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M’horó – Oltre l’ignoto
Mostra personale dedicata alle sculture dell’artista M’horó, caratterizzate da complesse arhcitetture composte da superfici radianti dalle cromie cangianti e iridescenti; le sue opere sono costruzioni spaziali aperte che si espandono nello spazio in onde sinuose che seguitano a rigenerarsi.
Comunicato stampa
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La galleria Colossi Arte Contemporanea presenta la personale di M'horó, artista poliedrico che stupirà gli spettatori con le superfici radianti dalle cromie cangianti e iridescenti delle sue sculture, costruzioni spaziali aperte che si espandono nello spazio in onde sinuose in continua rigenerazione, simili ad organismi viventi metallici, arazzi contemporanei dall'allure fantascientifica che si estendono nell'ambiente in forme caleidoscopiche, talvolta cesellate con trame geometriche astratte.
Come sostenevano i futuristi già a inizio secolo, l'estetica della macchina rombante, dei pistoni che ruotano, della nuova tecnologia industriale che si fa avanti ha sostituito i dettami dell'estetica del Neoclassicismo, la purezza ideale, la levigatezza delle forme di winckelmanniana memoria si perde di fronte alla “divinità che impera” negli anni '20 del XX secolo: la Macchina. Per macchina non si intende più solamente le sbuffanti macchine a vapore della rivoluzione industriale, quelle esposte come grandiose innovazioni al futuristico Crystal Palace progettato da Paxton nel 1851 per l'Esposizione Universale londinese, ma anche quelle mosse dal motore a scoppio, come l'automobile “con il cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo” oppure l'aereo, la locomotiva o la nave. Si apre allora una dimensione del tutto nuova: l'estetica della modernità tecnologica che esalta la lucententezza delle superfici metalliche dei piroscafi, la sinuosità dei fili dei circuiti elettrici, dei quadri marmorei di distribuzione, con i loro commutatori lucenti intrecciati di fili, la forma meccanica di pistoni e rotori. Un'onda lunga nella storia dell'arte che parte dall'esaltazione della velocità e dell'estetica della macchina del Futurismo Meccanico di Prampolini, Pannaggi e Paladini, passa attraverso il razionalismo del Bauhaus, l'ironia dissacrante e il rifiuto del meccanicismo dei dadaisti e dei Portraits Méchaniques di Picabia, con i suoi grovigli di pezzi meccanici e la raffigurazione iconica degli ingranaggi, per arrivare alle macchine che costruisce Léger, attente solamente all'armonia plastica delle forme, e alle macchine inutili di Tinguely e Munari, intese come pura pratica pittorica in movimento; si arriva poi agli anni '60-'70 con la Mec-Art di Gianni Bertini dove pezzi di ingranaggi, rotori svettano con la grazia apollinea di nuove divinità iridate, sollevate dalla pesantezza degli ingranaggi del motore. Alleggeriti dalla pesantezza di componenti meccaniche, i rotori di Bertini svettano tra i segni vorticosi e dinamici dell'Informale. L'onda del dinamismo futurista riemerge, l'esaltazione della velocità dei tempi moderni si esprime in nuove forme artistiche che si sostituiscono a quelle classiche. Non è un caso che Pierre Restany definisse Bertini “Le Néo-Classique” . Per i titoli delle sue opere, il maestro toscano attingeva al mondo della mitologia greca, cercando un nuovo panorama iconografico di riferimento, quello accennato già dagli scenari metropolitani e dalle onde dinamiche delle auto in movimento dei futuristi, la cui pesantezza viene alleggerita in una composizione astratta, capace di estendersi nella terza dimensione dello spazio, nel caso delle Macchine aeree di Munari, capaci di creare inaspettate composizioni di elementi dalla leggerezza ineffabile. La stessa levità nell'estendersi nello spazio che caratterizza le lamine metalliche ondulate di M'horó. Contrariamente Tinguely fa leva sulla tronfia pesantezza della macchina, con tanto di fragore dato dal movimento di pulegge, putrelle, ruote e cighie. M'horó, invece, fa risorgere le sue componenti meccaniche come fantascientifici arazzi che sorvolano le pareti, simili alle plancie di comando di un'astronave.
È in questa lunga storia del culto della macchina e delle sue componenti che si inserisce M'horó.
Pensate se ad allungarsi nello spazio non fossero più le flessuose dita di Proserpina che mutano in ramificazioni del gruppo scultoreo del Bernini, ma superfici radianti in alluminio che si estendono come flessuosi nastri sulle pareti diramandosi in tubazioni dai riflessi del rame. E se a compiere un movimento rotatorio non fosse più il fisico atletico con i muscoli torniti nella levigatezza del marmo del Discobolo di Mirone, oppure le colonne tortili bronzee del baldacchino di San Pietro del Bernini, ma telai laminati? Questa è l'arte ipnotica e stupefacente di M'horó.
M'horó compie un'inusuale inversione di tendenza rispetto a molte tendenze dell'arte contemporanea che è persino arrivata a comprimere elementi tratti dai mezzi meccanici, talvolta intere autombili, se pensiamo all'arte di César. Ma all'artista non interessa la patinata lucentezza delle carrozzerie delle auto o le torsioni del lucente metallo che sembra appena uscito da un processo industriale, smaltato, ma compie un passo indietro: recupera radiatori e resistenze di elettrodomestici già sfruttati per farli risorgere a nuova vita. Ecco allora che essi assurgono ad una nuova dimensione, l'élan vital ricomincia a scorrere nelle loro lamine metalliche ibride e cangianti come quelle degli organismi viventi. Questi reperti dell'archeologia industriale rivivono dopo che l'epoca della rivoluzione, dei vapori emessi da radiatori surriscaldati, si è ormai conclusa da più di un secolo e l'uomo ha cominciato ad attingere ai combustibili fossili. Come Picasso recuperava manubri e selle di bicicletta per trasmutarli in nuove divinità scultoree, nuovi idoli che entrano improvvisamente nel panorama artistico, M'horó, nell'era digitale del software, dove imperversa la realtà virtuale, le dimensioni impalpabibili e “liquide”, per usare una parola alla Bauman, della multimedialità, compie un passo indietro nel tempo. Il suo recupero è un'operazione dadaista che riporta in vita forme primordiali della tecnologia industriale: quelli che agli inizi del XX secolo erano ingranaggi, adesso sono le strutture interne, le resistenze un tempo surriscaldate di frigoriferi, radiatori di automobili liberati dalla pesantezza delle componenti meccaniche per assumere una consistenza sculturea e monumentale, ma, allo stesso tempo, leggera e volatile, grazie alla morbidezza tattile della successione di lamine metalliche che compongono le opere dell'artista.
M'horó compie un passo indietro non soltanto nei confronti della smaccata levigatezza delle superfici plastiche così di moda nell'arte contemporanea, ma anche nel suo profilo di artista: dati anagrafici, provenienza, sesso, età, razza e percorso di formazione rimangono ignoti. Un inusuale alone di mistero circonda la sua persona che preferisce rimanere nell'incognito, contrariamente alla (forse) talvolta eccessiva visibilità di molti artisti attuali, supportata e alimentata anche alla onnipresenza delle immagini delle loro opere sul web e sui social network. Meccanisimi di autopromozione che M'horó non conosce, preferendo che siano le sue opere a parlare per lui, a concedersi allo sguardo del pubblico pieno di interrogativi al suo posto.
Sono le sue opere che rispondono, con il loro solenne silenzio, agli interrogativi degli spettatori con significati arcani e arcaici, svelati dal ritmo cangiante delle vibrazioni, dalle rotazioni plastiche e fluide delle sue strutture modulari metalliche che sfiorano il mimetismo con le conformazioni naturali delle rocce metamorfiche. La successione delle sottilissime lamelle, taglienti se sfiorate singolarmente, malleabili e flessuose se si fa scorrere la mano sulla loro superificie, crea lo scheletro interno di questi organismi. La loro superficie, talvolta, è segnata dall'intersezione di forme geometriche come il cerchio, il triangolo. Ripiegati, contorti come pagine di un libro, questi “esseri meccanici” assumono forme ovoidali e sembrano in costante rigenerazione, mossi da una sorta di linfa vitale, in un attento gioco di corrispondenze ed equilbri tra le parti che li compongono. L'espansione delle componenti e delle strutture formali delle sue sculture nella terza dimensione è frenetica, scandita dall'intrecciarsi ritmico e isometrico delle sottilissime lamine fogliari che ne costituiscono l'ossatura, scandito dall'iridescenza delle cromie cangianti che caratterizzano la loro superficie tattile, morbida, dalle linee sinuose e ondulate.
Trattate con smalti policromi, incise con astratte trame geometriche, le lamine dell'artista sono come componenti meccaniche, cilindri, radiatori, resistenze elettriche che si sono liberati della loro pesantezza tutta terrena per assumere la levità e la consistenza eterogenea degli organismi viventi, con le loro nicchie e i loro anfratti, la monumentalità di nuove icone dell'arte. Quando si entra in una stanza dove sono esposte le sue sculture, finemente cesellate e dalle cromie vibranti di infiniti riflessi, abbiamo l'impressione di visitare una sorta di Wunderkammer, dove le forme del meraviglioso, strani congegni meccanici, automi, mostri marini, anticaglie preziose risplendono di nuova vita e vengono gelosamente custoditi nelle collezioni di prinicipi amatori del collezionismo. Allora subentra in noi la voglia di appropriarci di questi preziosi reperti dell'era industriale, della moderna tecnologia, riportati ad un inedito splendore. Le sue opere sono “citazioni dall'antico”, strutture architettoniche articolate e complesse che continuano a veicolare sempre nuovi significati, facendo scorrere la nostra mente avanti e indietro sulla linea temporale della Storia e della storia dell'arte, con citazioni iconografiche che vanno dalla rivoluzione industriale cantata dal Futurismo storico alle composizioni geometriche in movimento delle Macchine di Munari.
Possiamo concludere che, come disse Restany di Bertini, M'horó è entrato ufficialmente nell'albo dei (nuovi) “Néo-Classiques” (sempre che ne esistano altri con la medesima portata innovativa) perché ha saputo attingere dal panorama iconografico della società contemporanea per creare nuovi paradigmi, nuovi dogmi che mantengono tutto il sapore di epoche passate, sia dal punto di vista dell'espressione artistica che delle tematiche che ne emergono.
Come sostenevano i futuristi già a inizio secolo, l'estetica della macchina rombante, dei pistoni che ruotano, della nuova tecnologia industriale che si fa avanti ha sostituito i dettami dell'estetica del Neoclassicismo, la purezza ideale, la levigatezza delle forme di winckelmanniana memoria si perde di fronte alla “divinità che impera” negli anni '20 del XX secolo: la Macchina. Per macchina non si intende più solamente le sbuffanti macchine a vapore della rivoluzione industriale, quelle esposte come grandiose innovazioni al futuristico Crystal Palace progettato da Paxton nel 1851 per l'Esposizione Universale londinese, ma anche quelle mosse dal motore a scoppio, come l'automobile “con il cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo” oppure l'aereo, la locomotiva o la nave. Si apre allora una dimensione del tutto nuova: l'estetica della modernità tecnologica che esalta la lucententezza delle superfici metalliche dei piroscafi, la sinuosità dei fili dei circuiti elettrici, dei quadri marmorei di distribuzione, con i loro commutatori lucenti intrecciati di fili, la forma meccanica di pistoni e rotori. Un'onda lunga nella storia dell'arte che parte dall'esaltazione della velocità e dell'estetica della macchina del Futurismo Meccanico di Prampolini, Pannaggi e Paladini, passa attraverso il razionalismo del Bauhaus, l'ironia dissacrante e il rifiuto del meccanicismo dei dadaisti e dei Portraits Méchaniques di Picabia, con i suoi grovigli di pezzi meccanici e la raffigurazione iconica degli ingranaggi, per arrivare alle macchine che costruisce Léger, attente solamente all'armonia plastica delle forme, e alle macchine inutili di Tinguely e Munari, intese come pura pratica pittorica in movimento; si arriva poi agli anni '60-'70 con la Mec-Art di Gianni Bertini dove pezzi di ingranaggi, rotori svettano con la grazia apollinea di nuove divinità iridate, sollevate dalla pesantezza degli ingranaggi del motore. Alleggeriti dalla pesantezza di componenti meccaniche, i rotori di Bertini svettano tra i segni vorticosi e dinamici dell'Informale. L'onda del dinamismo futurista riemerge, l'esaltazione della velocità dei tempi moderni si esprime in nuove forme artistiche che si sostituiscono a quelle classiche. Non è un caso che Pierre Restany definisse Bertini “Le Néo-Classique” . Per i titoli delle sue opere, il maestro toscano attingeva al mondo della mitologia greca, cercando un nuovo panorama iconografico di riferimento, quello accennato già dagli scenari metropolitani e dalle onde dinamiche delle auto in movimento dei futuristi, la cui pesantezza viene alleggerita in una composizione astratta, capace di estendersi nella terza dimensione dello spazio, nel caso delle Macchine aeree di Munari, capaci di creare inaspettate composizioni di elementi dalla leggerezza ineffabile. La stessa levità nell'estendersi nello spazio che caratterizza le lamine metalliche ondulate di M'horó. Contrariamente Tinguely fa leva sulla tronfia pesantezza della macchina, con tanto di fragore dato dal movimento di pulegge, putrelle, ruote e cighie. M'horó, invece, fa risorgere le sue componenti meccaniche come fantascientifici arazzi che sorvolano le pareti, simili alle plancie di comando di un'astronave.
È in questa lunga storia del culto della macchina e delle sue componenti che si inserisce M'horó.
Pensate se ad allungarsi nello spazio non fossero più le flessuose dita di Proserpina che mutano in ramificazioni del gruppo scultoreo del Bernini, ma superfici radianti in alluminio che si estendono come flessuosi nastri sulle pareti diramandosi in tubazioni dai riflessi del rame. E se a compiere un movimento rotatorio non fosse più il fisico atletico con i muscoli torniti nella levigatezza del marmo del Discobolo di Mirone, oppure le colonne tortili bronzee del baldacchino di San Pietro del Bernini, ma telai laminati? Questa è l'arte ipnotica e stupefacente di M'horó.
M'horó compie un'inusuale inversione di tendenza rispetto a molte tendenze dell'arte contemporanea che è persino arrivata a comprimere elementi tratti dai mezzi meccanici, talvolta intere autombili, se pensiamo all'arte di César. Ma all'artista non interessa la patinata lucentezza delle carrozzerie delle auto o le torsioni del lucente metallo che sembra appena uscito da un processo industriale, smaltato, ma compie un passo indietro: recupera radiatori e resistenze di elettrodomestici già sfruttati per farli risorgere a nuova vita. Ecco allora che essi assurgono ad una nuova dimensione, l'élan vital ricomincia a scorrere nelle loro lamine metalliche ibride e cangianti come quelle degli organismi viventi. Questi reperti dell'archeologia industriale rivivono dopo che l'epoca della rivoluzione, dei vapori emessi da radiatori surriscaldati, si è ormai conclusa da più di un secolo e l'uomo ha cominciato ad attingere ai combustibili fossili. Come Picasso recuperava manubri e selle di bicicletta per trasmutarli in nuove divinità scultoree, nuovi idoli che entrano improvvisamente nel panorama artistico, M'horó, nell'era digitale del software, dove imperversa la realtà virtuale, le dimensioni impalpabibili e “liquide”, per usare una parola alla Bauman, della multimedialità, compie un passo indietro nel tempo. Il suo recupero è un'operazione dadaista che riporta in vita forme primordiali della tecnologia industriale: quelli che agli inizi del XX secolo erano ingranaggi, adesso sono le strutture interne, le resistenze un tempo surriscaldate di frigoriferi, radiatori di automobili liberati dalla pesantezza delle componenti meccaniche per assumere una consistenza sculturea e monumentale, ma, allo stesso tempo, leggera e volatile, grazie alla morbidezza tattile della successione di lamine metalliche che compongono le opere dell'artista.
M'horó compie un passo indietro non soltanto nei confronti della smaccata levigatezza delle superfici plastiche così di moda nell'arte contemporanea, ma anche nel suo profilo di artista: dati anagrafici, provenienza, sesso, età, razza e percorso di formazione rimangono ignoti. Un inusuale alone di mistero circonda la sua persona che preferisce rimanere nell'incognito, contrariamente alla (forse) talvolta eccessiva visibilità di molti artisti attuali, supportata e alimentata anche alla onnipresenza delle immagini delle loro opere sul web e sui social network. Meccanisimi di autopromozione che M'horó non conosce, preferendo che siano le sue opere a parlare per lui, a concedersi allo sguardo del pubblico pieno di interrogativi al suo posto.
Sono le sue opere che rispondono, con il loro solenne silenzio, agli interrogativi degli spettatori con significati arcani e arcaici, svelati dal ritmo cangiante delle vibrazioni, dalle rotazioni plastiche e fluide delle sue strutture modulari metalliche che sfiorano il mimetismo con le conformazioni naturali delle rocce metamorfiche. La successione delle sottilissime lamelle, taglienti se sfiorate singolarmente, malleabili e flessuose se si fa scorrere la mano sulla loro superificie, crea lo scheletro interno di questi organismi. La loro superficie, talvolta, è segnata dall'intersezione di forme geometriche come il cerchio, il triangolo. Ripiegati, contorti come pagine di un libro, questi “esseri meccanici” assumono forme ovoidali e sembrano in costante rigenerazione, mossi da una sorta di linfa vitale, in un attento gioco di corrispondenze ed equilbri tra le parti che li compongono. L'espansione delle componenti e delle strutture formali delle sue sculture nella terza dimensione è frenetica, scandita dall'intrecciarsi ritmico e isometrico delle sottilissime lamine fogliari che ne costituiscono l'ossatura, scandito dall'iridescenza delle cromie cangianti che caratterizzano la loro superficie tattile, morbida, dalle linee sinuose e ondulate.
Trattate con smalti policromi, incise con astratte trame geometriche, le lamine dell'artista sono come componenti meccaniche, cilindri, radiatori, resistenze elettriche che si sono liberati della loro pesantezza tutta terrena per assumere la levità e la consistenza eterogenea degli organismi viventi, con le loro nicchie e i loro anfratti, la monumentalità di nuove icone dell'arte. Quando si entra in una stanza dove sono esposte le sue sculture, finemente cesellate e dalle cromie vibranti di infiniti riflessi, abbiamo l'impressione di visitare una sorta di Wunderkammer, dove le forme del meraviglioso, strani congegni meccanici, automi, mostri marini, anticaglie preziose risplendono di nuova vita e vengono gelosamente custoditi nelle collezioni di prinicipi amatori del collezionismo. Allora subentra in noi la voglia di appropriarci di questi preziosi reperti dell'era industriale, della moderna tecnologia, riportati ad un inedito splendore. Le sue opere sono “citazioni dall'antico”, strutture architettoniche articolate e complesse che continuano a veicolare sempre nuovi significati, facendo scorrere la nostra mente avanti e indietro sulla linea temporale della Storia e della storia dell'arte, con citazioni iconografiche che vanno dalla rivoluzione industriale cantata dal Futurismo storico alle composizioni geometriche in movimento delle Macchine di Munari.
Possiamo concludere che, come disse Restany di Bertini, M'horó è entrato ufficialmente nell'albo dei (nuovi) “Néo-Classiques” (sempre che ne esistano altri con la medesima portata innovativa) perché ha saputo attingere dal panorama iconografico della società contemporanea per creare nuovi paradigmi, nuovi dogmi che mantengono tutto il sapore di epoche passate, sia dal punto di vista dell'espressione artistica che delle tematiche che ne emergono.
19
novembre 2016
M’horó – Oltre l’ignoto
Dal 19 novembre 2016 al 13 gennaio 2017
arte contemporanea
Location
COLOSSI ARTE CONTEMPORANEA
Brescia, Corsia Gambero, 12/13, (Brescia)
Brescia, Corsia Gambero, 12/13, (Brescia)
Orario di apertura
Da martedì a sabato 10-12 e 15-19
Domenica su appuntamento.
Lunedì chiuso
Vernissage
19 Novembre 2016, dalle ore 16.30
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