Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Menelaw Sete – Il colore della verità
Menelaw Sete rappresenta la nuova realtà stilistica dell’America Latina tanto da meritarsi l’appellativo di “ Picasso del Brasile “ per il richiamo, nella fusione stilistica delle sue opere, delle forme espressive del cubismo analitico tanto care al nobile Maestro di Malaga.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Sarà mercoledì 19 novembre e precisamente alle ore 19.00 il momento in cui si accenderanno i riflettori al Superstudio Più di via Tortona 27 a Milano per illuminare l’attesissima performance dell’artista brasiliano Menelaw Sete a congedo della sua prima personale meneghina tenuta in occasione della settimana del ( con ) Temporary Art. La personale di Menelaw Sete ancora in essere, su prenotazione al numero 0322.913450, fino al 23 novembre nel Basement del Superstudio Più, ha ottenuto particolare interesse e numerosi consensi di critica per una continua ricerca e studio evolutivo del cubismo analitico. Opere in mostra ispirate dalla cultura afro brasiliana e associate a colorazioni di gusto tropicale che intervengono su elementi figurativi legati al mondo dell’artista e alle cose che lo attorniano. Notizia dell’ultima ora giunge dallo stato di Bahia dove il singolare ed eccentrico Menelaw Sete festeggerà, con personalità a lui culturalmente vicine quali il grande architetto Oscar Niemeyer e i compositori e interpreti brasiliani come Gilberto Gil, Caetano Veloso, Vinicius de Moraes e Chico Buarche de Hollanda, l’onorificenza dell’equivalente titolo italiano di Commendatore nella giornata del 9 dicembre. Alla presenza di Riccardo Deni quale curatore della mostra e di Luigi Di Corato, docente dell’Università Cattolica di Milano che esporrà sull’artista, Menelaw Sete durante la serata di mercoledì realizzerà in tempo reale un’opera destinata, a scopo benefico, all’Accademia delle Arti d’Italia nella persona della Presidentessa Fernanda Maranesi che a sua volta lo consegnerà all’Istituto Europeo di Oncologia di Umberto Veronesi.
Il colore della verità di Riccardo Deni
L’arte non ha planisfero. E’ una zattera di pietra che solca mollemente e indifferente i mari del globo, nella quale siamo tutti stipati. La globalizzazione (ci) ha fagocitato, con voracità. Tecniche e linguaggi sono stati rimaneggiati, rapiti, mescolati, talvolta abusati. Sono state sfondate con impeto le barriere d’ingresso ad un linguaggio non convenzionale che è divenuto confuso e poco rispettato. Torti e svantaggi dell’allargamento, verrebbe da dire.
Certo è che il magma nel quale il contemporaneo si trova invischiato ha poco a che spartire con la chirurgica divisione delle gerarchie che ha sempre contraddistinto epoche precedenti. La morte della reazionarietà delle correnti è un dato di fatto incontrovertibile. La tendenza alla limitrofia ha consentito un allargamento delle maglie, solitamente serrate, della critica dell’arte e la sopravvivenza di anomale forme di parassitismo artistico, di trasformismo estetico. In questo ordinamento inconsueto, dove il reperimento dell’informazione è velocissimo, lo scambio d’idea facile e indolore e la sua durata media spaventosamente breve, dovremmo essere in grado di accettare la sparizione (forse la morte) della topografia dell’arte.
Quanto di questo, tuttavia, è necessario che accada?
Se nel funerale del planisfero coesistono una serie di fattori incidentali, a margine di questi si affollano una lunga serie di obiezioni e dubbi ragionevoli. La personale di Menelaw Sete è uno di questi. A chiosa di un linguaggio estetico cromaticamente vivo ed esplicito vi è la necessità –o il dovere- di porre degli interrogativi circa il lavoro, folle eppure curato, di un artista brasiliano della contemporaneità. Se l’arte fosse veramente un calderone globalizzato dovremmo considerare la produzione di un’opera come il frutto esplicito di un processo tipicamente endogeno. L’artista produce quello che sente e lo pone nell’immenso scenario dell’arte del mondo. Eppure, se così fosse, dimenticheremmo quella variabile residuale che è il sostrato su cui si basa il linguaggio artistico. Il valore indiscutibile della cultura, il pregresso che si annida in ciascun uomo è che il risultato delle emulsioni tra la cultura primaria umana, la civiltà con cui convive e la propria formazione. L’assassinio della geoarte porta in seno il rischio di non poter analizzare il prodotto artistico con la lente antropologica del perché questo è sorto? e di parametrare nel magma generale ogni produzione allo stesso modo.
A questo punto, l’affascinante che risiede nel lavoro di Sete è comprendere le motivazioni che ne stanno alla base, riposizionandolo nel complesso di una cultura, quella dell’America latina, e di una geografia, in questo caso da intendere come tangibile lontananza dal complesso dell’arte europea. Nell’artista brasiliano coabitano una vasto spettro di motivazioni scatenanti.
Innanzitutto il rapporto con la sessualità, legato alla rinascita dello spirito attraverso la procreazione. Esso affonda le sue radici in quell’invocazione divenuta profana della fertilità. Nella raffigurazione dei falli abnormi e dai colori in risalto esplode la doverosa attrazione per il contatto energico, per la mescolanza di un fluido che non è seminale in senso dispregiativo quanto più una contaminazione, un ampliamento della corporeità. I membri divengono dei cordoni ombelicali che dispiegano una storia, talvolta eccessiva e informe, che è storia di ogni uomo. Il sostrato culturale di Menelaw Sete è intriso di una follia che è lacerazione. Porta l’artista su strade poco dominate, attorno a labirinti che si trova ad esplorare volonterosamente. In un mondo latino spesso claustrofobico, attanagliato da piaghe sociali complesse, come la povertà, il collasso ambientale, la mancanza di un futuro certo, la necessità di una pianificazione, Sete si barcamena lasciando esplodere un’incontrollabile frenesia cromatica che si aggiunge all’incapacità di dare una forma certa ai suoi spauracchi. Le tele sono epicentri tettonici confusi di deliri che si mostrano in volti e figure, attraverso un alfabeto semantico elementare. Un fiore per la nascenza. Il fallo per la fertilità. E poco di più. Nella semplicità dell’universo semantico utilizzato risiede la forza di un messaggio che non può essere travisato. Menelaw Sete, attraverso la verità che risiede nel colore, nelle sacche cromatiche indiscutibili del suo pennello, ci racconta la sconvolgente verità dell’umano. I residuali ovvi eppure dimenticati del nostro essere: un rapporto ancestrale, il valore dello sguardo come legame indissolubile, il simbolo come lente, indizio per impedire di dimenticare.
Nella teoria della geoarte non possiamo dimenticare la lezione anti-globalizzatrice di Wallerstein che ci ha insegnato a considerare il centro e la periferia non come due condizioni permanenti e neppure come figli in favore o sfortunati di una stessa madre. Bensì come stadi differenti, posizionamenti storici pregressi o posteriori.
Il lavoro dell’artista brasiliano è, così, non solo un’opera nella quale scorgere la risposta alle domande fondamentali del nostro essere uomini, ma anche e soprattutto quel secondo genito di Wallerstein che si approccia al linguaggio Arte successivamente, avendo a disposizione meno strumenti.
Il lavoro forte e genuino al punto da apparire ingenuo di Sete riporta così alla considerazione di Piquet circa l’importanza dell’evoluzione del linguaggio: Io non potrei parlare di sublime con il vocabolario di Platone.
Nella spregiudicatezza di questa affermazione sta la nascita della consapevolezza di un processo a stadi dell’estetica che, tuttavia, si prefigura come un’interpolazione continua e incessante degli uni con gli altri.
In quest’ottica molto Leibniziana si rannicchia la certezza che il planisfero dell’arte ha il suo seme principale nel paragone delle culture. Nel bisogno intrinseco di considerarsi un linguaggio a se stante e pertanto in continua evoluzione. L’impatto che tale evoluzione ha sulle varie sacche del mondo porta a risposte differenti e peculiari come, ad esempio, quella genuina di Menelaw Sete. Sarebbe fazioso se non pretestuoso considerare migliore o posteriore in senso strettamente positivo una piuttosto che altra.
E pertanto ci invita a considerare fondamentale oltre che pienamente interessante il lavoro dell’artista brasiliano.
Riccardo Deni
Il colore della verità di Riccardo Deni
L’arte non ha planisfero. E’ una zattera di pietra che solca mollemente e indifferente i mari del globo, nella quale siamo tutti stipati. La globalizzazione (ci) ha fagocitato, con voracità. Tecniche e linguaggi sono stati rimaneggiati, rapiti, mescolati, talvolta abusati. Sono state sfondate con impeto le barriere d’ingresso ad un linguaggio non convenzionale che è divenuto confuso e poco rispettato. Torti e svantaggi dell’allargamento, verrebbe da dire.
Certo è che il magma nel quale il contemporaneo si trova invischiato ha poco a che spartire con la chirurgica divisione delle gerarchie che ha sempre contraddistinto epoche precedenti. La morte della reazionarietà delle correnti è un dato di fatto incontrovertibile. La tendenza alla limitrofia ha consentito un allargamento delle maglie, solitamente serrate, della critica dell’arte e la sopravvivenza di anomale forme di parassitismo artistico, di trasformismo estetico. In questo ordinamento inconsueto, dove il reperimento dell’informazione è velocissimo, lo scambio d’idea facile e indolore e la sua durata media spaventosamente breve, dovremmo essere in grado di accettare la sparizione (forse la morte) della topografia dell’arte.
Quanto di questo, tuttavia, è necessario che accada?
Se nel funerale del planisfero coesistono una serie di fattori incidentali, a margine di questi si affollano una lunga serie di obiezioni e dubbi ragionevoli. La personale di Menelaw Sete è uno di questi. A chiosa di un linguaggio estetico cromaticamente vivo ed esplicito vi è la necessità –o il dovere- di porre degli interrogativi circa il lavoro, folle eppure curato, di un artista brasiliano della contemporaneità. Se l’arte fosse veramente un calderone globalizzato dovremmo considerare la produzione di un’opera come il frutto esplicito di un processo tipicamente endogeno. L’artista produce quello che sente e lo pone nell’immenso scenario dell’arte del mondo. Eppure, se così fosse, dimenticheremmo quella variabile residuale che è il sostrato su cui si basa il linguaggio artistico. Il valore indiscutibile della cultura, il pregresso che si annida in ciascun uomo è che il risultato delle emulsioni tra la cultura primaria umana, la civiltà con cui convive e la propria formazione. L’assassinio della geoarte porta in seno il rischio di non poter analizzare il prodotto artistico con la lente antropologica del perché questo è sorto? e di parametrare nel magma generale ogni produzione allo stesso modo.
A questo punto, l’affascinante che risiede nel lavoro di Sete è comprendere le motivazioni che ne stanno alla base, riposizionandolo nel complesso di una cultura, quella dell’America latina, e di una geografia, in questo caso da intendere come tangibile lontananza dal complesso dell’arte europea. Nell’artista brasiliano coabitano una vasto spettro di motivazioni scatenanti.
Innanzitutto il rapporto con la sessualità, legato alla rinascita dello spirito attraverso la procreazione. Esso affonda le sue radici in quell’invocazione divenuta profana della fertilità. Nella raffigurazione dei falli abnormi e dai colori in risalto esplode la doverosa attrazione per il contatto energico, per la mescolanza di un fluido che non è seminale in senso dispregiativo quanto più una contaminazione, un ampliamento della corporeità. I membri divengono dei cordoni ombelicali che dispiegano una storia, talvolta eccessiva e informe, che è storia di ogni uomo. Il sostrato culturale di Menelaw Sete è intriso di una follia che è lacerazione. Porta l’artista su strade poco dominate, attorno a labirinti che si trova ad esplorare volonterosamente. In un mondo latino spesso claustrofobico, attanagliato da piaghe sociali complesse, come la povertà, il collasso ambientale, la mancanza di un futuro certo, la necessità di una pianificazione, Sete si barcamena lasciando esplodere un’incontrollabile frenesia cromatica che si aggiunge all’incapacità di dare una forma certa ai suoi spauracchi. Le tele sono epicentri tettonici confusi di deliri che si mostrano in volti e figure, attraverso un alfabeto semantico elementare. Un fiore per la nascenza. Il fallo per la fertilità. E poco di più. Nella semplicità dell’universo semantico utilizzato risiede la forza di un messaggio che non può essere travisato. Menelaw Sete, attraverso la verità che risiede nel colore, nelle sacche cromatiche indiscutibili del suo pennello, ci racconta la sconvolgente verità dell’umano. I residuali ovvi eppure dimenticati del nostro essere: un rapporto ancestrale, il valore dello sguardo come legame indissolubile, il simbolo come lente, indizio per impedire di dimenticare.
Nella teoria della geoarte non possiamo dimenticare la lezione anti-globalizzatrice di Wallerstein che ci ha insegnato a considerare il centro e la periferia non come due condizioni permanenti e neppure come figli in favore o sfortunati di una stessa madre. Bensì come stadi differenti, posizionamenti storici pregressi o posteriori.
Il lavoro dell’artista brasiliano è, così, non solo un’opera nella quale scorgere la risposta alle domande fondamentali del nostro essere uomini, ma anche e soprattutto quel secondo genito di Wallerstein che si approccia al linguaggio Arte successivamente, avendo a disposizione meno strumenti.
Il lavoro forte e genuino al punto da apparire ingenuo di Sete riporta così alla considerazione di Piquet circa l’importanza dell’evoluzione del linguaggio: Io non potrei parlare di sublime con il vocabolario di Platone.
Nella spregiudicatezza di questa affermazione sta la nascita della consapevolezza di un processo a stadi dell’estetica che, tuttavia, si prefigura come un’interpolazione continua e incessante degli uni con gli altri.
In quest’ottica molto Leibniziana si rannicchia la certezza che il planisfero dell’arte ha il suo seme principale nel paragone delle culture. Nel bisogno intrinseco di considerarsi un linguaggio a se stante e pertanto in continua evoluzione. L’impatto che tale evoluzione ha sulle varie sacche del mondo porta a risposte differenti e peculiari come, ad esempio, quella genuina di Menelaw Sete. Sarebbe fazioso se non pretestuoso considerare migliore o posteriore in senso strettamente positivo una piuttosto che altra.
E pertanto ci invita a considerare fondamentale oltre che pienamente interessante il lavoro dell’artista brasiliano.
Riccardo Deni
10
novembre 2008
Menelaw Sete – Il colore della verità
Dal 10 al 23 novembre 2008
arte contemporanea
Location
SUPERSTUDIO PIU’
Milano, Via Tortona, 27, (Milano)
Milano, Via Tortona, 27, (Milano)
Orario di apertura
dalle ore 16.00 – 20.00
Ufficio stampa
MG ART
Autore
Curatore