazzino polveroso, pieno di oggetti affastellati senza poterne più riconoscere che la perdita, la realtà velata. Non gli è concesso darne un'interpretazione o fornirne un senso plausibile. La sua è un'opera che non rimanda al grido o al silenzio, ma un'opera che fa silenzio “in quanto domanda che vuole restare tale”: ferita aperta, inquietudine senza soluzione di continuità.
E' quanto suggeriscono le teche di Maria Teresa Novello che custodiscono “paesaggi” di cenere, dove ogni idea di oggetto diventa a suo modo spirituale, misteriosa, ma anche quanto suggeriscono le foto di Silvano Tessarollo: resti di vita, scarti che sembrano esistere solo perchè risvegliati dal tormento di una luce livida. Con le immagini di Brigitte Niedermaier (fotografa di moda) cambia lo scenario: lei allestisce (e poi riprende) dei set in cui mescola tipiche icone della “vanitas” con quelli che sono i segni dell'”impero dell'effimero”. Infine, i dipinti e le installazioni di Manfredi Beninati, ricorrono ad un inquietante e fastoso gioco di sovrapposizioni per dar vita a un mondo in cui ogni forma è colta nell'atto di trasformarsi, di sciogliersi, di disfarsi.
Memento. Una mostra che non intende puntare il dito sui tratti nichilistici della vita, ma esibire qualcosa di più ambiguo e sfuggente, ossia quell'abbraccio mortale tra apparenza e realtà, tra certezza e problematicità in cui sta naufragando il mondo d'oggi. Non il disastro sbattuto in faccia, ma il concetto di obsolescenza che è incistato come un cancro in ogni cosa e persona: la convivenza del sublime con il sinistro, della bellezza con l'orrore.
27
febbraio 2010
Memento
Dal 27 febbraio al 24 aprile 2010
arte contemporanea
Location
LA GIARINA ARTE CONTEMPORANEA
Verona, Interrato Acqua Morta, 82, (Verona)
Verona, Interrato Acqua Morta, 82, (Verona)
Orario di apertura
da martedì a sabato 10-12 e 15.30-19
Vernissage
27 Febbraio 2010, dalle 18.30
Autore
Curatore