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Michelangelo Buonarroti – Architetto a Roma
Diciassette sezioni e 105 opere grazie alle quali è possibile tracciare un profilo di Michelangelo architetto a Roma attraverso i due principali momenti in cui l’artista visse nella città tra 1505 e 1516 e dal 1534 fino alla morte nel 1564
Comunicato stampa
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Piazza del Campidoglio, Palazzo Farnese e la Basilica di San Pietro. Santa Maria degli Angeli e la Cappella Sforza. Porta Pia. Il “Segno” di Michelangelo a Roma si è moltiplicato e si è impresso, immortale. E dove non è rimasto scolpito nel marmo e nella pietra, si è tramandato nei disegni e nei progetti di quegli edifici che non videro mai la luce del sole. A testimonianza di un amore e di una passione verso questa città, pari soltanto all'amore e alla passione nutrita nei confronti della sua Firenze.
Una grande mostra evento ideata dalla Fondazione Casa Buonarroti di Firenze e organizzata dall'Associazione Culturale Metamorfosi, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, Commissione Cultura, Sovraintendenza ai Beni Culturali, dalla Regione Lazio, dalla Provincia di Roma, con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura e con la collaborazione delle Banche Tesoriere del Comune di Roma, della Fondazione Guglielmo Giordano e della Fondazione Lars Magnus Ericsson, con il contributo di British American Tobacco Italia e Monini S.p.A. ed il supporto tecnico di Ferrovie dello Stato, Condé Nast, Radio Subasio, Nationale Suisse e Roscioli Hotels – che dal 5 ottobre 2009 al 7 febbraio 2010 racconterà, nei Musei Capitolini, la storia e le testimonianze di questa passione.
17 sezioni e 105 opere grazie alle quali è possibile tracciare un profilo di Michelangelo architetto a Roma attraverso i due principali momenti in cui l’artista visse nella città tra 1505 e 1516 e dal 1534 fino alla morte nel 1564. Un'esposizione curata da Pina Ragionieri, direttrice della Fondazione Casa Buonarroti, e da Mauro Mussolin, storico dell’architettura, che riferisce puntualmente delle molteplici e prestigiose committenze romane dell'artista dagli anni della giovinezza alle straordinarie invenzioni della vecchiaia. Grazie soprattutto ai molti disegni del Maestro provenienti dalla Collezione della Casa Buonarroti, custode del maggior numero al mondo di studi e progetti di architettura realizzati da Michelangelo.
Il cuore della mostra (catalogo Silvana Editoriale a cura di Mauro Mussolin, con la collaborazione di Clara Altavista) è proprio lo straordinario nucleo di oltre 30 disegni autografi dell'artista relativi a opere romane di proprietà di Casa Buonarroti, il cui apporto comprende anche pregevoli stampe e due ritratti di Michelangelo. Ai disegni autografi del Maestro si alterneranno in mostra, come un prezioso compendio di meravigliose appendici, antiche stampe, disegni, modelli, volumi e documenti originali dell'epoca concessi in prestito da importanti collezioni italiane.
Tra le istituzioni che hanno voluto offrire il loro contributo citiamo i Musei Capitolini e il Museo di Roma; sempre a Roma gli altri istituti coinvolti sono l'Accademia Nazionale di San Luca, l'Archivio Storico Capitolino, la Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte di Palazzo Venezia, la Biblioteca Corsiniana dell'Accademia dei Lincei, la Biblioteca Hertziana, la Biblioteca Nazionale Centrale; a Firenze il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e la Biblioteca Nazionale Centrale; inoltre il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea
Palladio di Vicenza. Numerosi anche i prestiti da collezioni private tra cui le opere della Biblioteca Clementina di Anzio. Importantissima la presenza tra i prestatori dell'Archivio della Fabbrica di San Pietro della Città del Vaticano, da cui giunge l’inedito autografo di Michelangelo recentemente scoperto e relativo al tamburo della cupola di San Pietro.
Divisa in diciassette argomenti disposti in ordine cronologico, la mostra prende avvio dai tempestosi rapporti di Michelangelo col Papa Giulio II della Rovere, per il quale l'artista progettò un monumento sepolcrale che lo coinvolse fra alterne vicende fino alla sua morte. Il secondo argomento affrontato è la passione per l'arte classica che accompagnò Michelangelo per tutta la vita, testimoniata attraverso l'esposizione dei bellissimi fogli di studio dall’antico, noti come copie di Michelangelo dal cosiddetto Codice Coner, celebre taccuino cinquecentesco contenente i rilievi di antiche architetture romane. Paolo III Farnese e le sue grandi committenze sono la terza tappa del lungo itinerario alla scoperta della Roma michelangiolesca. Fu proprio questo pontefice infatti che affidò a Michelangelo le trasformazioni di Piazza del Campidoglio e, dal 1546, il completamento di Palazzo Farnese. In questo stesso anno venne conferita al Buonarroti la carica di architetto della Fabbrica di San Pietro. L'episodio doloroso della morte del giovanissimo Cecchino Bracci, che dettò all’artista una serie di ispirati epitaffi, è presente in mostra come un momento di privata biografia. La sezione riguardante i progetti per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e per Porta Pia documenta, con una serie di emozionanti disegni, uno dei vertici assoluti della progettazione architettonica di Michelangelo. La mostra si conclude con le esperienze estreme, in termini cronologici ma soprattutto di innovazione compositiva, della Cappella Sforza e della trasformazione delle terme di Diocleziano nello spazio sacrale e mistico di Santa Maria degli Angeli.
Intensa anche l’attività didattica. Dal mese di ottobre prenderanno infatti il via le visite guidate per le scuole con partenza da piazza del Campidoglio. Per il pubblico, oltre alla visita alla mostra, è in programma nei week end e nelle festività natalizie un calendario di visite ai luoghi michelangioleschi tra cui Piazza Farnese, Porta Pia.
MICHELANGELO E ARCHITETTURA
Christof Thoenes
Che i grandi artisti del Rinascimento fossero geni universali – pittori, scultori e architetti – è un luogo comune e, come tutti i luoghi comuni, vero e falso allo stesso tempo. La verità di ciò è dimostrabile senza fatica permezzo di singoli esempi; la falsità sta nella generalizzazione.
Se, fiero, Raffaello scriveva allo zio di essere stato designato da Leone X come architetto di San Pietro “in loco di Bramante” e che per questo sarebbe diventato “perfettissimo” anche in quest’arte1, al contrario, Michelangelo (secondo Giorgio Vasari), pur opponendosi, si lasciava convincere dallo stesso papa ad assumere l’incarico per la facciata di San Lorenzo2. Reazioni di resistenza e di opposizione avrebbero accompagnato tutta la sua successiva attività architettonica. “Non sono architector” scriveva egli ancora negli anni quaranta su un foglio con dettagli architettonici3. Per Michelangelo appare decisivo il momento del condizionamento esterno. Che Paolo III lo avesse indotto ad assumere la guida del cantiere di San Pietro “contramia voglia, e con grandissima forza”, lo dichiarerà egli stessomolto più tardi in una lettera a Vasari4.
Esser costretto a fare ciò che non vuole rappresenta un topos della sua biografia: affrescare la volta della Sistina anziché intagliare le figure della tomba di Giulio II, tomba che anch’essa, ben presto, divenne un peso e una causa per nuove lamentele, come ogni ulteriore incarico. Ancora a 82 anni egli deplorava di dover perseverare nella “fatica e fastidio” della costruzione di San Pietro, anziché lasciar tramontare la propria vita nella pace della sua patria5. Ma chi lo tratteneva, allora? Vi erano a Roma tanti dei suoi colleghi (e concorrenti) che ben volentieri avrebbero voluto vederlo partire per Firenze, mentre i papi continuavano a proteggerlo. Da tempo questa coercizione era stata interiorizzata, vale a dire, Michelangelo in verità era diventato committente di sé stesso. Ed era proprio questo a cui egli, come credo, avevamirato fin dall’inizio. Sarebbe erroneo pertanto – ed è questa la tesi che desidero sostenere – considerare l’architettura, che nel corso della sua vita giocò un ruolo sempremaggiore, alla stregua di un’attività secondaria ovvero una sorta di deviazione dalla propria professione6. Al contrario essa fu un complemento sempre più importante, finché divenne l’ultima meta del suo operato, connessa con la scultura e al contempo opposta a essa. Infatti, se ilmestiere di scultore l’aveva quasi nel sangue (trasmesso, come egli stesso credeva, o fingeva di credere, dal latte della sua balia proveniente da una famiglia di scalpellini)7, egli era entrato assai tardi nel campo dell’architettura, riflettendo su di essa – da quel momento – sempre conmaggior consapevolezza. Questo è il percorso che cercherò di seguire.
Il racconto vasariano della vicenda dell’incarico di San Lorenzo, suggerito senza dubbio daMichelangelo stesso, non ha trovato credito nella ricerca recente8. Se si torna alle fonti (che risiedono prima di tutto nella corrispondenza dello stesso Michelangelo), si compone l’immagine di un uomo che, del tutto consapevolmente,mirava a raccogliere la completezza dell’incarico nelle propriemani e a espellere concorrenti, come anche possibili collaboratori, fossero essi architetti o scultori. Il suo obiettivo era il controllo dell’insieme e la strada per giungervi conduceva all’architettura – ciò dovette averlo chiaro, al più tardi, durante le trattative con Leone X e i suoi incaricati. Solo in qualità di architetto, che decideva anche a chi affidare i lavori di scultura (fin tanto che non li eseguiva egli stesso), poteva realizzare ciò che aveva in mente. L’autonomia artistica presuppone quella economica: così pretese di venire a patti con il papa quale imprenditore indipendente che lavorava “a tutte sue spese”9, e sottolineò ciò nel dire di aver già investito un capitale proprio nell’acquisto dimateriali di pietra10. E non da ultimo, se vedo bene, fu a causa di questa ambizione che l’intera impresa alla fine naufragò. Così della facciata di San Lorenzo non ci rimane nient’altro che ilmodello ligneo.
In una lettera delmarzo 1520, Michelangelo trasse un bilancio amaro: tre anni spesi a lavorare, con perdite finanziarie e la vergogna di non aver portato a termine una commissione annunciata in grande (com’era già avvenuto per la tomba di Giulio II)11. Quello che egli non vedeva, ovvero di cui preferiva non parlare, era il passo compiuto nel campo dell’architettura durante quegli anni. Ciò non era implicito. Infatti l’incarico per la facciata si riferiva in prima linea alla decorazione. Il testo del contratto, come anche le lettere dell’incaricato papale, menziona principalmente il programma scultoreo: una montagna di corpimarmorei e bronzei, ancora più imponente della tomba di Giulio II. Ma è strano: nella serie di schizzi che inizia già prima della stipulazione del contratto – circa 35 disegni di ogni misura e tipo – la scultura gioca un ruolo decisamente subordinato12. Ciò che lo coinvolgeva era l’architettura: non più come sfondo, come nella tomba o nella volta della Sistina, bensì come medium sui generis.
Era una scoperta che dovette colpirlo profondamente: gli elementi architettonici – colonne, pilastri, trabeazioni – non servivano solamente ad accompagnare le figure umane, essi potevano quasi sostituirle, appellandosi, come quelli, al nostro senso corporeo, capace di trasmettere impulsi di movimento.
Certamente il campo di espressione delle forme architettoniche era di per sé più limitato, la loro semiotica rigida e regolata da convenzioni. Ma proprio in ciò risiedeva anche la loro forza attrattiva. Una tendenza verso la tipizzazione, persino verso la monotonia si percepisce anche nel mondo figurativo di Michelangelo. Egli non fece alcun ritratto, e già gli Ignudi della Sistina sono rappresentanti del loro genere piuttosto che individui; anzi, c’era già nella Sistina qualche intima affinità tra figure e membri architettonici, radicalmente diversa dal modo in cui Raffaello aveva trattato questo rapporto nelle Stanze vaticane.
Michelangelo non esitò – e ciò mi pare indicativo della consapevolezza di un nuovo inizio – a intraprendere lo studio della lingua dell’architettura classica quasi inmodo scolastico. Ciò è dimostrato da una serie di disegni a matita rossa degli anni 1516-1517. Si tratta di copie dal Codice Coner, con il cui aiuto Michelangelo recuperò lo studio dei monumenti romani, nonché di certe architetture bramantesche, obbligatorio per gli architetti della sua generazione13. Lo stile dei disegni è secco, oggettivo, rivolto alla fedeltà; se essi tuttavia non appaiono noiose copie, ciò è dovuto al fatto che l’autore sapeva esattamente ciò che voleva. Non si curava dimisure e proporzioni – non troviamo né numeri né segni di compasso su questi fogli – e nemmeno della grammatica degli “ordini”, bensì dell’interazione tra pesi e sostegni e del potenziale energetico che essi contenevano. E proprio questo aspetto entrò a far parte integrante del lavoro compositivo per la facciata di San Lorenzo.
Il risultato fu un’architettura nella quale le membrature verticali e orizzontali non appaiono più alla stregua di un apparato decorativo applicato al corpo dell’edificio, come in Giuliano da Sangallo, ma come sua essenza vera e propria.
La parete stessa si articola in strutture che sembrano generare pilastri e colonne,mettendo inmoto le trabeazioni14. L’obiettivo non è l’effetto più ricco possibile nel rilievo, bensì il collegamento delle membrature in un tutto “organico”.
Trent’anni più tardi, nel concepire l’absidemeridionale di San Pietro, Michelangelo avrebbe sfruttato appieno quest’invenzione dei suoi esordi.
Non si dice niente di nuovo qualificando Michelangelo come architetto-scultore. Ma il cliché diviene tanto più vero quanto più viene preso alla lettera. Il punto saliente non sta nelle effettive o presunte qualità “plastiche” delle sue architetture, bensì nel suo rapporto con la pietra. Egli non sapeva concepire un edificio se non come una scultura in grande formato: un intreccio di blocchi accatastati e ammorsati l’uno sull’altro. Gli elementi dell’architettura sono contenuti nel marmo, come statue; così lo scultore non divenne architetto, ma fu l’architettura a trasformarsi in lavoro scultoreo. James Ackerman ha mostrato come sia possibile ricomporre la facciata di San Lorenzo alla stregua di un puzzle, partendo dagli schizzi dei blocchi disegnati da Michelangelo15.
Si spiega così il comportamento a prima vista enigmatico di Michelangelo nella fase iniziale della commissione. Stipulato il contratto che gli dava otto anni di tempo, egli non si recò in cantiere, bensì tornò nelle sue cave dimarmo, dove rimase ancora un anno emezzo per attendere al lavoro di sbozzatura dei blocchi. Fu la pietra a ispirarlo. Già così era stato per il suo primo incarico architettonico, il piccolo fronte della cappella di Castel Sant’Angelo: un puro lavoro di marmo, che forse per questo fu delegato a un intagliatore16. Anche la facciata fiorentina, impresa colossale, fu pensata completamente in marmo.
Nella Sagrestia NuovaMichelangelo si rapportò all’architettura in pietra serena di Filippo Brunelleschi; il ricetto della Laurenziana si trasformò nell’apoteosi della “pietra del fossato”, la più nobile sorta del macigno fiorentino. A Roma Michelangelo, secondo il detto di Giorgio Vasari, venne a “nobilitare il travertino”17, utilizzandolo non come rivestimento di strutture murarie,ma comemateriale da costruzione; recentemente Vitale Zanchettin ci ha fornito una nuova chiave di lettura di questo procedimento18. In San Pietro la tecnica di Michelangelo diede l’impulso a una riorganizzazione radicale del funzionamento del cantiere19.
Il modo di pensare dello scultore si rispecchia nella prassi del disegno. Sono le tecniche proprie del lavoro con materiali lapidei a imporsi nel nuovo mestiere. Quella strada che conduce dal primo schizzo al disegno elaborato, documentata nell’opera grafica di tanti architetti, qui viene incrociata da un’altra strada che viaggia dalla cava al cantiere. Nel blocco della pietra si nasconde – secondo quel celebre sonetto20 – il “concetto” dell’opera che l’artista deve liberare: non sulla carta, ma solamente nell’edificio, attraverso il lavoro nel materiale, le idee diventano realtà. Non è un caso se tra i disegni architettonici di Michelangelo non troviamo “fogli di dimostrazione”.
Un precoce tentativo di realizzarne uno per la facciata di San Lorenzo rimase incompleto; alcuni disegni successivi, sui quali torneremo in seguito, mostrano progettazioni in continuo divenire. A compensare questa mancanza abbiamo gli schizzi dei blocchi lapidei, nonché i grandi disegni di lavoro realizzati al vero per porte e finestre, tracciati sullemurature della Sagrestia Nuova21, insieme ai profili per i “modani” ritagliati sulla carta per i tagliapietra22. Disegnare al vero sullemurature non fu certamente un’invenzione di Michelangelo, né possiamo essere certi che queste linee siano state tutte tracciate dalle suemani. Ma ciò che dimostrano – e ciò che veramente importa – è la continuità del lavoro ideativo: non esiste alcun punto dove la tensione creativa si rilassi nella elaborazione delle forme, anche dopo che queste apparivano ormai stabilite.
Tra questi due estremi si collocano i fogli operativi; essi costituiscono la partemaggiore delmateriale sopravvissuto. Qual è la loro peculiarità? Diamo uno sguardo a un foglio analogo di un grande “professionista” del tempo23: Antonio da Sangallo, di nove anni più giovane, fiorentino egli stesso, ma coinvolto nella costruzione di San Pietro dai tempi di Donato Bramante, e primo architetto dalla morte di Raffaello. Aveva memorizzato il progetto a cui lavorava in tutta la sua complessità, tanto da poter estrarre – conmanomirabilmente leggera – vedute parziali, per chiarire a sé stesso come si sarebbero viste le singole parti. Nel disegno, in alto a destra, si vede una sezione dell’innesto tra la tribuna sud e il deambulatorio, in cui l’orientamento della visione, da nord verso sud, è scelto in modo da rappresentare al meglio l’articolata struttura, come oggi potremmo fare al computer. È qui al lavoro un’intelligenza più combinatoria che genuinamente creativa: le singole forme sono disponibili nel codice degli “ordini”, si tratta di applicarle senza errori in tre dimensioni.Aciò si dedicò lo studio di Sangallo.
Confrontiamo un foglio di Michelangelo, di qualche anno più tardi, per il ricetto della Laurenziana24. Il tema principale è la scala. Essa viene schizzata in pianta, sezione e prospettiva, non distinte l’una dall’altra,ma inmodo frammentario, come il processo creativo richiedeva. Questa non è architettura virtuale che il disegnatore ha in mente e raffigura, ma un oggettomateriale – pietra o legno – che eglimette davanti a sé come se dovesse lavorarlo con lo scalpello. Laddove Sangallo cerca distanza, per chiarire la visione d’insieme, Michelangelo vuole contatto. Così il disegno diviene un equivalente del rapporto con la materia, quasi a compensare la rinuncia al lavoro materiale richiesta all’architetto. Tuttavia l’energia emanata dal foglio appare più spirituale che corporale, cioè, si esprime meno nel vigore della penna che segue la mano, che nell’intensità del processo creativo che ci coinvolge – “la mano che ubbidisce all’intelletto”25.
Che cosa ne risulta? Sangallo sviluppa strutture, in sé coerenti senza salti e universalmente applicabili26, Michelangelo crea oggetti, interessanti in sé; Sangallo applica regole, Michelangelo inventa forme. Qui si capisce ciò che Vasari, nel passo sempre ripreso dalla Vita di Michelangelo, esalta come la grande conquista degli anni fiorentini: il disegno architettonico come regno della libertà e dell’emancipazione da “ragione e regola”27. Non obbligato alla ripresa dalla natura (come sono scultori e pittori), ma neppure alla ripetizione di un canone quasi-naturale, l’architetto può produrre pure opere d’arte inmodo “assai diverso da quello che […] facevano gli uomini secondo il comune uso”28.
Se vedo bene, l’euforia di Vasari riflette, consapevolmente o no, uno dei pochimomenti anche soggettivamente felici nella carriera architettonica di Michelangelo29. Al 1526 – un anno prima della cacciata deiMedici da Firenze –, mentre Michelangelo lavorava con grande concentrazione al disegno della Laurenziana, risale uno scambio di lettere con Giulio de’ Medici, papa Clemente VII30. Michelangelo spedì da Firenze una serie di disegni di portali e Clemente li ammirò per quel che erano: pure opere d’arte31. Di fatto si tratta di fogli di emozionante bellezza, punti culminanti anche nell’arte del disegno michelangiolesco. A chi li osserva conoscendo il contesto potrebbero ricordare la produzione di un musicista che improvvisa sul suo strumento, incitato dall’applauso di un ascoltatore comprensivo. Il rapporto tra Michelangelo e Giulio sopravvisse anche alla successiva crisi dell’occupazione e conquista di Firenze da parte delle truppe papali. Michelangelo, il quale non si era potuto sottrarre al servizio come architetto militare della Repubblica, non fu punito, bensì doveva essere “carezzato”, come un animale domestico bello e prezioso, al di là del bene e delmale, per non interrompere il completamento delle tombe medicee32. In fondo entrambi, papa e artista, erano dei non-politici.
Questo cambiò con il trasferimento di Michelangelo a Roma, dove con Paolo III era salita al soglio pontificio una figura eminentemente politica. Ciò diede l’impronta alle committenze architettoniche nelle quali Michelangelo fu coinvolto. Nuovo era in primo luogo il bisogno di creare architetture rivolte verso l’esterno. Infatti – dopo il tentativo naufragato per la facciata di San Lorenzo – ciò che si lasciava alle spalle erano puri mondi interiori. Si poteva, e si può ancora oggi, attraversare la città di Firenze senza accorgersi dell’opera diMichelangelo architetto.
A Roma egli imparò a muoversi nello spazio aperto, più ancora, egli divenne l’araldo architettonico del potere rivendicato su questo spazio dal nuovo pontefice. Era il caso esemplare di una costellazione produttiva: il potenziale drammatico della sua architettura, cresciuto a Firenze emotivato in modo puramente soggettivo, si scontrò a Roma con un mondo di conflitti politico-religiosi concreti. Come architetto del Campidoglio Michelangelo finì per cadere nel campo di tensioni fra papa e Comune; ereditò palazzo Farnese nel momento di ascesa da residenza familiare a dimora principesca; mentre San Pietro si ergeva sul tappeto del dibattito sul ruolo della Chiesa papale dopo la Riforma. In tutti questi casi fu Michelangelo a mettere gli accenti decisivi; in fondo fu lui stesso a conquistare il potere sulla città33.
Ma non subito. I grandi lavori del primo periodo romano erano di pittura: il gigantesco affresco del Giudizio universale, la cappella Paolina a cui lavorò fino al 1550. A proposito della scultura, la vicenda attorno alla tomba di papa Giulio II non si era ancora conclusa; a ciò si aggiungevano incarichi occasionali come il busto del Bruto. Anche la collocazione delMarco Aurelio in Campidoglio, per la quale il papa coinvolse Michelangelo (riluttante, come al solito), era ancora una volta un lavoro da scultore. Se e da quando egli abbia pensato omeno a un’articolazione architettonica della piazza, e come questa si sarebbe vista, non è dato sapere. È sicuro solo che egli attorno alla metà degli anni quaranta disegnò lo scalone davanti al Palazzo Senatorio34. Fu il passo liberatore dal guscio mediceo alla dimensione aperta.
Il futuro di Michelangelo architetto si decise nel 1546: con la morte di Antonio da Sangallo il cantiere di San Pietro rimase orfano, e Michelangelo venne chiamato alla guida dell’impresa.
È noto e spesso ripetuto che egli fu costretto a impegolarsi nella lotta con la burocrazia della Fabbrica e il clan sangallesco trincerato in essa35. Non appare ancora discusso a sufficienza, invece, il mutamento simultaneo della sua architettura. Infatti è sorprendente comeMichelangelo – dopo la pausa degli anni trenta-quaranta – cercasse di arrangiarsi con quel repertorio di forme classiciste che dai tempi di Bramante e Sangallo aveva determinato il gusto architettonico romano, e dal quale egli stesso a Firenze si era allontanato in modo sempre più deciso.
Vorrei intendere questo nel senso di un processo di “socializzazione” che attraversa l’architettura diMichelangelo durante gli anni quaranta: dall’ermetico, e chiuso in sé, stile personale dell’epoca fiorentina alla discussione aperta tra libertà e ordine, innovazione e tradizione, che vediamo svolgersi nella facciata del palazzo dei Conservatori36 o nella tribuna di San Pietro. Ciò corrisponde allo scarto tra l’autosufficienza virtuosa dell’architetto mediceo e l’attività nella sfera politico-sociale. Di fatto, mentre a Firenze l’opera architettonica era diventata un affare più o meno privato fra artista e committente, a Roma bisognava presentarsi in pubblico e, allo stesso tempo, connettersi con un contesto storicamente prestabilito, sia semantico sia strutturale.
Le paraste e le colonne all’interno della tribuna di San Pietro non riprendono soltanto formalmente quelle dell’edificio bramantesco-sangallesco,ma ne riutilizzanomaterialmente alcune parti37. Nella ristrutturazione michelangiolesca esse fungono da sistema di riferimento per l’introduzione di dettagli innovativi, come le enormi finestre con le edicole a timpano spezzato spinte verso la trabeazione. Non si tratta più della sospensione di “ragione e regola” celebrata da Vasari, bensì della loro assimilazione nel mondo espressivo dell’artista.
Rivolto a un corrispondente a noi sconosciuto, Michelangelo spiegò in modo alquanto sibillino come si dovessero mutare gli adornamenti avendo mutato la pianta, e come ciò fosse connesso con la relazione tra lemembra del corpo umano38.
Vale a dire: esistono leggi superiori a quelle della scuola sangallesca.
La nuova varietà viene tenuta insieme dall’intensità incessante nel lavoro di dettaglio.Nel trattamento degli ordini all’esterno Michelangelo mise in mostra gradi di variazione: il corinzio delle grandi paraste rimane rigorosamente canonico, il dorico viene appena accennato nelle “guttae” delle nicchie inferiori che solo lontanamente ricordano le forme classiche.
Tra loro si collocano come genere intermedio le colonne ioniche con i loro capitelli “alla michelangiolesca”, riconoscibili dai festoni appesi alle volute.
Al cambiamento di stile corrisponde unmutamento delle motivazioni interiori: tale mutamento tocca – senza per questo coincidere – quello di papa Farnese, convertito da Saulo a Paolo.
Anche questo simanifesta così chiaramente nel caso di San Pietro. Ciò che aleggiava davanti a Michelangelo si evince dalla sua polemica contro il modello di Sangallo, in principio approvato dal papa39. Michelangelo lo trovava buio, confuso, gonfiato e ripartito in compartimenti inutili; le implicazioni di una critica “dissimulata” alla condizione della Chiesa romana sono difficili da ignorare. Il suo ideale personale è raccolto, in una sua lettera, dalla celebre formula “chiaro e schietto, luminoso e isolato attorno”40. Quindi una costruzione semplice, ben percepibile, chiaramente circoscritta, piena di luce e libera da aggiunte.
Che la questione per lui andasse oltre la pura estetica è percepibile da lettere più tarde (a Vasari, al nipote Leonardo, al duca di Firenze), le quali parlano degli obblighi verso San Pietro che lo costringevano a rimanere a Roma, lasciando sullo sfondo tutti gli altri incarichi41. Traspaiono sensi di colpa e timori di fallimento: minacciato dalla morte, doveva mettere a sicuro la propria opera, rispondendo in prima persona; sciuparla sarebbe stata una sventura, una vergogna e “un gran peccato”42. Entra qui in gioco la personalità religiosa di Michelangelo, e non sembra troppo audace intendere quella formula (“chiaro, schietto, luminoso”) come visione di un nuovo tempio cristiano, nel quale il fedele avrebbe potuto incontrare Dio conscio della propria responsabilità, libero da legami tradizionali e non più bisognoso di mediazione da parte di gerarchie ecclesiastiche. Se questa era l’idea, lui solo sarebbe stato chiamato a realizzarla, salvando la chiesa di Pietro dallemani dei “ladri” e degli incapaci, quali Sangallo e la sua gente43. Non vide nessun successore, e non fece niente per trovarlo. Anni dopo, gli si presentò un’ultima opportunità di realizzare, per i fiorentini a Roma, una chiesa secondo le proprie idee; in essa egli stesso avrebbe dovuto essere sepolto. Che pure questa fosse un’utopia lo dovette capire presto.
Ci avviciniamo con questo all’ultimo e, a me pare, più difficile capitolo del suo percorso: l’opera tarda. Già il fenomeno come tale lascia perplessi. L’ottantaquattrenne, spesso non sano, piegato sotto l’immenso peso della guida di San Pietro, che egli riusciva a malapena a gestire per mezzo di mediatori, si caricò di quattro altre grandi imprese e concepì, nel corso dei cinque anni che aveva ancora da vivere, le sue più singolari architetture: San Giovanni dei Fiorentini, la cappella Sforza a Santa Maria Maggiore, Santa Maria degli Angeli nelle terme di Diocleziano e porta Pia; come quinta si iniziò, un anno prima della sua morte, la trasformazione del Campidoglio secondo i suoi disegni. Non poteva più negare che, nel frattempo, l’architettura fosse diventata la sua “professione”. Ma chi avrebbe avuto da ridire se egli a questo punto avesse rifiutato nuovi incarichi?
Non lo fece; al contrario, egli attaccò con decisione tutti questi lavori e cercò di portarli più avanti possibile, e nel tempo più breve. Quali erano i suoi motivi?
Nel 1559, quando iniziò questo ultimo periodo di attività, fu eletto al soglio pontificio Pio IV, papa Medici, milanese. Tre di questi lavori furono avviati su sua diretta commissione, negli altri egli fu forse coinvolto in modo indiretto44. Non sembra esagerato sostenere che dobbiamo a quest’uomo sobrio ed energico l’esistenza dell’opera architettonica tarda di Michelangelo, benché sembri che in privato il suo gusto tendesse piuttosto al “Rinascimento tardo” superficialmente antichizzante di Pirro Ligorio. D’altro canto si trattava di un nuovo “papa politico”, il suo obiettivo dichiarato era la promozione della Controriforma, e in questo egli pensava di poter contare sul vecchio Buonarroti. Ma l’artista reagì diversamente da come aveva fatto venti anni addietro. La prima cosa che salta all’occhio dal suo lavoro tardo è la rinnovata concentrazione sull’architettura interna (fatta eccezione per porta Pia). Essa contrassegna il ritiro del vecchio maestro dalla sfera pubblica, revocando l’intesa (vera o presunta) con le personalità di potere.
Non ne condivideva più i fini. L’isolamento crescente del Maestro simostra al più tardi con il naufragio del progetto per San Giovanni, suo ultimo tentativo di uscire vincitore dal rapporto con i grandi del suo tempo (in questo caso, il duca Medici che egli stesso aveva messo in gioco). Rimase fedele alle imprese pubbliche di lunga durata iniziate per il papa Farnese, in Campidoglio e nella basilica vaticana. Ma quel che intraprese da allora in poi furono opere individuali. Esse lo mostrano nuovamente su una strada propria.
La difficoltà maggiore nell’interpretazione di questi lavori risiede nella loro eterogeneità. Essi non sono riconducibili a uno “stile tardo”, più ancora, non hanno in comune nessuno stile che possa definirli. Potremmo piuttosto parlare di una serie di tentativi finalizzati a sondare i limiti di fattibilità nell’ambito dei singoli generi. Le incisioni di Valérie Regnard tratte dal modello di Tiberio Calcagni per San Giovanni dei Fiorentini (cat. 80) dimostrano inmodo impressionante la rinuncia a qualsiasi effetto esterno. L’architettura è piena di finezze, ma concentrata tutta all’interno, uno spazio puramente centrale, rotondo e pacifico in sé. Si può assumerlo, lo ripeto, come documento di una religiosità rivolta verso l’interno, ritirata dal mondo, che dominò il pensiero del vecchio Michelangelo e lasciò la sua impronta anche nei suoi pochi tardi lavori di figura. D’altra parte esistono disegni che rivelano ben altre ambizioni45. Tutti imotivi di piante centralizzate dati dalla storia – rotonde, ottagoni, cerchi nel quadrato, deambulatori, cappelle angolari, croci greche e di sant’Andrea – dovevano compenetrarsi e dissolversi in un’unità più alta. Ai mercanti fiorentiniMichelangelo prometteva che il suo edificio avrebbe eclissato tutto ciò che “Romani e Greci mai nei tempi loro feciono”46. Doveva sorgere, quindi, qualcosa di assolutamente nuovo, un’architettura che fin allora non era esistita.
Un anno dopo Michelangelo disegnò la cappella Sforza: il contrario di una cappella laterale, secondo l’uso romano, senza precedenti nell’architettura dell’epoca e, in questo, comparabile ai disegni per San Giovanni47. Tuttavia, in questo caso – a giudicare dai pochi schizzi conservati – il processo di ideazione seguì un percorso inverso: dal semplice al complicato, da uno spazio chiuso a una struttura aperta, stranamente frazionata, convenzionale nei dettagli, ma audace fino all’incomprensibile nella concezione spaziale; in ultima istanza un pezzo di “architettura assoluta” come a suo tempo era stato il ricetto della Laurenziana, ma liberato dalla rigidità monolitica del lavoro fiorentino. Sembra quasi di sentir rispondere il tardo Beethoven a un encomio per un suo lavoro giovanile: “A quel tempo non sapevo comporre. Adesso, penso, di saperlo fare”48. Nello stesso anno però, nell’adattamento di Santa Maria degli Angeli, invece di trasformare la sala delle terme imperiali in una chiesa cristiana, come in un trionfo sull’antico (ciò che più tardi avrebbe fatto Vanvitelli), Michelangelo la lasciò praticamente immutata, rinunciando sovranamente non solo all’architettura dell’esterno, ma all’architettura in toto. Doveva restare solo la nuda dimensione dell’edificio romano49.
Non si trattava di giochimentali bensì di progetti concreti, che Michelangelo avrebbe voluto veder sorgere; il suo appello tanto urgente ai fiorentini evidenzia quanto gli stesse a cuore la realizzazione di quella chiesa50. Bisogna ricordare, a questo punto, che l’opera architettonica di Michelangelo, in tutta la ricchezza nella quale si era sviluppata fino ad allora, consisteva in edifici ristretti da vincoli, frammentati e non giunti a compimento; la stessa Laurenziana, culmine del periodo fiorentino, era rimasta incompleta. Non gli era stato concesso (come ad altri architetti del tempo) di realizzare l’edificio perfetto, iniziato dalle fondamenta e portato a termine. In retrospettiva, il suo operato architettonico poteva apparirgli facilmente come una catena di fallimenti, ovvero di impegni non ancora assolti di fronte ai committenti, al mondo e alle sue attese e, in fine, nel caso di San Pietro, di fronte a Dio. Quando una volta della nuova basilica vaticana venne eseguita in modo erroneo, senza seguire le sue istruzioni, egli avrebbe voluto “morire di vergogna”51. Fallire è disonore: Vasari tocca questo punto, forse inavvertitamente, nel contesto della distruzione dei disegni avvenuta poco prima della morte. “Lui voleva – scrive – non apparire se non perfetto”52. Suona come vanità d’artista, ma il vero motivo è morale: sentirsi inadeguati di fronte al proprio compito.
Dal rogo vennero risparmiati alcuni fogli di lavoro in grande formato degli ultimi anni, tre per San Giovanni e tre per porta Pia53. Forse essi erano pensati come una sorta di lascito. Non sono “perfetti” nel senso di disegni finiti, ma in quanto registrano – con le tecniche più raffinate – il processo di ideazione, accumulando e, allo stesso tempo, trascendendo tutti i motivi apparsi nel corso del lavoro, fenomeno questo che osserviamo anche nell’ultima opera scultorea, la Pietà Rondanini54. Con ciò i disegni si collocano quasi al posto della costruzione, anzi la superano nella propria sostanza architettonica, salvando la pienezza delle idee dalla necessariamente riduttiva realizzazione materiale, non come progetti fissati nel disegno o nel modello, bensì come work in progress (cat. 94).
Nel caso di porta Pia, come già in quello di San Giovanni, questi disegni sarebbero stati dati al committente così com’erano, lasciando a lui la scelta fra le alternative55: comportamento contrastante con quello consueto di Michelangelo, sempre avveduto a mantenere il controllo sulle proprie idee. Forse si può intendere ciò come indizio che per il vecchio maestro l’intesa sulle finalità del progetto era diventatameno importante del proprio operare. Creatività in sé, il produrre stesso diveniva ultimo fine del lavoro artistico56. E qui risiede, se non sbaglio, la più profonda ragione della svolta definitiva verso l’architettura, compiuta da Michelangelo negli ultimi anni. Infatti, alla fine, tutta l’arte figurativa rimaneva imitazione, rimandando a una realtà nota. Scolpire o dipingere significava in ogni caso “dire” qualcosa, comunicare con i contemporanei riferendosi a contenuti.
E proprio questo sembra essere diventato un problema per il vecchio maestro, il cui Giudizio universale, oltre i consueti encomi, aveva attirato anche critichemassicce e non infondate57.
Già la celebre quartina con cui Michelangelo aveva respinto il complimento obbligato per le sculture “parlanti” (e quindi quasi viventi) della Sagrestia Nuova accenna a un rifiuto di comunicazione: “Caro m’è ’l sonno – egli fece rispondere alla figura della Notte – e più l’esser di sasso,mentre che ’l danno e la vergogna dura”58. Non poter parlare, non dover parlare: a questo ideale, infatti, si avvicina più delle altre arti l’architettura.
Così non meraviglia che l’ultima creazione architettonica di Michelangelo abbia resistito fino a oggi a qualsiasi tentativo di strapparle un qualsivoglia “messaggio”59. Ancora una volta, il compito è politico, e Michelangelo non si sottrae a esso, ma lo tratta a un livello d’astrazione che impedisce qualsiasi comprensione diretta, relativa a contenuti. Vorrei affrontare solo due aspetti che, a quanto vedo, non sono stati ancora discussi nella letteratura.
Il primo riguarda la scala urbana60. Porta Pia è una porta della città, ma ciò che Michelangelo ha costruito o quantomeno disegnato è soltanto il fronte interno del suo impianto, vale a dire il prospetto terminale del viale sul crinale del Quirinale voluto, e realizzato con stupefacente rapidità, da Pio IV. Ora, il punto di vista all’estremità opposta di “via Pia” era costituita da un capolavoro della scultura antica, il gruppo dei Dioscuri, secondo una vecchia tradizione frutto di un concorso tra Fidia e Prassitele61. Possiamo credere che Michelangelo non abbia visto in ciò un “Paragone”? In tal caso, l’opera conterrebbe due antitesi: moderno versus antico, e architettura versus scultura.
Vista così, la porta diMichelangelo rappresenterebbe una specie di “architettura essenziale”, depurata da qualsiasi reminiscenza organico-mimetica: piatti strati di pietra, spigoli affilati, colonne completamente escluse, capitelli ridotti a segni; solo il mascherone in chiave d’arco si sporge in modo plastico, accentuando la tettonica astratta dell’insieme. L’elemento figurativo richiesto, uno stemma papale presentato da Angeli (AngeloMedici), fu lasciato daMichelangelo a Jacopo Del Duca, e pertanto escluso dal suo ambito d’invenzione.
Questo sottolinea – ed è il secondo punto – il carattere nonparlante della sua architettura.Anziché “leggerla”, si dovrebbe insistere su quello che essa non dice. Ciò che il compito richiedeva, e che il papa senza dubbio si attendeva, era l’arco trionfale, il più triviale e il più “parlante” di tutti imodelli di porta.
Qualsiasi architetto glielo avrebbe fornito, Michelangelo no.
Anzi, egli eliminò nel corso della sua elaborazione l’arco in assoluto.
Lo sostituì con un’apertura a piattabanda con cornice rustica, sopra la quale appare, come una eco, quasi una parodia, l’arco ribassato. Così viene trattato anche il repertorio rimanente: segmentato, spezzato, rimescolato come materiale onirico; i dettagli sono alienati, il tutto assurdo, incomprensibile, eppure – come Jakob Burckhardt formulò già nel suo Cicerone – eseguito “con tutta arbitrarietà seguendo una legge interiore che il maestro crea per sé stesso”62. Quindi, non più conciliazione con la tradizione,ma neanche ricorso alle “licenze” degli annimedicei, bensì autonomia assoluta.
Possiamo forse fare ancora un passo avanti cercando l’intenzione dietro l’arbitrio. Michelangelo e Architettura: è una storia lunga. Architettura non fu il medium dei suoi esordi artistici, si può dire che non fu la sua “lingua madre”. L’aveva imparata e aveva calibrato il suo rapporto con essa di fase in fase.
Così porta Pia, alla fine di questo percorso, assume i tratti di un dramma satirico: come se il maestro, ironizzando sul tema dato, avesse voluto manifestare la sua distanza interiore da questa ultima comparsa in scena, desiderata dal papa. Il trattamento del lessico classico che sembra beffarsi di tutte le “buone regole” segnala uno scetticismo assoluto nei confronti dei contenuti ascrittigli dalla convenzione.Non si allude a nulla di consueto, nessun proclama o suggerimento; semmai, torna alla mente il sarcasmo di certe frasi, a volte sbalorditive e non sempre sottili, che si incontra leggendo le lettere del Maestro.
In effetti, è proprio in questa ultima, più astratta ed enigmatica opera che appare in modo singolare la personalità del vecchio Buonarroti; anzi, è questa forse l’architettura più “personale” che un maestro classico si siamai permesso di realizzare.
Se potesse esistere qualcosa come un autoritratto architettonico – ovvero l’autorappresentazione di un artista in un medium non-figurativo – dovremmo cercarla qui.
Questo saggio costituisce la versione italiana del testo in lingua tedesca letto alla conferenza d’apertura del convegno internazionale, Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova e Golo Maurer, svoltosi a Firenze presso la sede del Kunsthistorisches Institut, dal 29 al 31 gennaio 2009. L’autore esprime un particolare ringraziamento a Vitale Zanchettin per la preziosa collaborazione alla stesura della versione italiana; il curatore di questo volume è profondamente grato agli organizzatori del convegno, Alessandro Nova e Golo Maurer, per avere generosamente concesso la pubblicazione in questa sede della versione italiana; la versione originale in lingua tedesca sarà pubblicata negli atti del convegno in corso di stampa.
SAN GIOVANNI DEI FIORENTINI
Mauro Mussolin
La nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai; et a me ne dolse infinitamente. Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria, perché si vegga che questo uomo [Michelangelo] cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all’arte.
Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo1
Celeberrimi per annoverare tra le più straordinarie soluzioni a pianta centrale del Cinquecento, i progetti per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini rappresentarono uno dei più importanti banchi di prova su cui simisurarono, fianco a fianco o nel tempo, imigliori architetti dell’epoca. Il primo tentativo di ricostruire una nuova chiesa-oratorio per la comunità dei fiorentini a Roma data al 1508, quando il vecchio edificio del 1484 fu atterrato in previsione del grande piano di sistemazione urbana di via Giulia e del palazzo dei Tribunali intrapreso da Donato Bramante su commissione di Giulio II (1503-1513) e per il quale lo stesso architetto fornì un disegno di pianta a cui tuttavia non fu data esecuzione2. Il successivo pontificato di Leone X de’ Medici (1513-1521), subito caratterizzato da una politica filotoscana, assicurò una solida stabilità giuridica e finanziaria alla comunità dei fiorentini in Roma.
Il 12 agosto 1513 fu nominata la commissione che avrebbe dovuto ricercare l’area sulla quale costruire la chiesa e nel 1515 fu ufficialmente istituito il consolato della Nazione fiorentina.
Il luogo era un plesso urbano di fondamentale importanza economica e strategica, il cosiddetto “piccolo tridente”, un trivio di strade convergente su piazza di ponte Sant’Angelo, popolato da banchieri, mercanti e funzionari dell’amministrazione pontificia, per lo più di origine toscana. Lì, al termine dell’asse orientale del trivio, sopra le sponde del Tevere sarebbe stata innalzata la piattaforma di fondazione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Tre disegni a pianta centrale di mano di Giuliano da Sangallo sono stati riconosciuti come progetti per la realizzanda chiesa e la loro datazione può verosimilmente farsi risalire a questi primi anni di pontificato leonino, tra 1513 e 15163. Giorgio Vasari colloca al 1517 la data del famoso “concorso” per il progetto della chiesa voluta dal papa, la cui regia, assai probabilmente affidata a Raffaello, ebbe modo di valersi di protagonisti del calibro di Giulio Romano, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane e Jacopo Sansovino4. La varietà di proposte planimetriche di cui si correda la storia edilizia della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini documenta in maniera esemplare quella che, con felice formulazione, è stata definita la “tendenza linguistica medicea” presente nell’architettura del primo Rinascimento romano, caratterizzata proprio da una molteplicità di “diversemaniere”, individuate da grafie autonome e personali, ma accomunate dalla volontà di definire uno stile di ambizione universale, veicolo di un linguaggio antiquario, elegante e curiale, specchio della politica artistica del pontificato leonino5. Il 10 gennaio 1519 il papa autorizzava l’erezione della chiesa e il successivo 29 gennaio, con la bolla Intenta iugiter, elevava la chiesa a parrocchia dei fiorentini a Roma, con fonte battesimale, campanile e cimitero, garantendole privilegi e indulgenze. Il 31 ottobre dello stesso anno, il cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII), in qualità di arcive scovo di Firenze, benediceva la posa della prima pietra. Nonostante le ingenti donazioni, gli sforzi per dare compimento alla chiesa costituiscono lo specchio dei progressi e delle difficoltà incontrate dalla comunità tosco-fiorentina nella Roma dei papi. Resta tuttavia fondamentale comprendere come le attese del pontefice fossero quelle di fare della chiesa di San Giovanni il luogo in cui avrebbero dovuto “essere registrate le scansioni sacramentali della vita di tutti i Fiorentini residenti a Roma”, ai cui consoli e operai venne demandata ogni questione riguardante la fabbrica6. Il continuo riferimento di questi progetti a una planimetria centralizzante e la loro continua citazione di elementi tratti dal battistero fiorentino non furono soltanto una indicazione di tipo formale di ideale fratellanza fra le due città, ma furono mossi e giustificati da una motivazione liturgica e identitaria: l’ecclesia florentinorum, edificio simbolo della comunità, elevato in posizione ben visibile a sbalzo sull’ansa del fiume e in diretto confronto visivo con un altro erigendo edificio, l’ecclesia universalis di San Pietro7.
Tra 1518 e 1521, ai citati artisti coinvolti nel concorso può essere attribuita la serie omogenea di progetti a pianta centrale, con dimensioni simili pari a circa 220 palmi (pocomeno di cinquantametri), caratterizzati dalla fusione tra il tema spaziale del Pantheon e quello del battistero di San Giovanni a Firenze, secondo un connubio probabilmente dettato dallo stesso pontefice il quale fu sempre animato dall’idea del sodalizio fra Roma e Firenze e del gemellaggio tra Tevere e Arno8. L’assegnazione dell’incarico fu vinta da Sansovino il quale formulò una proposta planimetrica ancora assai discussa dalla critica, ipoteticamente identificabile, sulla base del contraddittorio racconto vasariano, con una pianta centrale avente “su’ quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna, e nel mezzo una maggiore tribuna”9. Nonostante i dubbi che permangono sull’aspetto di tale progetto, la planimetria sembra derivare soprattutto dalle sperimentazioni bramantesche derivate dal tema del quincunx, ovvero una pianta quadrata con cappelle angolari cupolate e cupola centrale. All’inizio del 1521 va registrato l’allontanamento dal cantiere di Sansovino al cui posto subentrò Antonio da Sangallo il Giovane; a quest’ultimo si deve la variazione del precedente schema a pianta centrale per uno longitudinale di tipo basilicale10, sulla base del quale si diede inizio alle costosissime e assai problematiche fondazioni sul letto del fiume che tanta ammirazione, ma anche tanto biasimo, suscitarono nei contemporanei, come pungentemente riferito da Vasari nella Vita di Antonio il Giovane:
Avendo intanto la Nazione fiorentina col disegno di Iacopo Sansovino cominciata in strada Giulia, dietro a Banchi, la chiesa loro, si era nel porla messa troppo dentro nel fiume: perché, essendo a ciò stretti dalla necessità, spesono dodici mila scudi in un fondamento in acqua, […]. perché non dovevano mai permettere che gli architetti fondassono una chiesa sì grande in un fiume tanto terribile, per acquistare venti braccia di lunghezza, e gittare in un fondamento tante migliaia di scudi, per avere a combattere con quel fiume in eterno: potendo massimamente far venire sopra terra quella chiesa col tirarsi innanzi e col darle un’altra forma; e, che è più, potendo quasi con lamedesima spesa darle fine: e se confidarono nelle ricchezze de’mercanti di quella Nazione, si è poi veduto col tempo quanto fusse cotal speranza fallace: perché in tanti anni che tennero il papato Leone e Clemente de’ Medici e Giulio terzo e Marcello, ancor che vivesse pochissimo; i quali furono del dominio fiorentino; con la grandezza di tanti cardinali e con le ricchezze di tanti mercatanti, si è rimaso e si sta ora nel medesimo termine che dal nostro Sangallo fu lasciato.11
Scrivendo nel 1568, Vasari ricordava bene come, tra enormi costi e immani difficoltà tecniche, ancora a quella data la piattaforma sangallesca e alcuni tratti del perimetromurario della chiesa costituivano le uniche parti della costruzione a essere state condotte12. In due ulteriori passi tratti dalla Vita di Michelangelo, lo stesso Vasari fornisce le importanti informazioni che riguardano il doppio coinvolgimento di Buonarroti nella
vicenda. Il primo risale al 1550, sotto il papato del toscano Giulio III Ciocchi del Monte (1550-1555):
Era messer Bindo Altoviti, allora consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene far condurre questa opera nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa, e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa. Piacque questo amesser Bindo, ed essendomolto famigliare del papa, gliene ragionò caldamente; mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella, che Sua Santità faceva fare in Montorio [si tratta della cappella del Monte in San Pietro in Montorio], l’avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini ed aggiugnendo, che ciò sarebbe cagione che, con questa occasione e sprone, la nazione farebbe spesa tale che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante.13
Michelangelo fu effettivamenete coinvolto dal papa, come testimonia una lettera autografa del Maestro indirizzata il primo agosto 1550 allo stesso Vasari e da questi pubblicata nella Vita: “iermactina, sendo il Papa andato a decto Montorio, mandò per me. […] Ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, e all’ultimo mi disse che era resoluto non volere mecter decte sepolture in su quelmontema nella chiesa de’ Fiorentini, e richiesemi di parere e di disegnio, e io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo decta chiesa s’abbi a finire”14. La trascrizione della lettera da parte di Vasari serviva a sottolineare, sia il fatto che le sepolture dei famigliari del papa avrebbero indotto la nazione fiorentina a innescare la richiesta di patronati sulle cappelle della chiesa, sia soprattutto che la fama e la virtù morale di Michelangelo avrebbero agito come stimolo per il completamento della chiesa e per la conduzione esemplare del cantiere15. Nonostante gli interessamenti del Maestro a questa vicenda, il progetto cadde in un nulla di fatto e questi, in una successiva lettera a Vasari parimenti riportata dal biografo, ebbe a scrivere una sagace nota contro l’intrigante e faccendone personaggio della corte pontificia, Pier Giovanni Aliotti vescovo di Forlì, spregiativamente chiamato “monsignor Tantecose”, che si era frapposto nella vicenda: “Io, per non combactere con chi dà lemosse a’ venti, mi son tirato a dietro, perché, sendo uomo leggieri, non vorrei essere trasportato in qualchemachia. Basta, che nella chiesa de’ Fiorentini nonmi par s’abbi più a pensare”16.
Christoph Frommel, sulla base delle ipotesi di Klaus Schwager17, ha recentemente precisato come i tre progetti simili per una chiesa a pianta ellittica, già attribuiti a Giovanni Antonio Dosio, ad Antonio Labacco e persino a Tiberio Calcagni (fortemente derivati dal primo progetto di Antonio da Sangallo a pianta circolare per la chiesa dei Fiorentini pubblicato da Labacco nel 1552)18, rappresentino invece le proposte progettuali di Jacopo Barozzi da Vignola per lo stesso edificio19. Databili intorno al 1550, cioè in contemporanea con il primo coinvolgimento di Michelangelo nella vicenda, secondo lo studioso tali disegni daterebbero all’estate del 1550, coincidente con l’arrivo di Vignola a Roma da Bologna, appena prima della commissione papale di villa Giulia.
Il secondo coinvolgimento di Michelangelo nel completamento della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini data al 1559. In quest’anno la Nazione fiorentina riprese l’idea di assegnare l’incarico all’ottantaquattrenne Maestro. L’iniziale riluttanza dell’artista a condurre l’opera, documentata dalla lettera di Michelangelo al nipote Leonardo del 15 luglio 155920, fu sciolta solo con il coinvolgimento del duca Cosimo I de’Medici quale finanziatore dell’impresa, approvata il succesivo 10 agosto. Il biografo Ascanio Condivi ricorda tra le righe che solo a prezzo di un continuo “ricusare”, ovvero negarsi e farsi desiderare, fu possibile a Michelangelo costringere i committenti e persino i papi a riconoscergli, attraverso privilegi e motu propri, uno status di autonomia artistica, responsabilità gestionale e controllo finanziario che non ebbe precedenti21. Il 26 ottobre, il duca scriveva a Michelangelo che l’idea di un suo progetto gli era “piaciuta infinitamente” e affidava al “suo miglior giudizio” ogni decisione sulla fabbrica22. A sua volta Michelangelo cominicava al duca di aver “facti di già più disegni convenienti al sito chem’ànno dato per tale opera i sopra decti deputati. Loro come uomini di grande ingegnio e di g[i]udicio, n’ànno electo uno, el quale in verità m’è parso el più onorevole; el quale si farà ritrare e disegniare più nectamente ch’io non ò potuto per la vechieza, e manderassi alla inlustrissima Vostra Signoria: e quello si seguirà che a quella parrà”23. Le vicende del fitto carteggio tra Michelangelo, Cosimo e i deputati della Nazione fiorentina sono ben compendiate dal racconto vasariano che vale la pena trascrivere:
Fu risoluto che dessi ordine sopra i fondamenti vecchi a qualche cosa di nuovo; e finalmente creorono tre sopra questa cura di questa fabbrica, che fu Francesco Bandini, Uberto Unbaldini e Tommaso de’ Bardi, e’ quali richiesono Michelagnolo di disegno, raccomandandosegli sì perché era vergogna della nazione avere gettato via tanti danari, né avermai profittato niente, che, se la virtù sua non gli giovava a finarla, non avevono ricorso alcuno. Promesse loro con tanta amorevolezza di farlo, quanto cosa e’ facessi mai prima, perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio, poi per l’amor della nazione, qual sempre amò. […] Michelagnolo dunque, per le cose d’architettura, non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio [Calcagni] perché era molto gentile e discreto. Perciò desiderando servirsi di quello in tale impresa, gl’impose che e’ levassi la pianta del sito della detta chiesa; la quale levata e portata subito aMichelagnolo, in questo tempo che non si pensava che facessi niente, fece intendere per Tiberio che gli serviti, e finalmente mostrò loro cinque piante di tempii bellissimi; che viste da loro, si meravigliorono; e disse loro che scegliessino una a modo loro: e’ quali non volendo farlo, riportandosene al suo giudizio, volse che si risolvessino pure a modo loro. Onde tutti d’uno stesso volere ne presono una più ricca alla quale risolutosi, disse loro Michelagnolo che, se conducevano a fine quel disegno, che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono una cosa tale: parole, che né prima né poi usciron mai di bocca a Michelagnolo perché era modestissimo.24
Il passo vasariano continua descrivendo con grande efficacia i progressi del progetto, che dai disegni, approda all’elaborazio ne di un primo modello in creta e poi alla realizzazione finale del modello ligneo attraverso istruzioni precise date al fidato Tiberio Calcagni, poiché “non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio perché era molto gentile e discreto”25. L’apprezzamento del progetto finale inviato daMichelangelo al duca tramite Tiberio nel marzo del 1560 è documentato nella risposta del 30 aprile: “il disegno vostro per la chiesa della Natione ci ha innamorato sì, che ci dispiace di non vederlo in opera perfetta, et per ornamento et fama della città nostra, et anco per vostra eterna memoria, che ben la meritate”26. Una volta tornato a Roma, a Tiberio fu affidato il compito di sovrintendente della fabbrica di San Giovanni fino al 1562, quando venne sostituito da maestro Guido, sicuramente quel Guidetto Guidetti operante nel cantiere della facciata di palazzo dei Conservatori in Campidoglio.
Da questo anno, dopo aver speso i 5000 scudi in opere di fondazioni, poco o nulla si sarebbe realizzato del progetto michelagiolesco, così la fabbrica venne nuovamente abbandonata fino al 1583, quando il cantiere fu affidato a Giacomo della Porta che riprese i progetti a schema basilicale di Sangallo dando avvio alle navate della chiesa, il cui transetto, coro e cupola sarebbero stati innalzati da Carlo Maderno a partire dal 1608, mentre la facciata sarebbe stata terminata addirittura nel 1736 con un progetto di Alessandro Galilei27.
Con le “cinque piante di tempii bellissimi” citate da Vasari, Michelangelo segnava il ritorno allo schema centrico che aveva caratterizzato i primi progetti per la chiesa. Sulla base della prima identificazione di Dagobert Frey28, la critica ritiene concordemente che tre di queste originarie proposte corrispondano ai fogli di Casa Buonarroti 120 A recto (cat. 77; Corpus 610r), 121 A recto (Corpus 609r), 124 A recto (cat. 78; Corpus 612r). A essi possono essere aggiunti i fogli della stessa collezione 123 A recto (cat. 76; Corpus 608r) e 36 A recto (cat. 79; Corpus 611r). Michael Hirst ha suggerito saggiamente di resistere alla tentazione di volere allineare in stretta successione cronologica questi tre progetti, dalmomento che essi furono mostrati insieme ai deputati della Fabbrica della chiesa e pertanto considerati varianti ugualmente plausibili: essi appartengono infatti a un preciso genere di disegni di architettura, quelli dimostrativi, eseguiti per facilitare la comprensione delle convenzioni grafiche di rappresentazione ortogonale29.
Sviluppando la tesi di Hirst, si può addirittura suggerire che le cinque varianti iniziali di Michelangelo possano essere state sviluppate pressoché insieme, secondo ipotesi planimetriche differenti (restano oggi quelle relative al cerchio, all’ottagono e al quadrato), le quali potrebbero essere state via via perfezionate, senza un ordine preciso, con la speranza di potere indirizzare la committenza verso la soluzione ritenuta migliore, l’ultima della serie corrispondente al foglio 124 A recto (cat. 78). In effetti il primo dei tre disegni, il 121 A recto, basato su una pianta circolare con deambulatorio interrotto dai vestiboli di ingresso in corrispondenza degli assi ortogonali, mostra un progetto molto acerbo che tuttavia trova la sua ragione d’essere proprio nell’enfasi posta sulla figura del cerchio: è la prima e più ovvia proposta fatta ai committenti, basata sul più semplice schema circolare derivato dal Pantheon, sul quale si erano affaticati Raffaello, Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane intorno al 1518, a cui Michelangelo risponde con un modello spazialmente più complesso derivato piuttosto da architetture paleocristiane romane, quali Santa Costanza e Santo Stefano Rotondo: la struttura al centro della pianta è stata correttamente individuata da Michael Hirst come un fonte battesimale sormontato da un baldacchino, perfettamente congruo con le funzioni liturgiche della chiesa. La seconda variante proposta dal foglio 120 A recto (cat. 77), basato su uno schema a ottagono irregolare con deambulatorio ed esedre semicircolari in corrispondenza degli assi diagonali, sembra invece evocare il senso dell’identità nazionale dei committenti, alludendo alle forme del Battistero fiorentino, che avrebbero verosimilmente implicato una cupola ottagonale a spicchi di matrice fortemente quattrocentesca: le linee diagonali che tanto hanno fatto pensare alle architetture di Francesco Borromini sono un efficace, ma impreciso espediente empirico adottato dal vecchiomaestro per costruire velocemente un ottagono il più possibile simmetrico (questa considerazione fa cadere definitivamente ogni ipotesi precedentemente fatta riguardo a una volta a costoloni incrociati). Il terzo foglio 124 A recto (cat. 78) infine, basato su un impianto circolare con deambulatorio racchiuso in un quadrato con cappelle diagonali e vestiboli di ingresso, rappresenta delle tre proposte certamente quella più matura. In questo caso si tratta di una elaborazione del michelangiolesco schema centrale di San Pietro “ruotato su un asse diagonale, e con gli angoli mozzati”30, che fu ovviamente preferito dai deputati della Fabbrica.
Inoltre va aggiunto che il foglio 123 A recto (cat. 76) rappresenta un disegno parziale di una pianta centrale a quincunx, certamente memore del progetto di Sansovino sul cui vano centrale si interseca una struttura con colonne, forse un fonte con baldacchino, successivamente coperto da biacca.
Mentre il 36 A recto (cat. 79) rappresenta uno studio in dettaglio di una sezione del deambulatorio corrispondente al tratto fra le cappelle laterali derivato dal 124 A recto31.
Notando come Michelangelo fosse stato già coinvolto nel progetto della chiesa nel 1550, Amelio Fara ha sottolineato che a ciò si deve la velocità con cui l’artista fornì i suoi cinque progetti.
Una serie di altri fogli perduti dovette documentare la rapida definizione del progetto finale che può essere così brevemente riassunta: una prima fase ideativa in cui vennero tracciate le “cinque piante”, tra 10 agosto e primo novembre; una seconda fase esecutiva per realizzare il progetto planimetrico presentato al duca il 2 dicembre e da questi approvato il 22 dello stesso mese; una terza fase di perfezionamento condotta fino al 5 marzo 1560, quando, tramite Tiberio, al duca vennero presentate non soltanto la pianta, ma verosimilmente disegni di alzato e sezione, definitivamente approvati dal committente il 30 aprile 1560. A quest’ultima fase corrispose l’esecuzione del modello ligneo esecutivo della chiesa:
E così dato la pianta a Tiberio, che la riducessi netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di dentro, e che ne facessi un modello di terra, insegnandogli il modo di condurlo che stessi in piedi. In dieci giornio condusse Tiberio il modello di otto palmi; del quale, piaciuto assai a tutta la nazione, ne feciono poi fare unmodello in legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara, quanto tempio nessuno che si sia mai visto, sì per bellezza, ricchezza, e gran varietà sua.32
La pianta nel foglio 3185 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi è stata a lungo ritenuta il disegno in pulito condotto da Tiberio per preparare il modello, mentre probabilmente costituisce una delle numerose derivazioni. I documenti attestano la presenza delmodello in chiesa fino al 1720, quando venne distrutto. Il suo aspetto è noto attraverso numerose rappresentazioni, tra cui l’incisione in prospettiva di Jacques Le Mercier pubblicata nel 1607, illustrante molto realisticamente il plastico sezionato sopra un piano sostenuto da cavalletti, e le due incisioni in proiezione ortogonale della pianta e del prospetto-sezione eseguite da Valérian Regnard (cat. 80) e presto divenute celebri33.
I fogli di Casa Buonarroti relativi a San Giovanni dei Fiorentini rappresentano, insieme ai progetti per porta Pia, i più superbi esempi di disegno di architettura della fase matura del Maestro.
Non è difficile ammettere che nessuno, fra gli architetti del Rinascimento, sia riuscito al pari di Michelangelo a condensare su un unico foglio riflessioni grafiche d’intensità, fantasia e lungimiranza così profonde. Lo svolgersi di queste idee si rivela prima di tutto come uno straordinario universo di relazioni: studio tipologico, considerazione dei rapporti volumetrici e di scala, elaborazione delle parti con il tutto, ricerca della coerenza interno esterno, controllo degli effetti di luce e ombra, dialogo fra i materiali, attenzione per i dettagli e gli arredi ecclesiastici. Questi disegni, testimonianza di una instancabile ricerca, danno anche prova della fiducia che l’artista ebbe neimezzi del disegno. Ales sandro Nova ha scritto inmodo esemplare come una delle principali caratteristiche della pratica architettonica michelangiolesca fu “quel mantenere il progetto in uno stato di perenne fluidità in cui sia lo schema generale sia i particolari decorativi vengono continuamente rimessi in discussione. In altre parole, l’architettura di Michelangelo, almeno nella sua fase progettuale, vive, cresce e si trasforma come un essere organico. Nulla viene fissato a priori, ma l’idea si sviluppa seguendo il pensiero inquieto e non sempre razionale dell’artista, il che non è segno di incertezza, bensì di ricerca approfondita”34. Nel progettare, Buonarroti abbandonava assai di rado quelle soluzioni che durante il percorso compositivo lo avevano per qualche ragione soddisfatto. Da ciò deriva quella faticosissima reductio ad unum delle varie soluzioni così evidente dall’osservazione dei disegni michelangioleschi, particolarmente evidente nei fogli per San Giovanni dei Fiorentini: una idea dapprima prende vita in un foglio quasi all’improvviso e vi rimane lì in sordina, poi riappare con grande forza in un altro disegno e in quello lentamente scompare sotto i segni di nuove invenzioni, a loro volta riverberate dall’idea di partenza; improvvisamente poi, quella fluidità prima descritta si fissa nella forma di una nuova soluzione lasciando vedere in trasparenza, come un’agata o un opale, la ricchezza di cui si compone quella materia. In questi casi, l’intero processo di elaborazione sembra depositarsi e precipitare su uno stesso medesimo foglio: questi disegni eccezionali sembrano plasmati su carta quasi fossero bozzetti di terra e mostrano, con fortissima tensione estetica, come la soluzione finale abbia accettato la sovrapposizione di idee alternative e l’assimilazione di tracce derivate da idee scartate. Eppure ciascuno mantiene una sua individualità, persino i numerosi ritocchi a biacca eseguiti per nascondere alcune correzioni testimoniano l’interesse a mantenere ciascun disegno il più possibile presentabile e comprensibile. Condotti con tratti rapidi e disinvolti, i fogli contengono una stratificazione di tecniche disegnative e di soluzioni architettoniche che li rendono dei veri e propri palinsesti. Si guardi al procedimento di costruzione di ciascun disegno. Michelangelo preparò inizialmente il foglio costruendo con uno stilo un telaio di linee di riferimento a stecca e di grandi cerchi concentrici a punta di compasso.
Ciò si vede bene illuminando i fogli a luce radente. Ma queste costruzioni sono ben lungi dall’essere regolari. Su queste tracce di base furono disegnate varie planimetrie della chiesa, prevalentemente amatita nera e pochi tratti di penna, strumento spesso fatale per la riuscita di un disegno se condotto dallamano tremolante di un ottantenne disegnatore. Gli spessori murari furono invece campiti con ampie lavature di inchiostro. A punta sottile di pennello sono eseguite anche numerose linee. Non tutte le acquerellature indicano spessori murari pieni, dal momento che diluizioni differenti sono state usate per dettagli quali altari, banconi di sagrestia, volte a botte. Queste diverse tonalità di inchiostro, che il tempo ha ulteriormente differenziato, danno al disegno una profondità di spessore davvero sorprendente, che risulta anchemaggiore a causa delle ampie raschiature della carta e delle numerose cancellature a biacca. La stratificazione di pentimenti e abrasioni costituisce un esempio evidente di questo effetto.
In questo senso, l’appagamento visivo procurato dall’immagine disegnata sfida intellettualmente l’osservatore interessato a compredere l’articolazione tridimensionale di questa planimetria, che per noi non può che rimanere materia di congetture35.
Sembra davvero che l’alto grado di imprecisione lasciato al disegno non faccia che esaltare la potenza dell’invenzione. Similmente a quanto ipotizzato per i disegni per porta Pia, la sopravvivenza dei progetti per San Giovanni dei Fiorentini si deve probabilmente al fatto che essi rimasero nelle mani dei deputati della Fabbrica, invece di essere distrutti, come ampiamente noto, dallo stesso Buonarroti pochi giorni prima della morte.
Oltre questi fogli, le testimonianze in nostro possesso documentano con sicurezza solo l’aspetto finale dell’architettura progettata da Michelangelo attraverso le immagini tratte dal modello, la cui derivazione può riconoscersi nel foglio 124 A recto36. L’opera finale è quindi il prodotto di un processo continuo che manipola e trasforma gli elementi compositivi originari.
Questo andamento carsico delle invenzioni costituisce la trama più articolata e significativa del processo ideativo michelangiolesco, possibile a prezzo di fatica, disciplina, esercizio. È questa una esperienza che si costruisce come un “lavoro dentro le cose”, la cui attualità riporta a quanto oggi Peter Zumthor, con parole semplici e bellissime, scrive sulla costruzione del progetto di architettura37. Con sensibilità e occhio da scultore, Michelangelo dominò la materia conflittuale del progetto d’architettura, fondata sul fragile equilibrio tra precisione funzionale, rigore della forma ed espressione poetica. Con termini più semplici si può spiegare questa lettura critica osservando come la composizione architettonica di Michelangelo abbia costantemente affrontato il tentativo di risolvere il conflitto tra masse piene e spazi vuoti e abbia dato risolutiva risposta al problema dell’attacco dei vari elementi plastici tra loro, approfondendo sempre più lucidamente le relazioni fondamentali stabilite tra muro, pilastro, colonna e nicchia, anche in rapporto ai diversi sistemi di copertura previsti. Negli anni, con il progredire dell’esperienza, fu inevitabile che i suoi edificimostrassero quel livello di complessità meravigliosamente risolta che ancora oggi lascia stupiti. Il progetto finale di San Giovanni dei Fiorentini testimoniato dal modello, sul quale la critica è stata sempre poco lusinghiera, mostra infatti una soluzione in cui tutti i riferimenti precedenti sembrano sublimarsi in una soluzione spaziale mai vista prima, come a mantenere la promessa di un’architettura “che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono”38:
un nuovo Pantheon affatto diverso dal prototipo, con ordine esterno di paraste tuscaniche, a cui corrispondono all’interno colonne libere anch’esse tuscaniche addossate a parete con ritmo alternato39; su quest’ultimo, all’altezza del tamburo, si trova un altro ordine più breve di colonne ioniche, posto a inquadrare gli archi delle cappelle; la cupola infine, a semplice calotta estradossata con sezione a tutto sesto, è esternamente liscia,ma internamente si articola secondo i ritmi verticali dei sostegni nel disegno della cassattonatura. Come ha magistralmente scritto Christof Thoenes nel saggio di apertura a questo catalogo, una simile architettura non era mai esistita prima: semplificata all’esterno nell’asciutta concatenazione di volumi semplici, ma dalla complessità tutta rivolta all’interno, risolta nella pacata ritmicità di uno spazio variato, ma unitario al tempo stesso, dal respiro grandioso e ispirato da immensa intensità spirituale, come a ribadire che il Maestro assai “volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio”40.
In chiusura di queste pagine, desidero esprimere lamia più sincera gratitudine ad Anna Bedon, Howard Burns e Caroline Elamper quanto ricevuto sotto forma di insegnamento, sostegno e amicizia in ormai tre lunghi lustri.
Elenco delle Opere
Ritratto di Michelangelo
Marcello Venusti (attribuito), post 1535, olio su tela, cm 36 x 27, Firenze, Casa Buonarroti, 188
GLI ANNI DAL 1505 AL 1516
Sezione I. Roma all’inizio del XVI secolo
Anonimo incisore, Antonio Lafréry editore, Lupa Capitolina, 1552, bulino, mm 255 x 338, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 9
Enea Vico incisore, Antonio Lafréry editore, Colonna di Marco Aurelio e obelisco dal Mausoleo di Augusto con veduta di Roma, 1543-1546, bulino, mm 465 x 330, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 48
Sezione II. La volta della cappella Sistina
Michelangelo Buonarroti, Studi di nudi e di un cornicione per la volta della cappella Sistina, post 1508, matita nera, carboncino, penna e inchiostro, mm 414 x 271, Firenze, Casa Buonarroti, 75 F
Michelangelo Buonarroti, Sonetto autografo con autoritratto nell’atto di dipingere la volta della cappella Sistina, 1508-1512, penna e inchiostro, mm 283 x 200, Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 111
Anonimo artista (da Michelangelo Buonarroti), Riproduzione della volta della cappella Sistina, secondo quarto del secolo XIX, cromolitografia inserita sul piano di un tavolo coevo di manifattura toscana, cm 119 x 60,6 x 96,5, Firenze, Casa Buonarroti, inv. 544
Sezione III. La finestra a edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo
Giorgio Vasari il Giovane, Edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo, fine XVI secolo, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 390 x 270, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4686 A
Michelangelo Buonarroti, Monumento dei Fasti Consolari, xilografia, mm 147 x 197 (doppia pagina), in Bartolomeo Marliani, Consulum, dictatorum censorumque romanorum series una cum ipsorum triumphis quae marmoribus scalpta in foro reperta est atque in Capitolium translata, [Valerio e Luigi Dorico], Romae 1549, pp. 8-9, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 5.11.550
Sezione IV. I disegni dal Codice Coner: studi dall’antico e da monumenti romani
Michelangelo Buonarroti, Rilievi di basi, capitelli e mensole (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 285 x 425, Firenze, Casa Buonarroti, 1 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi assonometrici di trabeazioni (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 289 x 430, Firenze, Casa Buonarroti, 2 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di un capitello (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 248 x 431, Firenze, Casa Buonarroti, 3 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di una base (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 280 x 433, Firenze, Casa Buonarroti, 4 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi del portale e della finestra del cosiddetto tempio della Sibilla a Tivoli, alzato dell’Arco di Costantino con dettagli dell’arco di Settimio Severo, basi dell’arco di Tito (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 290 x 429, Firenze, Casa Buonarroti, 8 A
Michelangelo Buonarroti, Studi di capitelli e cornici, circa 1516, punta di metallo, penna e inchiostro, mm 285 x 433, Firenze, Casa Buonarroti, 5 A recto
GLI ANNI DAL 1534 AL 1564
Sezione V. Michelangelo e la cultura architettonica a Roma alla metà del XVI secolo
Giovan Battista da Sangallo detto il Gobbo, Note e restituzioni grafiche a margine di pagina, circa 1535-1545, penna e inchiostro, mm 322 x 220, in Vitruvio, De Architectura libri decem, editio princeps curata da Sulpicio da Veruli, [s.n.t.], [circa 1486-1487], cc. 130-131, Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 50 F.1
Sebastiano Serlio, Frontespizio, xilografia, mm 236 x 180, in Sebastiano Serlio, Extraordinario libro di architettura di Sebastiano Serlio, architetto del Re christianissimo. Nel quale si dimostrano trenta porte di opera rustica mista con diuersi ordini: & uenti di opera dilicata di diuerse specie, con la scrittura dauanti, che narra il tutto, Giouambattista Marchio Sessa & fratelli, Venetia 1566, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2783.R.
Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo (pagina iniziale), impressione a stampa, mm 217 x 137, in Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, tomo II, p. 947, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2898.1.R.
Sezione VI. La “sepoltura” di Giulio II: dai primi progetti alla realizzazione
Michelangelo Buonarroti, Studio per la statua di Giulio II defunto sorretta da due angeli, circa 1516-1517, penna e inchiostro, mm 212 x 144, Firenze, Casa Buonarroti, 43 A verso
Michelangelo Buonarroti, Ricordo del 21 gennaio 1517; alzato del 1518 per il piano superiore del monumento funebre di Giulio II, 1517-1518, penna e inchiostro, mm 223 x 317, Firenze, Casa Buonarroti, 69 A
Anonimo disegnatore, Veduta di Roma con lo sfondo della chiesa di San Giovanni in Laterano, schizzo del monumento funebre di Giulio II in costruzione, due dettagli architettonici e uno schizzo di ornato, circa 1534-1542, carboncino, penna e inchiostro, mm 230 x 341, Collezione privata
Anonimo incisore, Antonio Salamanca editore, Monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli, 1554, bulino, mm 480 x 390, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 66
Sezione VII. La tomba di Cecchino Bracci
Michelangelo Buonarroti, Quattro epitaffi in onore di Cecchino Bracci inviati a Luigi del Riccio, 1544, penna e inchiostro, mm 216 x 230, Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 33
Michelangelo Buonarroti, Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura, 1544, matita nera, mm 192 x 199, Firenze, Casa Buonarroti, 19 F recto, Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura, Firenze, Casa Buonarroti, 19 F verso
Anonimo disegnatore, Tomba di Cecchino Bracci, seconda metà del XVI secolo, matita nera, penna e inchiostro, mm 292 x 200, Firenze, Casa Buonarroti, inv. 533
Sezione VIII. La piazza del Campidoglio
Anonimo incisore, Antonio Lafréry editore, Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii et adiacientium…), circa 1548, bulino, mm 405 x 530, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 67
Nicolas Béatrizet inventore, Cornelis Bos incisore, Statua equestre di Marco Aurelio sul basamento di Michelangelo, post 1548, bulino, mm 405 x 393, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 79
Anonimo incisore, Campidoglio, 1562-1563, xilografia, mm 81 x 112, foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2231
Anonimo (da Stefano Dupérac), Veduta di piazza del Campidoglio (rappresentata in controparte), post 1568, matita, penna e inchiostro, mm 163 x 175, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2702 A
Stefano Dupérac incisore ed editore, Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii sciographia …), 1569, acquaforte, bulino, mm 501 x 647, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 18308
Matthaeus Merian il Vecchio incisore, Capitolium, post 1613-ante 1640, acquaforte, mm 332 x 360, foglio sciolto tratto da Martin Zeiller [Martino Zilieri], Itinerarium Italiae nov-antiquae, Merian, Frankfurt am Mayn 1640, Collezione privata
Francesco Villamena, Sezione e fianco del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio, Pianta e alzato del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio, 1619, bulino, mm 394 x 255, in Alcune opere d'architettura di Iacomo Barotio da Vignola. Raccolte et poste in luce da Francesco Villamena l'anno 1617 ..., [s.n.], Roma [1619], tavv. n.n., pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d'architettura di m. Iacomo Barozzio da Vignola. Libro primo, et originale, [s.n.], Roma 1617, Vicenza, Biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Collezione Guglielmo Cappelletti, CAP D XVII 2
Anonimo incisore, Capitolii Novi Descriptio, 1620, bulino, mm 202 x 297, foglio sciolto tratto da Giacomo Lauro, Antiquae Urbis Splendor, Giacomo Lauro, Roma 1620, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9738
Nicolaus van Aelst incisore con aggiornamenti di Giovan Giacomo de’ Rossi editore, Capitolii Romani vera imago ut nunc est, 1650, acquaforte, bulino, mm 378 x 552, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2146
Anonimo artista, Veduta di piazza del Campidoglio, 1650,olio su tela, cm 73 x 99, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. Dep. 75, PV 3011
Gabriel Perelle incisore, Piazza del Campidoglio, circa 1650, acquaforte, mm 194 x 274, Collezione privata
Giovanni Battista Falda incisore, Altra veduta del Campidoglio, 1665-1667, acquaforte, mm 260 x 393, foglio sciolto tratto da Giovan Battista Falda, Il nuovo teatro delle fabbriche ed edifici in prospettiva di Roma moderna sotto il felice pontificato di N. S. Papa Alessandro 7, Giovan Giacomo de Rossi, Roma s.d. [1665-1667], Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2353
Giuseppe Tiburzio Vergelli incisore, Le Capitole, 1688, acquaforte, mm 235 x 389, foglio sciolto tratto da Giuseppe Tiburzio Vergelli, Nuovo Splendore di Roma moderna, Roma 1688, Collezione privata
Lievin Cruyl incisore, Pieter Sluyter editore, Prospectus Capitolii Romani et Templi Aræ Cæli Conventus Fratrum Minorum, 1697, acquaforte, mm 384 x 493, foglio sciolto tratto da Johannes Georgius Graevius, Thesaurus Antiquitatum Romanarum, Utrecht-Leida 1697, vol. IV, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9923
Anonimo incisore, Facciata del Palazzo Senatorio (Le Palais du Capitole), 1706, acquaforte, mm 137 x 191, foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d'Italie ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes et De toutes les raretez, qu'il contient, chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 259, Collezione privata
Anonimo incisore, Facciata del Palazzo dei Conservatori (Le Maison des Magistrats nommés Conservateurs), 1706, acquaforte, mm 137 x 173, foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d'Italie ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes et De toutes les raretez, qu'il contient, chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 262, Collezione privata
Sezione IX. Le sculture di piazza del Campidoglio
Anonimo scultore romano, Statua di Giove, II secolo d. C., marmo pario, altezza cm 212, Roma, Musei Capitolini, in deposito dal 1956 a Palazzo Braschi (Museo di Roma), inv. MC 59
Prospero Boccaduli, Inventario delle figure donate da N.S. Pio V al Po[polo] Ro[mano] fatto questo dì XI de feb[braio] 1566, 11 e 27 febbraio 1566, fascicolo manoscritto, mm 280 x 105 (fascicolo chiuso) 280 x 205 (fascicolo aperto), Roma, Archivio Storico Capitolino, Fondo Boccapaduli, Armadio II, Mazzo IV, fascicolo n. 35
Lorenzo Vaccari incisore, Iouis in Capitolii fastigio statis marmorea statua, incisione, mm 256 x 192, in Lorenzo Vaccari, Antiquarum Statuarum Urbis Romae quae in publicis privatisque locis visuntur icones, Lorenzo Vaccari, Roma 1584, tav. n.n., Roma, Biblioteca Hertziana – Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1840 raro
Giovanni Battista Cavalieri incisore, Iouis signum marmoreum Romae in Capitolio, incisione, mm 276 x 205, in Giovanni Battista Cavalieri, Antiquarum Statuarum Urbis Romae primus et secundus liber, [s.n.], Roma 1585, tav. 76, Roma, Biblioteca Hertziana – Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1700 raro
Giovanni Battista Cavalieri incisore, Mars in Capitolio, incisione, mm 221 x 135, in Giovanni Battista Cavalieri Antiquarum Statuarum Urbis Romae liber tertius et quartius, [s.n.], Roma 1594, tav. 32, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.4.E.35.1 bis
Philippe Thomassin incisore, Mars in Capitolio, incisione, mm 265 x 415, in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 32, Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, inv. 15259
Philippe Thomassin incisore, [Pudicitia] in Capitolio, incisione, mm 265 x 415, in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 49, Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, inv. 15259
Sezione X. Palazzo Farnese
Michelangelo Buonarroti, Studio di cornice, data incerta, matita rossa, mm 93 x 106, Firenze, Casa Buonarroti, 90 A
Nicolas Béatrizet incisore, Antonio Lafréry editore, Prospetto di palazzo Farnese, 1549, bulino, mm 400 x 570 in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 69
Anonimo incisore, Antonio Lafréry editore, Cortile di palazzo Farnese, 1560, bulino, mm 400 x 515, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 70
Sezione XI. San Pietro in Vaticano
Anonimo disegnatore, Veduta di San Pietro da sud-est, 1553-1554, penna e inchiostro, mm 184 x 206, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4345 A
Giovanni Antonio Dosio, Vista del fianco meridionale di San Pietro, ante 1565, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 272 x 221, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2536 A
Anonimo disegnatore, Pianta dell’emiciclo di San Pietro, 1556-1564(?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 77 x 250, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 93 A
Anonimo disegnatore, Pianta dell’emiciclo di San Pietro, 1556-1564(?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 441 x 300, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 96 A
Anonimo disegnatore, Alzato dell’emiciclo di San Pietro, 1547-1555(?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 352 x 296, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 95 A
Assistenti di Michelangelo Buonarroti, Modello ligneo dell’abside di San Pietro (già inserito nella calotta absidale del modello di Antonio da Sangallo il Giovane), 1556-1557, legno di tiglio e altre essenze, larghezza cm 90,5, altezza cm 50, lunghezza cm 54 (misure esterne), Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro
Tiberio Alfarano disegnatore ed editore, Natale Bonifacio incisore, Almae Vrbis Divi Petri Veteris Noviqve Templi Descriptio …, 1823 [ed. orig. 1590], acquaforte, mm 567 x 439, tratta da Martino Ferrabosco, Architettura della Basilica di S. Pietro in Vaticano: opera di Bramante Lazzari, Michel Angelo Bonaroti ed altri celebri architetti espressa in XXXII tavole, Nella Stamperia De Romanis, Roma 1812 (III ed., ed. orig. Roma 1620), Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, Pianta di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco 1569, acquaforte, mm 316 x 431, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 41
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, Prospetto laterale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco, s.d., acquaforte, mm 405 x 534, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 30
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, Sezione di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco, s.d., acquaforte, mm 405 x 510, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 83
Anonimo incisore (da Tiberio Calcagni ?), Vincenzo Luchino editore, Prospetto dell’abside meridionale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco, 1564, bulino, mm 395 x 560, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 40
Jacob Bos incisore, Antonio Lafréry editore, Centina di Antonio da Sangallo per gli archi delle volte di San Pietro riutilizzata da Michelangelo, 1561, bulino, mm 400 x 505, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 39
Sezione XII. Il tamburo della cupola di San Pietro in Vaticano
P. van Tienen, Hieronymus Cock incisore ed editore, Aedis D. Petri Romane deformatio, circa 1547, acquaforte, mm 330 x 240, Anzio, Biblioteca Clementina
Anonimo disegnatore, Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo, circa 1565-1570, tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 221 x 211, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Collezione Santarelli 174
Anonimo disegnatore, Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo, circa 1565-1570, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 180 x 255, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Collezione Santarelli 175
Michelangelo Buonarroti, Dettaglio planimetrico del tamburo della cupola di San Pietro, ante 1555, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 388 x 555, Firenze, Casa Buonarroti, 31 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzo a matita rossa della cupola di San Pietro, primavera 1563, matita rossa, penna e inchiostro, mm 110 x 220, Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro, Armadio 7, B, 427, foglio 497 verso
Assistente di Michelangelo Buonarroti (dal modello della cupola di Michelangelo Buonarroti), Studio della sezione della cupola di San Pietro, post 1561, matita nera, penna e inchiostro, mm 159 x 162, Firenze, Casa Buonarroti, 35 A
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, La benedizione papale in Piazza San Pietro, 1571-1572, acquaforte, mm 540 x 385, Anzio, Biblioteca Clementina
Monogrammista I.C.B. incisore, Antonio Lafréry editore, Mostra della Giostra fatta nel Teatro del Palazzo ridotto in questa forma dalla Sta di N. S. Pio 4°, 1565, acquaforte e bulino, mm 575 x 435, Anzio, Biblioteca Clementina
Mario Cartaro incisore, Claudio Duchet editore, Vero disegno deli stupendi edefitii giardini boschi fontane et cose maravegliose di Belvedere in Roma, 1579, bulino, mm 490 x 355, Anzio, Biblioteca Clementina
Giovanni Guerra e Natale Bonifacio incisori, Bartolomeo Grassi editore, Disegno nel quale si rappresentano le Cerimonie d’ordine di N.S. adi 26 di Settembre 1586 in venerdì nella consacratione della Croce che s’haveva da porre sopra la Guglia già drizzata, 1587, acquaforte e bulino, mm 365 x 500, Anzio, Biblioteca Clementina
Sezione XIII. Progetti per edifici residenziali eseguiti a Roma tra 1550 e 1560
Michelangelo Buonarroti, Studio per cornice trabeata di finestra e studio planimetrico per un palazzo, circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, mm 271 x 402, Firenze, Casa Buonarroti, 117 A
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per un palazzo, circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, mm 354 x 253, Firenze, Casa Buonarroti, 118 A
Sezione XIV. San Giovanni dei Fiorentini
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, stilo, compasso, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, mm 173 x 278, Firenze, Casa Buonarroti, 123 A
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, stilo, compasso, matita rossa, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 425 x 297, Firenze, Casa Buonarroti, 120 A
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, stilo, compasso, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 417 x 376, Firenze, Casa Buonarroti, 124 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzi planimetrici e di alzato per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, matita nera, mm 146 x 172, Firenze, Casa Buonarroti, 36 A
Monogrammista RD disegnatore, Valérian Regnard incisore, Prospetto e sezione del modello di San Giovanni dei Fiorentini, 1683, acquaforte, mm 498 x 366, tavola tratta da Valerianus Regnartius, Praecipua Urbis Romanae Templa, Insignium Romae templorum, Io. Iacobo de Rubeis editore, Roma 1684, tav. 48, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Collezione Lanciani, Roma XI.132.21
Sezione XV. La cappella Sforza in Santa Maria Maggiore
Michelangelo Buonarroti, Schizzi architettonici e studio planimetrico per la cappella Sforza, 1562, matita nera, mm 185 x 273, Firenze, Casa Buonarroti, 104 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzi architettonici e studi per la cappella Sforza, 1562, matita nera, mm 179 x 227, Firenze, Casa Buonarroti, 109 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzi planimetrici e studio di tomba parietale per la cappella Sforza, post 1562, matita nera, tracce di penna e inchiostro, mm 350 x 200, Firenze, Casa Buonarroti, 103 A recto
Ottaviano Mascherino, Pianta del palazzo papale di Santa Maria Maggiore con l’antica sagrestia e la cappella Sforza, circa 1585, penna e inchiostro, pastello, inchiostro acquerellato, mm 440 x 580, Roma, Accademia di San Luca, Archivio storico, Fondo Ottaviano Mascarino 2427
Anonimo incisore, Pianta e sezione trasversale della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore in Roma, acquaforte, mm 494 x 375, in Giovanni Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle delle chiese di Roma con le loro facciate, fianchi, piante e misure de’ più celebri architetti, Roma 1713, tav. 13, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Rari Roma V.630
Anonimo incisore, Pianta e sezione longitudinale della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore in Roma, acquaforte, mm 475 x 346, in Giovanni Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle delle chiese di Roma con le loro facciate, fianchi, piante e misure de più celebri architetti, Roma 1713, tav. 14, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Dep. Banc. 33.B.20
Anonimo incisore, Esterno di Santa Maria Maggiore con le cappelle Sforza e Cesi, incisione, mm 385 x 252, in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 69, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.3.F.30
Anonimo incisore, Spaccato di Santa Maria Maggiore con la facciata della cappella Sforza, incisione, mm 404 x 542, in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 99, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.2.F.15
Collaboratore di Ferdinando Fuga, Pianta di Santa Maria Maggiore con progetto per la risistemazione degli ingressi delle cappelle Cesi e Sforza, metà del XVIII secolo, preparazione a matita, penna e inchiostro, inchiostri acquerellati di diverso colore, mm 528 x 770, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Collezione Lanciani, Roma 46.XI.II.4, 31809
Sezione XVI. Porta Pia
Michelangelo Buonarroti, Schizzo di mostra di finestra, 1561 (?), matita nera, mm 125 x 71, Firenze, Casa Buonarroti, 85 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per un portale e altri studi per modanature e cornici, matita nera, mm 283 x 255, Firenze, Casa Buonarroti, 97 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, mm 399 x 269, Firenze, Casa Buonarroti, 73 A bis
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, traccia di penna e inchiostro, mm 111 x 80, Firenze, Casa Buonarroti, 84 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, mm 166 x 124, Firenze, Casa Buonarroti, 99 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 470 x 280, Firenze, Casa Buonarroti, 102 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 442 x 282, Firenze, Casa Buonarroti, 106 A
Giovanni Battista Montano disegnatore e incisore, Prospetto e sezione di Porta Pia a Roma, 1635, bulino, mm 396 x 260, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto Siena, Pietro Marchetti [1635], tavv. XXXX-XXXXI, pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d'architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, Siena 1635, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. I-148
Luigi Rossini, Veduta di Porta Pia, incisione, mm 525 x 748, in Luigi Rossini, Le porte antiche e moderne del recinto di Roma: con le mura, prospetti e piante geometriche; con un breve cenno istorico antiquario, Scudellari, Roma 1829, Roma, Biblioteca Hertziana – Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Dr 335-4290
Sezione XVII. Santa Maria degli Angeli
Ambrogio Brambilla incisore (da Pirro Ligorio), Claudio Duchet editore, Thermae Deocletianae et Maximianae inter Qurinalem et Viminalem, 1582, bulino, mm 307 x 536, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19100
Giovanni Antonio Dosio disegnatore, Giovanni Battista Cavalieri editore e incisore, Pars anterior Diocletiani Imp. Thermarum quae solis meridiae respicit, 1563, bulino, mm 192 x 257, in Giovanni Battista Cavalieri, Cosmo Medici Duci Florentinor et Senens. Vrbis Romae aedificiorum illustriumquae supersunt reliquiae… [Firenze?] 1569, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 18493
Giovanni Antonio Dosio, Sezione prospettica dell’interno delle Terme di Diocleziano, ante 1561, matita rossa, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato di diverso colore, mm 167 x 232, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2545 A recto
Giovanni Antonio Dosio disegnatore, Parte di dentro delle Terme di Diocletiano, 1565, xilografia, mm 83 x 127, foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19285
Girolamo Franzini, La Chiesa di S. Maria de gl’Angioli. Tem[plum] S. Mariae Angelorum, 1588, xilografia, mm 77 x 62, foglio sciolto tratto da Girolamo Franzini, Le Cose Maravigliose Dell'Alma Città Di Roma, Anfiteatro Del Mondo: Con Le Chiese, Et Antichità rapresentate in disegno da Girolamo Francino, Girolamo Franzini, Roma 1588, Collezione privata
Anonimo incisore, S. Maria de gli Angeli, 1703, xilografia, mm 144 x 85, foglio sciolto tratto da Fioravante Martinelli, Roma di nuovo esattamente ricercata nel suo sito, con tutto ciò di curioso che in esso si ritrova sì antico che moderno …, Luigi Neri, Roma 1703, Collezione privata
Giovanni Battista Piranesi, Veduta interna della chiesa della Madonna degli Angioli detta della Certosa [foglio sciolto tratto dalla serie Vedute di Roma, rovine antiche e fontane romane], 1776, acquaforte, mm 564 x 826, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 40677
Busto di Michelangelo
Daniele da Volterra, Testa di Michelangelo (su busto di marmo bigio successivo), 1564-1566, bronzo (testa), altezza m 310, Roma, Musei Capitolini, inv. MC 1165/S
Elenco dei testi critici in catalogo
Michelangelo architetto a Roma
Michelangelo e Architettura
Christof Thoenes
La collezione di disegni di Michelangelo della Casa Buonarroti
Pina Ragionieri
Architetture minori di Michelangelo a Roma
Anna Bedon
Le dimore di Michelangelo a Roma. Dalle prime abitazioni alla casa di Macel de’ Corvi
Clara Altavista
Gli anni dal 1505 al 1516
Michelangelo: ritratti e autoritratti
Pina Ragionieri
Cappella Sistina
Cammy Brothers
Finestra a edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo
Mauro Mussolin
Disegni dal Codice Coner: studi dall’antico e da architetture romane
Cammy Brothers
Gli anni dal 1534 al 1564
Michelangelo e la cultura architettonica a Roma alla metà del XVI secolo
Maddalena Scimemi
La “sepoltura” di Giulio II: dai primi progetti alla realizzazione
Claudia Echinger-Maurach
Michelangelo e le mura di Roma
Guido Rebecchini
Michelangelo e le fortificazioni del Borgo
Oronzo Brunetti
Tomba di Cecchino Bracci
Pina Ragionieri
Piazza del Campidoglio
Anna Bedon
Le colonne alveolate di palazzo dei Conservatori
Francesco Benelli
Michelangelo e la decorazione scultorea della piazza Capitolina
Claudio Parisi Presicce
Palazzo Farnese
Emanuela Ferretti
San Pietro in Vaticano
Alessandro Brodini
Il tamburo della cupola di San Pietro in Vaticano
Vitale Zanchettin
Progetti per edifici residenziali eseguiti a Roma intorno al 1550-1560
Claudia Echinger-Maurach
San Giovanni dei Fiorentini
Mauro Mussolin
Cappella Sforza in Santa Maria Maggiore
Georg Satzinger
Porta Pia
Golo Maurer
Santa Maria degli Angeli
Alessandro Brodini
Una grande mostra evento ideata dalla Fondazione Casa Buonarroti di Firenze e organizzata dall'Associazione Culturale Metamorfosi, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, Commissione Cultura, Sovraintendenza ai Beni Culturali, dalla Regione Lazio, dalla Provincia di Roma, con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura e con la collaborazione delle Banche Tesoriere del Comune di Roma, della Fondazione Guglielmo Giordano e della Fondazione Lars Magnus Ericsson, con il contributo di British American Tobacco Italia e Monini S.p.A. ed il supporto tecnico di Ferrovie dello Stato, Condé Nast, Radio Subasio, Nationale Suisse e Roscioli Hotels – che dal 5 ottobre 2009 al 7 febbraio 2010 racconterà, nei Musei Capitolini, la storia e le testimonianze di questa passione.
17 sezioni e 105 opere grazie alle quali è possibile tracciare un profilo di Michelangelo architetto a Roma attraverso i due principali momenti in cui l’artista visse nella città tra 1505 e 1516 e dal 1534 fino alla morte nel 1564. Un'esposizione curata da Pina Ragionieri, direttrice della Fondazione Casa Buonarroti, e da Mauro Mussolin, storico dell’architettura, che riferisce puntualmente delle molteplici e prestigiose committenze romane dell'artista dagli anni della giovinezza alle straordinarie invenzioni della vecchiaia. Grazie soprattutto ai molti disegni del Maestro provenienti dalla Collezione della Casa Buonarroti, custode del maggior numero al mondo di studi e progetti di architettura realizzati da Michelangelo.
Il cuore della mostra (catalogo Silvana Editoriale a cura di Mauro Mussolin, con la collaborazione di Clara Altavista) è proprio lo straordinario nucleo di oltre 30 disegni autografi dell'artista relativi a opere romane di proprietà di Casa Buonarroti, il cui apporto comprende anche pregevoli stampe e due ritratti di Michelangelo. Ai disegni autografi del Maestro si alterneranno in mostra, come un prezioso compendio di meravigliose appendici, antiche stampe, disegni, modelli, volumi e documenti originali dell'epoca concessi in prestito da importanti collezioni italiane.
Tra le istituzioni che hanno voluto offrire il loro contributo citiamo i Musei Capitolini e il Museo di Roma; sempre a Roma gli altri istituti coinvolti sono l'Accademia Nazionale di San Luca, l'Archivio Storico Capitolino, la Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte di Palazzo Venezia, la Biblioteca Corsiniana dell'Accademia dei Lincei, la Biblioteca Hertziana, la Biblioteca Nazionale Centrale; a Firenze il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e la Biblioteca Nazionale Centrale; inoltre il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea
Palladio di Vicenza. Numerosi anche i prestiti da collezioni private tra cui le opere della Biblioteca Clementina di Anzio. Importantissima la presenza tra i prestatori dell'Archivio della Fabbrica di San Pietro della Città del Vaticano, da cui giunge l’inedito autografo di Michelangelo recentemente scoperto e relativo al tamburo della cupola di San Pietro.
Divisa in diciassette argomenti disposti in ordine cronologico, la mostra prende avvio dai tempestosi rapporti di Michelangelo col Papa Giulio II della Rovere, per il quale l'artista progettò un monumento sepolcrale che lo coinvolse fra alterne vicende fino alla sua morte. Il secondo argomento affrontato è la passione per l'arte classica che accompagnò Michelangelo per tutta la vita, testimoniata attraverso l'esposizione dei bellissimi fogli di studio dall’antico, noti come copie di Michelangelo dal cosiddetto Codice Coner, celebre taccuino cinquecentesco contenente i rilievi di antiche architetture romane. Paolo III Farnese e le sue grandi committenze sono la terza tappa del lungo itinerario alla scoperta della Roma michelangiolesca. Fu proprio questo pontefice infatti che affidò a Michelangelo le trasformazioni di Piazza del Campidoglio e, dal 1546, il completamento di Palazzo Farnese. In questo stesso anno venne conferita al Buonarroti la carica di architetto della Fabbrica di San Pietro. L'episodio doloroso della morte del giovanissimo Cecchino Bracci, che dettò all’artista una serie di ispirati epitaffi, è presente in mostra come un momento di privata biografia. La sezione riguardante i progetti per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e per Porta Pia documenta, con una serie di emozionanti disegni, uno dei vertici assoluti della progettazione architettonica di Michelangelo. La mostra si conclude con le esperienze estreme, in termini cronologici ma soprattutto di innovazione compositiva, della Cappella Sforza e della trasformazione delle terme di Diocleziano nello spazio sacrale e mistico di Santa Maria degli Angeli.
Intensa anche l’attività didattica. Dal mese di ottobre prenderanno infatti il via le visite guidate per le scuole con partenza da piazza del Campidoglio. Per il pubblico, oltre alla visita alla mostra, è in programma nei week end e nelle festività natalizie un calendario di visite ai luoghi michelangioleschi tra cui Piazza Farnese, Porta Pia.
MICHELANGELO E ARCHITETTURA
Christof Thoenes
Che i grandi artisti del Rinascimento fossero geni universali – pittori, scultori e architetti – è un luogo comune e, come tutti i luoghi comuni, vero e falso allo stesso tempo. La verità di ciò è dimostrabile senza fatica permezzo di singoli esempi; la falsità sta nella generalizzazione.
Se, fiero, Raffaello scriveva allo zio di essere stato designato da Leone X come architetto di San Pietro “in loco di Bramante” e che per questo sarebbe diventato “perfettissimo” anche in quest’arte1, al contrario, Michelangelo (secondo Giorgio Vasari), pur opponendosi, si lasciava convincere dallo stesso papa ad assumere l’incarico per la facciata di San Lorenzo2. Reazioni di resistenza e di opposizione avrebbero accompagnato tutta la sua successiva attività architettonica. “Non sono architector” scriveva egli ancora negli anni quaranta su un foglio con dettagli architettonici3. Per Michelangelo appare decisivo il momento del condizionamento esterno. Che Paolo III lo avesse indotto ad assumere la guida del cantiere di San Pietro “contramia voglia, e con grandissima forza”, lo dichiarerà egli stessomolto più tardi in una lettera a Vasari4.
Esser costretto a fare ciò che non vuole rappresenta un topos della sua biografia: affrescare la volta della Sistina anziché intagliare le figure della tomba di Giulio II, tomba che anch’essa, ben presto, divenne un peso e una causa per nuove lamentele, come ogni ulteriore incarico. Ancora a 82 anni egli deplorava di dover perseverare nella “fatica e fastidio” della costruzione di San Pietro, anziché lasciar tramontare la propria vita nella pace della sua patria5. Ma chi lo tratteneva, allora? Vi erano a Roma tanti dei suoi colleghi (e concorrenti) che ben volentieri avrebbero voluto vederlo partire per Firenze, mentre i papi continuavano a proteggerlo. Da tempo questa coercizione era stata interiorizzata, vale a dire, Michelangelo in verità era diventato committente di sé stesso. Ed era proprio questo a cui egli, come credo, avevamirato fin dall’inizio. Sarebbe erroneo pertanto – ed è questa la tesi che desidero sostenere – considerare l’architettura, che nel corso della sua vita giocò un ruolo sempremaggiore, alla stregua di un’attività secondaria ovvero una sorta di deviazione dalla propria professione6. Al contrario essa fu un complemento sempre più importante, finché divenne l’ultima meta del suo operato, connessa con la scultura e al contempo opposta a essa. Infatti, se ilmestiere di scultore l’aveva quasi nel sangue (trasmesso, come egli stesso credeva, o fingeva di credere, dal latte della sua balia proveniente da una famiglia di scalpellini)7, egli era entrato assai tardi nel campo dell’architettura, riflettendo su di essa – da quel momento – sempre conmaggior consapevolezza. Questo è il percorso che cercherò di seguire.
Il racconto vasariano della vicenda dell’incarico di San Lorenzo, suggerito senza dubbio daMichelangelo stesso, non ha trovato credito nella ricerca recente8. Se si torna alle fonti (che risiedono prima di tutto nella corrispondenza dello stesso Michelangelo), si compone l’immagine di un uomo che, del tutto consapevolmente,mirava a raccogliere la completezza dell’incarico nelle propriemani e a espellere concorrenti, come anche possibili collaboratori, fossero essi architetti o scultori. Il suo obiettivo era il controllo dell’insieme e la strada per giungervi conduceva all’architettura – ciò dovette averlo chiaro, al più tardi, durante le trattative con Leone X e i suoi incaricati. Solo in qualità di architetto, che decideva anche a chi affidare i lavori di scultura (fin tanto che non li eseguiva egli stesso), poteva realizzare ciò che aveva in mente. L’autonomia artistica presuppone quella economica: così pretese di venire a patti con il papa quale imprenditore indipendente che lavorava “a tutte sue spese”9, e sottolineò ciò nel dire di aver già investito un capitale proprio nell’acquisto dimateriali di pietra10. E non da ultimo, se vedo bene, fu a causa di questa ambizione che l’intera impresa alla fine naufragò. Così della facciata di San Lorenzo non ci rimane nient’altro che ilmodello ligneo.
In una lettera delmarzo 1520, Michelangelo trasse un bilancio amaro: tre anni spesi a lavorare, con perdite finanziarie e la vergogna di non aver portato a termine una commissione annunciata in grande (com’era già avvenuto per la tomba di Giulio II)11. Quello che egli non vedeva, ovvero di cui preferiva non parlare, era il passo compiuto nel campo dell’architettura durante quegli anni. Ciò non era implicito. Infatti l’incarico per la facciata si riferiva in prima linea alla decorazione. Il testo del contratto, come anche le lettere dell’incaricato papale, menziona principalmente il programma scultoreo: una montagna di corpimarmorei e bronzei, ancora più imponente della tomba di Giulio II. Ma è strano: nella serie di schizzi che inizia già prima della stipulazione del contratto – circa 35 disegni di ogni misura e tipo – la scultura gioca un ruolo decisamente subordinato12. Ciò che lo coinvolgeva era l’architettura: non più come sfondo, come nella tomba o nella volta della Sistina, bensì come medium sui generis.
Era una scoperta che dovette colpirlo profondamente: gli elementi architettonici – colonne, pilastri, trabeazioni – non servivano solamente ad accompagnare le figure umane, essi potevano quasi sostituirle, appellandosi, come quelli, al nostro senso corporeo, capace di trasmettere impulsi di movimento.
Certamente il campo di espressione delle forme architettoniche era di per sé più limitato, la loro semiotica rigida e regolata da convenzioni. Ma proprio in ciò risiedeva anche la loro forza attrattiva. Una tendenza verso la tipizzazione, persino verso la monotonia si percepisce anche nel mondo figurativo di Michelangelo. Egli non fece alcun ritratto, e già gli Ignudi della Sistina sono rappresentanti del loro genere piuttosto che individui; anzi, c’era già nella Sistina qualche intima affinità tra figure e membri architettonici, radicalmente diversa dal modo in cui Raffaello aveva trattato questo rapporto nelle Stanze vaticane.
Michelangelo non esitò – e ciò mi pare indicativo della consapevolezza di un nuovo inizio – a intraprendere lo studio della lingua dell’architettura classica quasi inmodo scolastico. Ciò è dimostrato da una serie di disegni a matita rossa degli anni 1516-1517. Si tratta di copie dal Codice Coner, con il cui aiuto Michelangelo recuperò lo studio dei monumenti romani, nonché di certe architetture bramantesche, obbligatorio per gli architetti della sua generazione13. Lo stile dei disegni è secco, oggettivo, rivolto alla fedeltà; se essi tuttavia non appaiono noiose copie, ciò è dovuto al fatto che l’autore sapeva esattamente ciò che voleva. Non si curava dimisure e proporzioni – non troviamo né numeri né segni di compasso su questi fogli – e nemmeno della grammatica degli “ordini”, bensì dell’interazione tra pesi e sostegni e del potenziale energetico che essi contenevano. E proprio questo aspetto entrò a far parte integrante del lavoro compositivo per la facciata di San Lorenzo.
Il risultato fu un’architettura nella quale le membrature verticali e orizzontali non appaiono più alla stregua di un apparato decorativo applicato al corpo dell’edificio, come in Giuliano da Sangallo, ma come sua essenza vera e propria.
La parete stessa si articola in strutture che sembrano generare pilastri e colonne,mettendo inmoto le trabeazioni14. L’obiettivo non è l’effetto più ricco possibile nel rilievo, bensì il collegamento delle membrature in un tutto “organico”.
Trent’anni più tardi, nel concepire l’absidemeridionale di San Pietro, Michelangelo avrebbe sfruttato appieno quest’invenzione dei suoi esordi.
Non si dice niente di nuovo qualificando Michelangelo come architetto-scultore. Ma il cliché diviene tanto più vero quanto più viene preso alla lettera. Il punto saliente non sta nelle effettive o presunte qualità “plastiche” delle sue architetture, bensì nel suo rapporto con la pietra. Egli non sapeva concepire un edificio se non come una scultura in grande formato: un intreccio di blocchi accatastati e ammorsati l’uno sull’altro. Gli elementi dell’architettura sono contenuti nel marmo, come statue; così lo scultore non divenne architetto, ma fu l’architettura a trasformarsi in lavoro scultoreo. James Ackerman ha mostrato come sia possibile ricomporre la facciata di San Lorenzo alla stregua di un puzzle, partendo dagli schizzi dei blocchi disegnati da Michelangelo15.
Si spiega così il comportamento a prima vista enigmatico di Michelangelo nella fase iniziale della commissione. Stipulato il contratto che gli dava otto anni di tempo, egli non si recò in cantiere, bensì tornò nelle sue cave dimarmo, dove rimase ancora un anno emezzo per attendere al lavoro di sbozzatura dei blocchi. Fu la pietra a ispirarlo. Già così era stato per il suo primo incarico architettonico, il piccolo fronte della cappella di Castel Sant’Angelo: un puro lavoro di marmo, che forse per questo fu delegato a un intagliatore16. Anche la facciata fiorentina, impresa colossale, fu pensata completamente in marmo.
Nella Sagrestia NuovaMichelangelo si rapportò all’architettura in pietra serena di Filippo Brunelleschi; il ricetto della Laurenziana si trasformò nell’apoteosi della “pietra del fossato”, la più nobile sorta del macigno fiorentino. A Roma Michelangelo, secondo il detto di Giorgio Vasari, venne a “nobilitare il travertino”17, utilizzandolo non come rivestimento di strutture murarie,ma comemateriale da costruzione; recentemente Vitale Zanchettin ci ha fornito una nuova chiave di lettura di questo procedimento18. In San Pietro la tecnica di Michelangelo diede l’impulso a una riorganizzazione radicale del funzionamento del cantiere19.
Il modo di pensare dello scultore si rispecchia nella prassi del disegno. Sono le tecniche proprie del lavoro con materiali lapidei a imporsi nel nuovo mestiere. Quella strada che conduce dal primo schizzo al disegno elaborato, documentata nell’opera grafica di tanti architetti, qui viene incrociata da un’altra strada che viaggia dalla cava al cantiere. Nel blocco della pietra si nasconde – secondo quel celebre sonetto20 – il “concetto” dell’opera che l’artista deve liberare: non sulla carta, ma solamente nell’edificio, attraverso il lavoro nel materiale, le idee diventano realtà. Non è un caso se tra i disegni architettonici di Michelangelo non troviamo “fogli di dimostrazione”.
Un precoce tentativo di realizzarne uno per la facciata di San Lorenzo rimase incompleto; alcuni disegni successivi, sui quali torneremo in seguito, mostrano progettazioni in continuo divenire. A compensare questa mancanza abbiamo gli schizzi dei blocchi lapidei, nonché i grandi disegni di lavoro realizzati al vero per porte e finestre, tracciati sullemurature della Sagrestia Nuova21, insieme ai profili per i “modani” ritagliati sulla carta per i tagliapietra22. Disegnare al vero sullemurature non fu certamente un’invenzione di Michelangelo, né possiamo essere certi che queste linee siano state tutte tracciate dalle suemani. Ma ciò che dimostrano – e ciò che veramente importa – è la continuità del lavoro ideativo: non esiste alcun punto dove la tensione creativa si rilassi nella elaborazione delle forme, anche dopo che queste apparivano ormai stabilite.
Tra questi due estremi si collocano i fogli operativi; essi costituiscono la partemaggiore delmateriale sopravvissuto. Qual è la loro peculiarità? Diamo uno sguardo a un foglio analogo di un grande “professionista” del tempo23: Antonio da Sangallo, di nove anni più giovane, fiorentino egli stesso, ma coinvolto nella costruzione di San Pietro dai tempi di Donato Bramante, e primo architetto dalla morte di Raffaello. Aveva memorizzato il progetto a cui lavorava in tutta la sua complessità, tanto da poter estrarre – conmanomirabilmente leggera – vedute parziali, per chiarire a sé stesso come si sarebbero viste le singole parti. Nel disegno, in alto a destra, si vede una sezione dell’innesto tra la tribuna sud e il deambulatorio, in cui l’orientamento della visione, da nord verso sud, è scelto in modo da rappresentare al meglio l’articolata struttura, come oggi potremmo fare al computer. È qui al lavoro un’intelligenza più combinatoria che genuinamente creativa: le singole forme sono disponibili nel codice degli “ordini”, si tratta di applicarle senza errori in tre dimensioni.Aciò si dedicò lo studio di Sangallo.
Confrontiamo un foglio di Michelangelo, di qualche anno più tardi, per il ricetto della Laurenziana24. Il tema principale è la scala. Essa viene schizzata in pianta, sezione e prospettiva, non distinte l’una dall’altra,ma inmodo frammentario, come il processo creativo richiedeva. Questa non è architettura virtuale che il disegnatore ha in mente e raffigura, ma un oggettomateriale – pietra o legno – che eglimette davanti a sé come se dovesse lavorarlo con lo scalpello. Laddove Sangallo cerca distanza, per chiarire la visione d’insieme, Michelangelo vuole contatto. Così il disegno diviene un equivalente del rapporto con la materia, quasi a compensare la rinuncia al lavoro materiale richiesta all’architetto. Tuttavia l’energia emanata dal foglio appare più spirituale che corporale, cioè, si esprime meno nel vigore della penna che segue la mano, che nell’intensità del processo creativo che ci coinvolge – “la mano che ubbidisce all’intelletto”25.
Che cosa ne risulta? Sangallo sviluppa strutture, in sé coerenti senza salti e universalmente applicabili26, Michelangelo crea oggetti, interessanti in sé; Sangallo applica regole, Michelangelo inventa forme. Qui si capisce ciò che Vasari, nel passo sempre ripreso dalla Vita di Michelangelo, esalta come la grande conquista degli anni fiorentini: il disegno architettonico come regno della libertà e dell’emancipazione da “ragione e regola”27. Non obbligato alla ripresa dalla natura (come sono scultori e pittori), ma neppure alla ripetizione di un canone quasi-naturale, l’architetto può produrre pure opere d’arte inmodo “assai diverso da quello che […] facevano gli uomini secondo il comune uso”28.
Se vedo bene, l’euforia di Vasari riflette, consapevolmente o no, uno dei pochimomenti anche soggettivamente felici nella carriera architettonica di Michelangelo29. Al 1526 – un anno prima della cacciata deiMedici da Firenze –, mentre Michelangelo lavorava con grande concentrazione al disegno della Laurenziana, risale uno scambio di lettere con Giulio de’ Medici, papa Clemente VII30. Michelangelo spedì da Firenze una serie di disegni di portali e Clemente li ammirò per quel che erano: pure opere d’arte31. Di fatto si tratta di fogli di emozionante bellezza, punti culminanti anche nell’arte del disegno michelangiolesco. A chi li osserva conoscendo il contesto potrebbero ricordare la produzione di un musicista che improvvisa sul suo strumento, incitato dall’applauso di un ascoltatore comprensivo. Il rapporto tra Michelangelo e Giulio sopravvisse anche alla successiva crisi dell’occupazione e conquista di Firenze da parte delle truppe papali. Michelangelo, il quale non si era potuto sottrarre al servizio come architetto militare della Repubblica, non fu punito, bensì doveva essere “carezzato”, come un animale domestico bello e prezioso, al di là del bene e delmale, per non interrompere il completamento delle tombe medicee32. In fondo entrambi, papa e artista, erano dei non-politici.
Questo cambiò con il trasferimento di Michelangelo a Roma, dove con Paolo III era salita al soglio pontificio una figura eminentemente politica. Ciò diede l’impronta alle committenze architettoniche nelle quali Michelangelo fu coinvolto. Nuovo era in primo luogo il bisogno di creare architetture rivolte verso l’esterno. Infatti – dopo il tentativo naufragato per la facciata di San Lorenzo – ciò che si lasciava alle spalle erano puri mondi interiori. Si poteva, e si può ancora oggi, attraversare la città di Firenze senza accorgersi dell’opera diMichelangelo architetto.
A Roma egli imparò a muoversi nello spazio aperto, più ancora, egli divenne l’araldo architettonico del potere rivendicato su questo spazio dal nuovo pontefice. Era il caso esemplare di una costellazione produttiva: il potenziale drammatico della sua architettura, cresciuto a Firenze emotivato in modo puramente soggettivo, si scontrò a Roma con un mondo di conflitti politico-religiosi concreti. Come architetto del Campidoglio Michelangelo finì per cadere nel campo di tensioni fra papa e Comune; ereditò palazzo Farnese nel momento di ascesa da residenza familiare a dimora principesca; mentre San Pietro si ergeva sul tappeto del dibattito sul ruolo della Chiesa papale dopo la Riforma. In tutti questi casi fu Michelangelo a mettere gli accenti decisivi; in fondo fu lui stesso a conquistare il potere sulla città33.
Ma non subito. I grandi lavori del primo periodo romano erano di pittura: il gigantesco affresco del Giudizio universale, la cappella Paolina a cui lavorò fino al 1550. A proposito della scultura, la vicenda attorno alla tomba di papa Giulio II non si era ancora conclusa; a ciò si aggiungevano incarichi occasionali come il busto del Bruto. Anche la collocazione delMarco Aurelio in Campidoglio, per la quale il papa coinvolse Michelangelo (riluttante, come al solito), era ancora una volta un lavoro da scultore. Se e da quando egli abbia pensato omeno a un’articolazione architettonica della piazza, e come questa si sarebbe vista, non è dato sapere. È sicuro solo che egli attorno alla metà degli anni quaranta disegnò lo scalone davanti al Palazzo Senatorio34. Fu il passo liberatore dal guscio mediceo alla dimensione aperta.
Il futuro di Michelangelo architetto si decise nel 1546: con la morte di Antonio da Sangallo il cantiere di San Pietro rimase orfano, e Michelangelo venne chiamato alla guida dell’impresa.
È noto e spesso ripetuto che egli fu costretto a impegolarsi nella lotta con la burocrazia della Fabbrica e il clan sangallesco trincerato in essa35. Non appare ancora discusso a sufficienza, invece, il mutamento simultaneo della sua architettura. Infatti è sorprendente comeMichelangelo – dopo la pausa degli anni trenta-quaranta – cercasse di arrangiarsi con quel repertorio di forme classiciste che dai tempi di Bramante e Sangallo aveva determinato il gusto architettonico romano, e dal quale egli stesso a Firenze si era allontanato in modo sempre più deciso.
Vorrei intendere questo nel senso di un processo di “socializzazione” che attraversa l’architettura diMichelangelo durante gli anni quaranta: dall’ermetico, e chiuso in sé, stile personale dell’epoca fiorentina alla discussione aperta tra libertà e ordine, innovazione e tradizione, che vediamo svolgersi nella facciata del palazzo dei Conservatori36 o nella tribuna di San Pietro. Ciò corrisponde allo scarto tra l’autosufficienza virtuosa dell’architetto mediceo e l’attività nella sfera politico-sociale. Di fatto, mentre a Firenze l’opera architettonica era diventata un affare più o meno privato fra artista e committente, a Roma bisognava presentarsi in pubblico e, allo stesso tempo, connettersi con un contesto storicamente prestabilito, sia semantico sia strutturale.
Le paraste e le colonne all’interno della tribuna di San Pietro non riprendono soltanto formalmente quelle dell’edificio bramantesco-sangallesco,ma ne riutilizzanomaterialmente alcune parti37. Nella ristrutturazione michelangiolesca esse fungono da sistema di riferimento per l’introduzione di dettagli innovativi, come le enormi finestre con le edicole a timpano spezzato spinte verso la trabeazione. Non si tratta più della sospensione di “ragione e regola” celebrata da Vasari, bensì della loro assimilazione nel mondo espressivo dell’artista.
Rivolto a un corrispondente a noi sconosciuto, Michelangelo spiegò in modo alquanto sibillino come si dovessero mutare gli adornamenti avendo mutato la pianta, e come ciò fosse connesso con la relazione tra lemembra del corpo umano38.
Vale a dire: esistono leggi superiori a quelle della scuola sangallesca.
La nuova varietà viene tenuta insieme dall’intensità incessante nel lavoro di dettaglio.Nel trattamento degli ordini all’esterno Michelangelo mise in mostra gradi di variazione: il corinzio delle grandi paraste rimane rigorosamente canonico, il dorico viene appena accennato nelle “guttae” delle nicchie inferiori che solo lontanamente ricordano le forme classiche.
Tra loro si collocano come genere intermedio le colonne ioniche con i loro capitelli “alla michelangiolesca”, riconoscibili dai festoni appesi alle volute.
Al cambiamento di stile corrisponde unmutamento delle motivazioni interiori: tale mutamento tocca – senza per questo coincidere – quello di papa Farnese, convertito da Saulo a Paolo.
Anche questo simanifesta così chiaramente nel caso di San Pietro. Ciò che aleggiava davanti a Michelangelo si evince dalla sua polemica contro il modello di Sangallo, in principio approvato dal papa39. Michelangelo lo trovava buio, confuso, gonfiato e ripartito in compartimenti inutili; le implicazioni di una critica “dissimulata” alla condizione della Chiesa romana sono difficili da ignorare. Il suo ideale personale è raccolto, in una sua lettera, dalla celebre formula “chiaro e schietto, luminoso e isolato attorno”40. Quindi una costruzione semplice, ben percepibile, chiaramente circoscritta, piena di luce e libera da aggiunte.
Che la questione per lui andasse oltre la pura estetica è percepibile da lettere più tarde (a Vasari, al nipote Leonardo, al duca di Firenze), le quali parlano degli obblighi verso San Pietro che lo costringevano a rimanere a Roma, lasciando sullo sfondo tutti gli altri incarichi41. Traspaiono sensi di colpa e timori di fallimento: minacciato dalla morte, doveva mettere a sicuro la propria opera, rispondendo in prima persona; sciuparla sarebbe stata una sventura, una vergogna e “un gran peccato”42. Entra qui in gioco la personalità religiosa di Michelangelo, e non sembra troppo audace intendere quella formula (“chiaro, schietto, luminoso”) come visione di un nuovo tempio cristiano, nel quale il fedele avrebbe potuto incontrare Dio conscio della propria responsabilità, libero da legami tradizionali e non più bisognoso di mediazione da parte di gerarchie ecclesiastiche. Se questa era l’idea, lui solo sarebbe stato chiamato a realizzarla, salvando la chiesa di Pietro dallemani dei “ladri” e degli incapaci, quali Sangallo e la sua gente43. Non vide nessun successore, e non fece niente per trovarlo. Anni dopo, gli si presentò un’ultima opportunità di realizzare, per i fiorentini a Roma, una chiesa secondo le proprie idee; in essa egli stesso avrebbe dovuto essere sepolto. Che pure questa fosse un’utopia lo dovette capire presto.
Ci avviciniamo con questo all’ultimo e, a me pare, più difficile capitolo del suo percorso: l’opera tarda. Già il fenomeno come tale lascia perplessi. L’ottantaquattrenne, spesso non sano, piegato sotto l’immenso peso della guida di San Pietro, che egli riusciva a malapena a gestire per mezzo di mediatori, si caricò di quattro altre grandi imprese e concepì, nel corso dei cinque anni che aveva ancora da vivere, le sue più singolari architetture: San Giovanni dei Fiorentini, la cappella Sforza a Santa Maria Maggiore, Santa Maria degli Angeli nelle terme di Diocleziano e porta Pia; come quinta si iniziò, un anno prima della sua morte, la trasformazione del Campidoglio secondo i suoi disegni. Non poteva più negare che, nel frattempo, l’architettura fosse diventata la sua “professione”. Ma chi avrebbe avuto da ridire se egli a questo punto avesse rifiutato nuovi incarichi?
Non lo fece; al contrario, egli attaccò con decisione tutti questi lavori e cercò di portarli più avanti possibile, e nel tempo più breve. Quali erano i suoi motivi?
Nel 1559, quando iniziò questo ultimo periodo di attività, fu eletto al soglio pontificio Pio IV, papa Medici, milanese. Tre di questi lavori furono avviati su sua diretta commissione, negli altri egli fu forse coinvolto in modo indiretto44. Non sembra esagerato sostenere che dobbiamo a quest’uomo sobrio ed energico l’esistenza dell’opera architettonica tarda di Michelangelo, benché sembri che in privato il suo gusto tendesse piuttosto al “Rinascimento tardo” superficialmente antichizzante di Pirro Ligorio. D’altro canto si trattava di un nuovo “papa politico”, il suo obiettivo dichiarato era la promozione della Controriforma, e in questo egli pensava di poter contare sul vecchio Buonarroti. Ma l’artista reagì diversamente da come aveva fatto venti anni addietro. La prima cosa che salta all’occhio dal suo lavoro tardo è la rinnovata concentrazione sull’architettura interna (fatta eccezione per porta Pia). Essa contrassegna il ritiro del vecchio maestro dalla sfera pubblica, revocando l’intesa (vera o presunta) con le personalità di potere.
Non ne condivideva più i fini. L’isolamento crescente del Maestro simostra al più tardi con il naufragio del progetto per San Giovanni, suo ultimo tentativo di uscire vincitore dal rapporto con i grandi del suo tempo (in questo caso, il duca Medici che egli stesso aveva messo in gioco). Rimase fedele alle imprese pubbliche di lunga durata iniziate per il papa Farnese, in Campidoglio e nella basilica vaticana. Ma quel che intraprese da allora in poi furono opere individuali. Esse lo mostrano nuovamente su una strada propria.
La difficoltà maggiore nell’interpretazione di questi lavori risiede nella loro eterogeneità. Essi non sono riconducibili a uno “stile tardo”, più ancora, non hanno in comune nessuno stile che possa definirli. Potremmo piuttosto parlare di una serie di tentativi finalizzati a sondare i limiti di fattibilità nell’ambito dei singoli generi. Le incisioni di Valérie Regnard tratte dal modello di Tiberio Calcagni per San Giovanni dei Fiorentini (cat. 80) dimostrano inmodo impressionante la rinuncia a qualsiasi effetto esterno. L’architettura è piena di finezze, ma concentrata tutta all’interno, uno spazio puramente centrale, rotondo e pacifico in sé. Si può assumerlo, lo ripeto, come documento di una religiosità rivolta verso l’interno, ritirata dal mondo, che dominò il pensiero del vecchio Michelangelo e lasciò la sua impronta anche nei suoi pochi tardi lavori di figura. D’altra parte esistono disegni che rivelano ben altre ambizioni45. Tutti imotivi di piante centralizzate dati dalla storia – rotonde, ottagoni, cerchi nel quadrato, deambulatori, cappelle angolari, croci greche e di sant’Andrea – dovevano compenetrarsi e dissolversi in un’unità più alta. Ai mercanti fiorentiniMichelangelo prometteva che il suo edificio avrebbe eclissato tutto ciò che “Romani e Greci mai nei tempi loro feciono”46. Doveva sorgere, quindi, qualcosa di assolutamente nuovo, un’architettura che fin allora non era esistita.
Un anno dopo Michelangelo disegnò la cappella Sforza: il contrario di una cappella laterale, secondo l’uso romano, senza precedenti nell’architettura dell’epoca e, in questo, comparabile ai disegni per San Giovanni47. Tuttavia, in questo caso – a giudicare dai pochi schizzi conservati – il processo di ideazione seguì un percorso inverso: dal semplice al complicato, da uno spazio chiuso a una struttura aperta, stranamente frazionata, convenzionale nei dettagli, ma audace fino all’incomprensibile nella concezione spaziale; in ultima istanza un pezzo di “architettura assoluta” come a suo tempo era stato il ricetto della Laurenziana, ma liberato dalla rigidità monolitica del lavoro fiorentino. Sembra quasi di sentir rispondere il tardo Beethoven a un encomio per un suo lavoro giovanile: “A quel tempo non sapevo comporre. Adesso, penso, di saperlo fare”48. Nello stesso anno però, nell’adattamento di Santa Maria degli Angeli, invece di trasformare la sala delle terme imperiali in una chiesa cristiana, come in un trionfo sull’antico (ciò che più tardi avrebbe fatto Vanvitelli), Michelangelo la lasciò praticamente immutata, rinunciando sovranamente non solo all’architettura dell’esterno, ma all’architettura in toto. Doveva restare solo la nuda dimensione dell’edificio romano49.
Non si trattava di giochimentali bensì di progetti concreti, che Michelangelo avrebbe voluto veder sorgere; il suo appello tanto urgente ai fiorentini evidenzia quanto gli stesse a cuore la realizzazione di quella chiesa50. Bisogna ricordare, a questo punto, che l’opera architettonica di Michelangelo, in tutta la ricchezza nella quale si era sviluppata fino ad allora, consisteva in edifici ristretti da vincoli, frammentati e non giunti a compimento; la stessa Laurenziana, culmine del periodo fiorentino, era rimasta incompleta. Non gli era stato concesso (come ad altri architetti del tempo) di realizzare l’edificio perfetto, iniziato dalle fondamenta e portato a termine. In retrospettiva, il suo operato architettonico poteva apparirgli facilmente come una catena di fallimenti, ovvero di impegni non ancora assolti di fronte ai committenti, al mondo e alle sue attese e, in fine, nel caso di San Pietro, di fronte a Dio. Quando una volta della nuova basilica vaticana venne eseguita in modo erroneo, senza seguire le sue istruzioni, egli avrebbe voluto “morire di vergogna”51. Fallire è disonore: Vasari tocca questo punto, forse inavvertitamente, nel contesto della distruzione dei disegni avvenuta poco prima della morte. “Lui voleva – scrive – non apparire se non perfetto”52. Suona come vanità d’artista, ma il vero motivo è morale: sentirsi inadeguati di fronte al proprio compito.
Dal rogo vennero risparmiati alcuni fogli di lavoro in grande formato degli ultimi anni, tre per San Giovanni e tre per porta Pia53. Forse essi erano pensati come una sorta di lascito. Non sono “perfetti” nel senso di disegni finiti, ma in quanto registrano – con le tecniche più raffinate – il processo di ideazione, accumulando e, allo stesso tempo, trascendendo tutti i motivi apparsi nel corso del lavoro, fenomeno questo che osserviamo anche nell’ultima opera scultorea, la Pietà Rondanini54. Con ciò i disegni si collocano quasi al posto della costruzione, anzi la superano nella propria sostanza architettonica, salvando la pienezza delle idee dalla necessariamente riduttiva realizzazione materiale, non come progetti fissati nel disegno o nel modello, bensì come work in progress (cat. 94).
Nel caso di porta Pia, come già in quello di San Giovanni, questi disegni sarebbero stati dati al committente così com’erano, lasciando a lui la scelta fra le alternative55: comportamento contrastante con quello consueto di Michelangelo, sempre avveduto a mantenere il controllo sulle proprie idee. Forse si può intendere ciò come indizio che per il vecchio maestro l’intesa sulle finalità del progetto era diventatameno importante del proprio operare. Creatività in sé, il produrre stesso diveniva ultimo fine del lavoro artistico56. E qui risiede, se non sbaglio, la più profonda ragione della svolta definitiva verso l’architettura, compiuta da Michelangelo negli ultimi anni. Infatti, alla fine, tutta l’arte figurativa rimaneva imitazione, rimandando a una realtà nota. Scolpire o dipingere significava in ogni caso “dire” qualcosa, comunicare con i contemporanei riferendosi a contenuti.
E proprio questo sembra essere diventato un problema per il vecchio maestro, il cui Giudizio universale, oltre i consueti encomi, aveva attirato anche critichemassicce e non infondate57.
Già la celebre quartina con cui Michelangelo aveva respinto il complimento obbligato per le sculture “parlanti” (e quindi quasi viventi) della Sagrestia Nuova accenna a un rifiuto di comunicazione: “Caro m’è ’l sonno – egli fece rispondere alla figura della Notte – e più l’esser di sasso,mentre che ’l danno e la vergogna dura”58. Non poter parlare, non dover parlare: a questo ideale, infatti, si avvicina più delle altre arti l’architettura.
Così non meraviglia che l’ultima creazione architettonica di Michelangelo abbia resistito fino a oggi a qualsiasi tentativo di strapparle un qualsivoglia “messaggio”59. Ancora una volta, il compito è politico, e Michelangelo non si sottrae a esso, ma lo tratta a un livello d’astrazione che impedisce qualsiasi comprensione diretta, relativa a contenuti. Vorrei affrontare solo due aspetti che, a quanto vedo, non sono stati ancora discussi nella letteratura.
Il primo riguarda la scala urbana60. Porta Pia è una porta della città, ma ciò che Michelangelo ha costruito o quantomeno disegnato è soltanto il fronte interno del suo impianto, vale a dire il prospetto terminale del viale sul crinale del Quirinale voluto, e realizzato con stupefacente rapidità, da Pio IV. Ora, il punto di vista all’estremità opposta di “via Pia” era costituita da un capolavoro della scultura antica, il gruppo dei Dioscuri, secondo una vecchia tradizione frutto di un concorso tra Fidia e Prassitele61. Possiamo credere che Michelangelo non abbia visto in ciò un “Paragone”? In tal caso, l’opera conterrebbe due antitesi: moderno versus antico, e architettura versus scultura.
Vista così, la porta diMichelangelo rappresenterebbe una specie di “architettura essenziale”, depurata da qualsiasi reminiscenza organico-mimetica: piatti strati di pietra, spigoli affilati, colonne completamente escluse, capitelli ridotti a segni; solo il mascherone in chiave d’arco si sporge in modo plastico, accentuando la tettonica astratta dell’insieme. L’elemento figurativo richiesto, uno stemma papale presentato da Angeli (AngeloMedici), fu lasciato daMichelangelo a Jacopo Del Duca, e pertanto escluso dal suo ambito d’invenzione.
Questo sottolinea – ed è il secondo punto – il carattere nonparlante della sua architettura.Anziché “leggerla”, si dovrebbe insistere su quello che essa non dice. Ciò che il compito richiedeva, e che il papa senza dubbio si attendeva, era l’arco trionfale, il più triviale e il più “parlante” di tutti imodelli di porta.
Qualsiasi architetto glielo avrebbe fornito, Michelangelo no.
Anzi, egli eliminò nel corso della sua elaborazione l’arco in assoluto.
Lo sostituì con un’apertura a piattabanda con cornice rustica, sopra la quale appare, come una eco, quasi una parodia, l’arco ribassato. Così viene trattato anche il repertorio rimanente: segmentato, spezzato, rimescolato come materiale onirico; i dettagli sono alienati, il tutto assurdo, incomprensibile, eppure – come Jakob Burckhardt formulò già nel suo Cicerone – eseguito “con tutta arbitrarietà seguendo una legge interiore che il maestro crea per sé stesso”62. Quindi, non più conciliazione con la tradizione,ma neanche ricorso alle “licenze” degli annimedicei, bensì autonomia assoluta.
Possiamo forse fare ancora un passo avanti cercando l’intenzione dietro l’arbitrio. Michelangelo e Architettura: è una storia lunga. Architettura non fu il medium dei suoi esordi artistici, si può dire che non fu la sua “lingua madre”. L’aveva imparata e aveva calibrato il suo rapporto con essa di fase in fase.
Così porta Pia, alla fine di questo percorso, assume i tratti di un dramma satirico: come se il maestro, ironizzando sul tema dato, avesse voluto manifestare la sua distanza interiore da questa ultima comparsa in scena, desiderata dal papa. Il trattamento del lessico classico che sembra beffarsi di tutte le “buone regole” segnala uno scetticismo assoluto nei confronti dei contenuti ascrittigli dalla convenzione.Non si allude a nulla di consueto, nessun proclama o suggerimento; semmai, torna alla mente il sarcasmo di certe frasi, a volte sbalorditive e non sempre sottili, che si incontra leggendo le lettere del Maestro.
In effetti, è proprio in questa ultima, più astratta ed enigmatica opera che appare in modo singolare la personalità del vecchio Buonarroti; anzi, è questa forse l’architettura più “personale” che un maestro classico si siamai permesso di realizzare.
Se potesse esistere qualcosa come un autoritratto architettonico – ovvero l’autorappresentazione di un artista in un medium non-figurativo – dovremmo cercarla qui.
Questo saggio costituisce la versione italiana del testo in lingua tedesca letto alla conferenza d’apertura del convegno internazionale, Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova e Golo Maurer, svoltosi a Firenze presso la sede del Kunsthistorisches Institut, dal 29 al 31 gennaio 2009. L’autore esprime un particolare ringraziamento a Vitale Zanchettin per la preziosa collaborazione alla stesura della versione italiana; il curatore di questo volume è profondamente grato agli organizzatori del convegno, Alessandro Nova e Golo Maurer, per avere generosamente concesso la pubblicazione in questa sede della versione italiana; la versione originale in lingua tedesca sarà pubblicata negli atti del convegno in corso di stampa.
SAN GIOVANNI DEI FIORENTINI
Mauro Mussolin
La nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai; et a me ne dolse infinitamente. Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria, perché si vegga che questo uomo [Michelangelo] cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all’arte.
Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo1
Celeberrimi per annoverare tra le più straordinarie soluzioni a pianta centrale del Cinquecento, i progetti per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini rappresentarono uno dei più importanti banchi di prova su cui simisurarono, fianco a fianco o nel tempo, imigliori architetti dell’epoca. Il primo tentativo di ricostruire una nuova chiesa-oratorio per la comunità dei fiorentini a Roma data al 1508, quando il vecchio edificio del 1484 fu atterrato in previsione del grande piano di sistemazione urbana di via Giulia e del palazzo dei Tribunali intrapreso da Donato Bramante su commissione di Giulio II (1503-1513) e per il quale lo stesso architetto fornì un disegno di pianta a cui tuttavia non fu data esecuzione2. Il successivo pontificato di Leone X de’ Medici (1513-1521), subito caratterizzato da una politica filotoscana, assicurò una solida stabilità giuridica e finanziaria alla comunità dei fiorentini in Roma.
Il 12 agosto 1513 fu nominata la commissione che avrebbe dovuto ricercare l’area sulla quale costruire la chiesa e nel 1515 fu ufficialmente istituito il consolato della Nazione fiorentina.
Il luogo era un plesso urbano di fondamentale importanza economica e strategica, il cosiddetto “piccolo tridente”, un trivio di strade convergente su piazza di ponte Sant’Angelo, popolato da banchieri, mercanti e funzionari dell’amministrazione pontificia, per lo più di origine toscana. Lì, al termine dell’asse orientale del trivio, sopra le sponde del Tevere sarebbe stata innalzata la piattaforma di fondazione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Tre disegni a pianta centrale di mano di Giuliano da Sangallo sono stati riconosciuti come progetti per la realizzanda chiesa e la loro datazione può verosimilmente farsi risalire a questi primi anni di pontificato leonino, tra 1513 e 15163. Giorgio Vasari colloca al 1517 la data del famoso “concorso” per il progetto della chiesa voluta dal papa, la cui regia, assai probabilmente affidata a Raffaello, ebbe modo di valersi di protagonisti del calibro di Giulio Romano, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane e Jacopo Sansovino4. La varietà di proposte planimetriche di cui si correda la storia edilizia della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini documenta in maniera esemplare quella che, con felice formulazione, è stata definita la “tendenza linguistica medicea” presente nell’architettura del primo Rinascimento romano, caratterizzata proprio da una molteplicità di “diversemaniere”, individuate da grafie autonome e personali, ma accomunate dalla volontà di definire uno stile di ambizione universale, veicolo di un linguaggio antiquario, elegante e curiale, specchio della politica artistica del pontificato leonino5. Il 10 gennaio 1519 il papa autorizzava l’erezione della chiesa e il successivo 29 gennaio, con la bolla Intenta iugiter, elevava la chiesa a parrocchia dei fiorentini a Roma, con fonte battesimale, campanile e cimitero, garantendole privilegi e indulgenze. Il 31 ottobre dello stesso anno, il cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII), in qualità di arcive scovo di Firenze, benediceva la posa della prima pietra. Nonostante le ingenti donazioni, gli sforzi per dare compimento alla chiesa costituiscono lo specchio dei progressi e delle difficoltà incontrate dalla comunità tosco-fiorentina nella Roma dei papi. Resta tuttavia fondamentale comprendere come le attese del pontefice fossero quelle di fare della chiesa di San Giovanni il luogo in cui avrebbero dovuto “essere registrate le scansioni sacramentali della vita di tutti i Fiorentini residenti a Roma”, ai cui consoli e operai venne demandata ogni questione riguardante la fabbrica6. Il continuo riferimento di questi progetti a una planimetria centralizzante e la loro continua citazione di elementi tratti dal battistero fiorentino non furono soltanto una indicazione di tipo formale di ideale fratellanza fra le due città, ma furono mossi e giustificati da una motivazione liturgica e identitaria: l’ecclesia florentinorum, edificio simbolo della comunità, elevato in posizione ben visibile a sbalzo sull’ansa del fiume e in diretto confronto visivo con un altro erigendo edificio, l’ecclesia universalis di San Pietro7.
Tra 1518 e 1521, ai citati artisti coinvolti nel concorso può essere attribuita la serie omogenea di progetti a pianta centrale, con dimensioni simili pari a circa 220 palmi (pocomeno di cinquantametri), caratterizzati dalla fusione tra il tema spaziale del Pantheon e quello del battistero di San Giovanni a Firenze, secondo un connubio probabilmente dettato dallo stesso pontefice il quale fu sempre animato dall’idea del sodalizio fra Roma e Firenze e del gemellaggio tra Tevere e Arno8. L’assegnazione dell’incarico fu vinta da Sansovino il quale formulò una proposta planimetrica ancora assai discussa dalla critica, ipoteticamente identificabile, sulla base del contraddittorio racconto vasariano, con una pianta centrale avente “su’ quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna, e nel mezzo una maggiore tribuna”9. Nonostante i dubbi che permangono sull’aspetto di tale progetto, la planimetria sembra derivare soprattutto dalle sperimentazioni bramantesche derivate dal tema del quincunx, ovvero una pianta quadrata con cappelle angolari cupolate e cupola centrale. All’inizio del 1521 va registrato l’allontanamento dal cantiere di Sansovino al cui posto subentrò Antonio da Sangallo il Giovane; a quest’ultimo si deve la variazione del precedente schema a pianta centrale per uno longitudinale di tipo basilicale10, sulla base del quale si diede inizio alle costosissime e assai problematiche fondazioni sul letto del fiume che tanta ammirazione, ma anche tanto biasimo, suscitarono nei contemporanei, come pungentemente riferito da Vasari nella Vita di Antonio il Giovane:
Avendo intanto la Nazione fiorentina col disegno di Iacopo Sansovino cominciata in strada Giulia, dietro a Banchi, la chiesa loro, si era nel porla messa troppo dentro nel fiume: perché, essendo a ciò stretti dalla necessità, spesono dodici mila scudi in un fondamento in acqua, […]. perché non dovevano mai permettere che gli architetti fondassono una chiesa sì grande in un fiume tanto terribile, per acquistare venti braccia di lunghezza, e gittare in un fondamento tante migliaia di scudi, per avere a combattere con quel fiume in eterno: potendo massimamente far venire sopra terra quella chiesa col tirarsi innanzi e col darle un’altra forma; e, che è più, potendo quasi con lamedesima spesa darle fine: e se confidarono nelle ricchezze de’mercanti di quella Nazione, si è poi veduto col tempo quanto fusse cotal speranza fallace: perché in tanti anni che tennero il papato Leone e Clemente de’ Medici e Giulio terzo e Marcello, ancor che vivesse pochissimo; i quali furono del dominio fiorentino; con la grandezza di tanti cardinali e con le ricchezze di tanti mercatanti, si è rimaso e si sta ora nel medesimo termine che dal nostro Sangallo fu lasciato.11
Scrivendo nel 1568, Vasari ricordava bene come, tra enormi costi e immani difficoltà tecniche, ancora a quella data la piattaforma sangallesca e alcuni tratti del perimetromurario della chiesa costituivano le uniche parti della costruzione a essere state condotte12. In due ulteriori passi tratti dalla Vita di Michelangelo, lo stesso Vasari fornisce le importanti informazioni che riguardano il doppio coinvolgimento di Buonarroti nella
vicenda. Il primo risale al 1550, sotto il papato del toscano Giulio III Ciocchi del Monte (1550-1555):
Era messer Bindo Altoviti, allora consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene far condurre questa opera nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa, e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa. Piacque questo amesser Bindo, ed essendomolto famigliare del papa, gliene ragionò caldamente; mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella, che Sua Santità faceva fare in Montorio [si tratta della cappella del Monte in San Pietro in Montorio], l’avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini ed aggiugnendo, che ciò sarebbe cagione che, con questa occasione e sprone, la nazione farebbe spesa tale che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante.13
Michelangelo fu effettivamenete coinvolto dal papa, come testimonia una lettera autografa del Maestro indirizzata il primo agosto 1550 allo stesso Vasari e da questi pubblicata nella Vita: “iermactina, sendo il Papa andato a decto Montorio, mandò per me. […] Ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, e all’ultimo mi disse che era resoluto non volere mecter decte sepolture in su quelmontema nella chiesa de’ Fiorentini, e richiesemi di parere e di disegnio, e io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo decta chiesa s’abbi a finire”14. La trascrizione della lettera da parte di Vasari serviva a sottolineare, sia il fatto che le sepolture dei famigliari del papa avrebbero indotto la nazione fiorentina a innescare la richiesta di patronati sulle cappelle della chiesa, sia soprattutto che la fama e la virtù morale di Michelangelo avrebbero agito come stimolo per il completamento della chiesa e per la conduzione esemplare del cantiere15. Nonostante gli interessamenti del Maestro a questa vicenda, il progetto cadde in un nulla di fatto e questi, in una successiva lettera a Vasari parimenti riportata dal biografo, ebbe a scrivere una sagace nota contro l’intrigante e faccendone personaggio della corte pontificia, Pier Giovanni Aliotti vescovo di Forlì, spregiativamente chiamato “monsignor Tantecose”, che si era frapposto nella vicenda: “Io, per non combactere con chi dà lemosse a’ venti, mi son tirato a dietro, perché, sendo uomo leggieri, non vorrei essere trasportato in qualchemachia. Basta, che nella chiesa de’ Fiorentini nonmi par s’abbi più a pensare”16.
Christoph Frommel, sulla base delle ipotesi di Klaus Schwager17, ha recentemente precisato come i tre progetti simili per una chiesa a pianta ellittica, già attribuiti a Giovanni Antonio Dosio, ad Antonio Labacco e persino a Tiberio Calcagni (fortemente derivati dal primo progetto di Antonio da Sangallo a pianta circolare per la chiesa dei Fiorentini pubblicato da Labacco nel 1552)18, rappresentino invece le proposte progettuali di Jacopo Barozzi da Vignola per lo stesso edificio19. Databili intorno al 1550, cioè in contemporanea con il primo coinvolgimento di Michelangelo nella vicenda, secondo lo studioso tali disegni daterebbero all’estate del 1550, coincidente con l’arrivo di Vignola a Roma da Bologna, appena prima della commissione papale di villa Giulia.
Il secondo coinvolgimento di Michelangelo nel completamento della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini data al 1559. In quest’anno la Nazione fiorentina riprese l’idea di assegnare l’incarico all’ottantaquattrenne Maestro. L’iniziale riluttanza dell’artista a condurre l’opera, documentata dalla lettera di Michelangelo al nipote Leonardo del 15 luglio 155920, fu sciolta solo con il coinvolgimento del duca Cosimo I de’Medici quale finanziatore dell’impresa, approvata il succesivo 10 agosto. Il biografo Ascanio Condivi ricorda tra le righe che solo a prezzo di un continuo “ricusare”, ovvero negarsi e farsi desiderare, fu possibile a Michelangelo costringere i committenti e persino i papi a riconoscergli, attraverso privilegi e motu propri, uno status di autonomia artistica, responsabilità gestionale e controllo finanziario che non ebbe precedenti21. Il 26 ottobre, il duca scriveva a Michelangelo che l’idea di un suo progetto gli era “piaciuta infinitamente” e affidava al “suo miglior giudizio” ogni decisione sulla fabbrica22. A sua volta Michelangelo cominicava al duca di aver “facti di già più disegni convenienti al sito chem’ànno dato per tale opera i sopra decti deputati. Loro come uomini di grande ingegnio e di g[i]udicio, n’ànno electo uno, el quale in verità m’è parso el più onorevole; el quale si farà ritrare e disegniare più nectamente ch’io non ò potuto per la vechieza, e manderassi alla inlustrissima Vostra Signoria: e quello si seguirà che a quella parrà”23. Le vicende del fitto carteggio tra Michelangelo, Cosimo e i deputati della Nazione fiorentina sono ben compendiate dal racconto vasariano che vale la pena trascrivere:
Fu risoluto che dessi ordine sopra i fondamenti vecchi a qualche cosa di nuovo; e finalmente creorono tre sopra questa cura di questa fabbrica, che fu Francesco Bandini, Uberto Unbaldini e Tommaso de’ Bardi, e’ quali richiesono Michelagnolo di disegno, raccomandandosegli sì perché era vergogna della nazione avere gettato via tanti danari, né avermai profittato niente, che, se la virtù sua non gli giovava a finarla, non avevono ricorso alcuno. Promesse loro con tanta amorevolezza di farlo, quanto cosa e’ facessi mai prima, perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio, poi per l’amor della nazione, qual sempre amò. […] Michelagnolo dunque, per le cose d’architettura, non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio [Calcagni] perché era molto gentile e discreto. Perciò desiderando servirsi di quello in tale impresa, gl’impose che e’ levassi la pianta del sito della detta chiesa; la quale levata e portata subito aMichelagnolo, in questo tempo che non si pensava che facessi niente, fece intendere per Tiberio che gli serviti, e finalmente mostrò loro cinque piante di tempii bellissimi; che viste da loro, si meravigliorono; e disse loro che scegliessino una a modo loro: e’ quali non volendo farlo, riportandosene al suo giudizio, volse che si risolvessino pure a modo loro. Onde tutti d’uno stesso volere ne presono una più ricca alla quale risolutosi, disse loro Michelagnolo che, se conducevano a fine quel disegno, che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono una cosa tale: parole, che né prima né poi usciron mai di bocca a Michelagnolo perché era modestissimo.24
Il passo vasariano continua descrivendo con grande efficacia i progressi del progetto, che dai disegni, approda all’elaborazio ne di un primo modello in creta e poi alla realizzazione finale del modello ligneo attraverso istruzioni precise date al fidato Tiberio Calcagni, poiché “non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio perché era molto gentile e discreto”25. L’apprezzamento del progetto finale inviato daMichelangelo al duca tramite Tiberio nel marzo del 1560 è documentato nella risposta del 30 aprile: “il disegno vostro per la chiesa della Natione ci ha innamorato sì, che ci dispiace di non vederlo in opera perfetta, et per ornamento et fama della città nostra, et anco per vostra eterna memoria, che ben la meritate”26. Una volta tornato a Roma, a Tiberio fu affidato il compito di sovrintendente della fabbrica di San Giovanni fino al 1562, quando venne sostituito da maestro Guido, sicuramente quel Guidetto Guidetti operante nel cantiere della facciata di palazzo dei Conservatori in Campidoglio.
Da questo anno, dopo aver speso i 5000 scudi in opere di fondazioni, poco o nulla si sarebbe realizzato del progetto michelagiolesco, così la fabbrica venne nuovamente abbandonata fino al 1583, quando il cantiere fu affidato a Giacomo della Porta che riprese i progetti a schema basilicale di Sangallo dando avvio alle navate della chiesa, il cui transetto, coro e cupola sarebbero stati innalzati da Carlo Maderno a partire dal 1608, mentre la facciata sarebbe stata terminata addirittura nel 1736 con un progetto di Alessandro Galilei27.
Con le “cinque piante di tempii bellissimi” citate da Vasari, Michelangelo segnava il ritorno allo schema centrico che aveva caratterizzato i primi progetti per la chiesa. Sulla base della prima identificazione di Dagobert Frey28, la critica ritiene concordemente che tre di queste originarie proposte corrispondano ai fogli di Casa Buonarroti 120 A recto (cat. 77; Corpus 610r), 121 A recto (Corpus 609r), 124 A recto (cat. 78; Corpus 612r). A essi possono essere aggiunti i fogli della stessa collezione 123 A recto (cat. 76; Corpus 608r) e 36 A recto (cat. 79; Corpus 611r). Michael Hirst ha suggerito saggiamente di resistere alla tentazione di volere allineare in stretta successione cronologica questi tre progetti, dalmomento che essi furono mostrati insieme ai deputati della Fabbrica della chiesa e pertanto considerati varianti ugualmente plausibili: essi appartengono infatti a un preciso genere di disegni di architettura, quelli dimostrativi, eseguiti per facilitare la comprensione delle convenzioni grafiche di rappresentazione ortogonale29.
Sviluppando la tesi di Hirst, si può addirittura suggerire che le cinque varianti iniziali di Michelangelo possano essere state sviluppate pressoché insieme, secondo ipotesi planimetriche differenti (restano oggi quelle relative al cerchio, all’ottagono e al quadrato), le quali potrebbero essere state via via perfezionate, senza un ordine preciso, con la speranza di potere indirizzare la committenza verso la soluzione ritenuta migliore, l’ultima della serie corrispondente al foglio 124 A recto (cat. 78). In effetti il primo dei tre disegni, il 121 A recto, basato su una pianta circolare con deambulatorio interrotto dai vestiboli di ingresso in corrispondenza degli assi ortogonali, mostra un progetto molto acerbo che tuttavia trova la sua ragione d’essere proprio nell’enfasi posta sulla figura del cerchio: è la prima e più ovvia proposta fatta ai committenti, basata sul più semplice schema circolare derivato dal Pantheon, sul quale si erano affaticati Raffaello, Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane intorno al 1518, a cui Michelangelo risponde con un modello spazialmente più complesso derivato piuttosto da architetture paleocristiane romane, quali Santa Costanza e Santo Stefano Rotondo: la struttura al centro della pianta è stata correttamente individuata da Michael Hirst come un fonte battesimale sormontato da un baldacchino, perfettamente congruo con le funzioni liturgiche della chiesa. La seconda variante proposta dal foglio 120 A recto (cat. 77), basato su uno schema a ottagono irregolare con deambulatorio ed esedre semicircolari in corrispondenza degli assi diagonali, sembra invece evocare il senso dell’identità nazionale dei committenti, alludendo alle forme del Battistero fiorentino, che avrebbero verosimilmente implicato una cupola ottagonale a spicchi di matrice fortemente quattrocentesca: le linee diagonali che tanto hanno fatto pensare alle architetture di Francesco Borromini sono un efficace, ma impreciso espediente empirico adottato dal vecchiomaestro per costruire velocemente un ottagono il più possibile simmetrico (questa considerazione fa cadere definitivamente ogni ipotesi precedentemente fatta riguardo a una volta a costoloni incrociati). Il terzo foglio 124 A recto (cat. 78) infine, basato su un impianto circolare con deambulatorio racchiuso in un quadrato con cappelle diagonali e vestiboli di ingresso, rappresenta delle tre proposte certamente quella più matura. In questo caso si tratta di una elaborazione del michelangiolesco schema centrale di San Pietro “ruotato su un asse diagonale, e con gli angoli mozzati”30, che fu ovviamente preferito dai deputati della Fabbrica.
Inoltre va aggiunto che il foglio 123 A recto (cat. 76) rappresenta un disegno parziale di una pianta centrale a quincunx, certamente memore del progetto di Sansovino sul cui vano centrale si interseca una struttura con colonne, forse un fonte con baldacchino, successivamente coperto da biacca.
Mentre il 36 A recto (cat. 79) rappresenta uno studio in dettaglio di una sezione del deambulatorio corrispondente al tratto fra le cappelle laterali derivato dal 124 A recto31.
Notando come Michelangelo fosse stato già coinvolto nel progetto della chiesa nel 1550, Amelio Fara ha sottolineato che a ciò si deve la velocità con cui l’artista fornì i suoi cinque progetti.
Una serie di altri fogli perduti dovette documentare la rapida definizione del progetto finale che può essere così brevemente riassunta: una prima fase ideativa in cui vennero tracciate le “cinque piante”, tra 10 agosto e primo novembre; una seconda fase esecutiva per realizzare il progetto planimetrico presentato al duca il 2 dicembre e da questi approvato il 22 dello stesso mese; una terza fase di perfezionamento condotta fino al 5 marzo 1560, quando, tramite Tiberio, al duca vennero presentate non soltanto la pianta, ma verosimilmente disegni di alzato e sezione, definitivamente approvati dal committente il 30 aprile 1560. A quest’ultima fase corrispose l’esecuzione del modello ligneo esecutivo della chiesa:
E così dato la pianta a Tiberio, che la riducessi netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di dentro, e che ne facessi un modello di terra, insegnandogli il modo di condurlo che stessi in piedi. In dieci giornio condusse Tiberio il modello di otto palmi; del quale, piaciuto assai a tutta la nazione, ne feciono poi fare unmodello in legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara, quanto tempio nessuno che si sia mai visto, sì per bellezza, ricchezza, e gran varietà sua.32
La pianta nel foglio 3185 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi è stata a lungo ritenuta il disegno in pulito condotto da Tiberio per preparare il modello, mentre probabilmente costituisce una delle numerose derivazioni. I documenti attestano la presenza delmodello in chiesa fino al 1720, quando venne distrutto. Il suo aspetto è noto attraverso numerose rappresentazioni, tra cui l’incisione in prospettiva di Jacques Le Mercier pubblicata nel 1607, illustrante molto realisticamente il plastico sezionato sopra un piano sostenuto da cavalletti, e le due incisioni in proiezione ortogonale della pianta e del prospetto-sezione eseguite da Valérian Regnard (cat. 80) e presto divenute celebri33.
I fogli di Casa Buonarroti relativi a San Giovanni dei Fiorentini rappresentano, insieme ai progetti per porta Pia, i più superbi esempi di disegno di architettura della fase matura del Maestro.
Non è difficile ammettere che nessuno, fra gli architetti del Rinascimento, sia riuscito al pari di Michelangelo a condensare su un unico foglio riflessioni grafiche d’intensità, fantasia e lungimiranza così profonde. Lo svolgersi di queste idee si rivela prima di tutto come uno straordinario universo di relazioni: studio tipologico, considerazione dei rapporti volumetrici e di scala, elaborazione delle parti con il tutto, ricerca della coerenza interno esterno, controllo degli effetti di luce e ombra, dialogo fra i materiali, attenzione per i dettagli e gli arredi ecclesiastici. Questi disegni, testimonianza di una instancabile ricerca, danno anche prova della fiducia che l’artista ebbe neimezzi del disegno. Ales sandro Nova ha scritto inmodo esemplare come una delle principali caratteristiche della pratica architettonica michelangiolesca fu “quel mantenere il progetto in uno stato di perenne fluidità in cui sia lo schema generale sia i particolari decorativi vengono continuamente rimessi in discussione. In altre parole, l’architettura di Michelangelo, almeno nella sua fase progettuale, vive, cresce e si trasforma come un essere organico. Nulla viene fissato a priori, ma l’idea si sviluppa seguendo il pensiero inquieto e non sempre razionale dell’artista, il che non è segno di incertezza, bensì di ricerca approfondita”34. Nel progettare, Buonarroti abbandonava assai di rado quelle soluzioni che durante il percorso compositivo lo avevano per qualche ragione soddisfatto. Da ciò deriva quella faticosissima reductio ad unum delle varie soluzioni così evidente dall’osservazione dei disegni michelangioleschi, particolarmente evidente nei fogli per San Giovanni dei Fiorentini: una idea dapprima prende vita in un foglio quasi all’improvviso e vi rimane lì in sordina, poi riappare con grande forza in un altro disegno e in quello lentamente scompare sotto i segni di nuove invenzioni, a loro volta riverberate dall’idea di partenza; improvvisamente poi, quella fluidità prima descritta si fissa nella forma di una nuova soluzione lasciando vedere in trasparenza, come un’agata o un opale, la ricchezza di cui si compone quella materia. In questi casi, l’intero processo di elaborazione sembra depositarsi e precipitare su uno stesso medesimo foglio: questi disegni eccezionali sembrano plasmati su carta quasi fossero bozzetti di terra e mostrano, con fortissima tensione estetica, come la soluzione finale abbia accettato la sovrapposizione di idee alternative e l’assimilazione di tracce derivate da idee scartate. Eppure ciascuno mantiene una sua individualità, persino i numerosi ritocchi a biacca eseguiti per nascondere alcune correzioni testimoniano l’interesse a mantenere ciascun disegno il più possibile presentabile e comprensibile. Condotti con tratti rapidi e disinvolti, i fogli contengono una stratificazione di tecniche disegnative e di soluzioni architettoniche che li rendono dei veri e propri palinsesti. Si guardi al procedimento di costruzione di ciascun disegno. Michelangelo preparò inizialmente il foglio costruendo con uno stilo un telaio di linee di riferimento a stecca e di grandi cerchi concentrici a punta di compasso.
Ciò si vede bene illuminando i fogli a luce radente. Ma queste costruzioni sono ben lungi dall’essere regolari. Su queste tracce di base furono disegnate varie planimetrie della chiesa, prevalentemente amatita nera e pochi tratti di penna, strumento spesso fatale per la riuscita di un disegno se condotto dallamano tremolante di un ottantenne disegnatore. Gli spessori murari furono invece campiti con ampie lavature di inchiostro. A punta sottile di pennello sono eseguite anche numerose linee. Non tutte le acquerellature indicano spessori murari pieni, dal momento che diluizioni differenti sono state usate per dettagli quali altari, banconi di sagrestia, volte a botte. Queste diverse tonalità di inchiostro, che il tempo ha ulteriormente differenziato, danno al disegno una profondità di spessore davvero sorprendente, che risulta anchemaggiore a causa delle ampie raschiature della carta e delle numerose cancellature a biacca. La stratificazione di pentimenti e abrasioni costituisce un esempio evidente di questo effetto.
In questo senso, l’appagamento visivo procurato dall’immagine disegnata sfida intellettualmente l’osservatore interessato a compredere l’articolazione tridimensionale di questa planimetria, che per noi non può che rimanere materia di congetture35.
Sembra davvero che l’alto grado di imprecisione lasciato al disegno non faccia che esaltare la potenza dell’invenzione. Similmente a quanto ipotizzato per i disegni per porta Pia, la sopravvivenza dei progetti per San Giovanni dei Fiorentini si deve probabilmente al fatto che essi rimasero nelle mani dei deputati della Fabbrica, invece di essere distrutti, come ampiamente noto, dallo stesso Buonarroti pochi giorni prima della morte.
Oltre questi fogli, le testimonianze in nostro possesso documentano con sicurezza solo l’aspetto finale dell’architettura progettata da Michelangelo attraverso le immagini tratte dal modello, la cui derivazione può riconoscersi nel foglio 124 A recto36. L’opera finale è quindi il prodotto di un processo continuo che manipola e trasforma gli elementi compositivi originari.
Questo andamento carsico delle invenzioni costituisce la trama più articolata e significativa del processo ideativo michelangiolesco, possibile a prezzo di fatica, disciplina, esercizio. È questa una esperienza che si costruisce come un “lavoro dentro le cose”, la cui attualità riporta a quanto oggi Peter Zumthor, con parole semplici e bellissime, scrive sulla costruzione del progetto di architettura37. Con sensibilità e occhio da scultore, Michelangelo dominò la materia conflittuale del progetto d’architettura, fondata sul fragile equilibrio tra precisione funzionale, rigore della forma ed espressione poetica. Con termini più semplici si può spiegare questa lettura critica osservando come la composizione architettonica di Michelangelo abbia costantemente affrontato il tentativo di risolvere il conflitto tra masse piene e spazi vuoti e abbia dato risolutiva risposta al problema dell’attacco dei vari elementi plastici tra loro, approfondendo sempre più lucidamente le relazioni fondamentali stabilite tra muro, pilastro, colonna e nicchia, anche in rapporto ai diversi sistemi di copertura previsti. Negli anni, con il progredire dell’esperienza, fu inevitabile che i suoi edificimostrassero quel livello di complessità meravigliosamente risolta che ancora oggi lascia stupiti. Il progetto finale di San Giovanni dei Fiorentini testimoniato dal modello, sul quale la critica è stata sempre poco lusinghiera, mostra infatti una soluzione in cui tutti i riferimenti precedenti sembrano sublimarsi in una soluzione spaziale mai vista prima, come a mantenere la promessa di un’architettura “che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono”38:
un nuovo Pantheon affatto diverso dal prototipo, con ordine esterno di paraste tuscaniche, a cui corrispondono all’interno colonne libere anch’esse tuscaniche addossate a parete con ritmo alternato39; su quest’ultimo, all’altezza del tamburo, si trova un altro ordine più breve di colonne ioniche, posto a inquadrare gli archi delle cappelle; la cupola infine, a semplice calotta estradossata con sezione a tutto sesto, è esternamente liscia,ma internamente si articola secondo i ritmi verticali dei sostegni nel disegno della cassattonatura. Come ha magistralmente scritto Christof Thoenes nel saggio di apertura a questo catalogo, una simile architettura non era mai esistita prima: semplificata all’esterno nell’asciutta concatenazione di volumi semplici, ma dalla complessità tutta rivolta all’interno, risolta nella pacata ritmicità di uno spazio variato, ma unitario al tempo stesso, dal respiro grandioso e ispirato da immensa intensità spirituale, come a ribadire che il Maestro assai “volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio”40.
In chiusura di queste pagine, desidero esprimere lamia più sincera gratitudine ad Anna Bedon, Howard Burns e Caroline Elamper quanto ricevuto sotto forma di insegnamento, sostegno e amicizia in ormai tre lunghi lustri.
Elenco delle Opere
Ritratto di Michelangelo
Marcello Venusti (attribuito), post 1535, olio su tela, cm 36 x 27, Firenze, Casa Buonarroti, 188
GLI ANNI DAL 1505 AL 1516
Sezione I. Roma all’inizio del XVI secolo
Anonimo incisore, Antonio Lafréry editore, Lupa Capitolina, 1552, bulino, mm 255 x 338, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 9
Enea Vico incisore, Antonio Lafréry editore, Colonna di Marco Aurelio e obelisco dal Mausoleo di Augusto con veduta di Roma, 1543-1546, bulino, mm 465 x 330, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 48
Sezione II. La volta della cappella Sistina
Michelangelo Buonarroti, Studi di nudi e di un cornicione per la volta della cappella Sistina, post 1508, matita nera, carboncino, penna e inchiostro, mm 414 x 271, Firenze, Casa Buonarroti, 75 F
Michelangelo Buonarroti, Sonetto autografo con autoritratto nell’atto di dipingere la volta della cappella Sistina, 1508-1512, penna e inchiostro, mm 283 x 200, Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 111
Anonimo artista (da Michelangelo Buonarroti), Riproduzione della volta della cappella Sistina, secondo quarto del secolo XIX, cromolitografia inserita sul piano di un tavolo coevo di manifattura toscana, cm 119 x 60,6 x 96,5, Firenze, Casa Buonarroti, inv. 544
Sezione III. La finestra a edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo
Giorgio Vasari il Giovane, Edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo, fine XVI secolo, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 390 x 270, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4686 A
Michelangelo Buonarroti, Monumento dei Fasti Consolari, xilografia, mm 147 x 197 (doppia pagina), in Bartolomeo Marliani, Consulum, dictatorum censorumque romanorum series una cum ipsorum triumphis quae marmoribus scalpta in foro reperta est atque in Capitolium translata, [Valerio e Luigi Dorico], Romae 1549, pp. 8-9, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 5.11.550
Sezione IV. I disegni dal Codice Coner: studi dall’antico e da monumenti romani
Michelangelo Buonarroti, Rilievi di basi, capitelli e mensole (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 285 x 425, Firenze, Casa Buonarroti, 1 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi assonometrici di trabeazioni (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 289 x 430, Firenze, Casa Buonarroti, 2 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di un capitello (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 248 x 431, Firenze, Casa Buonarroti, 3 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di una base (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 280 x 433, Firenze, Casa Buonarroti, 4 A recto
Michelangelo Buonarroti, Studi del portale e della finestra del cosiddetto tempio della Sibilla a Tivoli, alzato dell’Arco di Costantino con dettagli dell’arco di Settimio Severo, basi dell’arco di Tito (copie dal Codice Coner), circa 1516, matita rossa, mm 290 x 429, Firenze, Casa Buonarroti, 8 A
Michelangelo Buonarroti, Studi di capitelli e cornici, circa 1516, punta di metallo, penna e inchiostro, mm 285 x 433, Firenze, Casa Buonarroti, 5 A recto
GLI ANNI DAL 1534 AL 1564
Sezione V. Michelangelo e la cultura architettonica a Roma alla metà del XVI secolo
Giovan Battista da Sangallo detto il Gobbo, Note e restituzioni grafiche a margine di pagina, circa 1535-1545, penna e inchiostro, mm 322 x 220, in Vitruvio, De Architectura libri decem, editio princeps curata da Sulpicio da Veruli, [s.n.t.], [circa 1486-1487], cc. 130-131, Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 50 F.1
Sebastiano Serlio, Frontespizio, xilografia, mm 236 x 180, in Sebastiano Serlio, Extraordinario libro di architettura di Sebastiano Serlio, architetto del Re christianissimo. Nel quale si dimostrano trenta porte di opera rustica mista con diuersi ordini: & uenti di opera dilicata di diuerse specie, con la scrittura dauanti, che narra il tutto, Giouambattista Marchio Sessa & fratelli, Venetia 1566, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2783.R.
Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo (pagina iniziale), impressione a stampa, mm 217 x 137, in Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, tomo II, p. 947, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2898.1.R.
Sezione VI. La “sepoltura” di Giulio II: dai primi progetti alla realizzazione
Michelangelo Buonarroti, Studio per la statua di Giulio II defunto sorretta da due angeli, circa 1516-1517, penna e inchiostro, mm 212 x 144, Firenze, Casa Buonarroti, 43 A verso
Michelangelo Buonarroti, Ricordo del 21 gennaio 1517; alzato del 1518 per il piano superiore del monumento funebre di Giulio II, 1517-1518, penna e inchiostro, mm 223 x 317, Firenze, Casa Buonarroti, 69 A
Anonimo disegnatore, Veduta di Roma con lo sfondo della chiesa di San Giovanni in Laterano, schizzo del monumento funebre di Giulio II in costruzione, due dettagli architettonici e uno schizzo di ornato, circa 1534-1542, carboncino, penna e inchiostro, mm 230 x 341, Collezione privata
Anonimo incisore, Antonio Salamanca editore, Monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli, 1554, bulino, mm 480 x 390, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 66
Sezione VII. La tomba di Cecchino Bracci
Michelangelo Buonarroti, Quattro epitaffi in onore di Cecchino Bracci inviati a Luigi del Riccio, 1544, penna e inchiostro, mm 216 x 230, Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 33
Michelangelo Buonarroti, Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura, 1544, matita nera, mm 192 x 199, Firenze, Casa Buonarroti, 19 F recto, Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura, Firenze, Casa Buonarroti, 19 F verso
Anonimo disegnatore, Tomba di Cecchino Bracci, seconda metà del XVI secolo, matita nera, penna e inchiostro, mm 292 x 200, Firenze, Casa Buonarroti, inv. 533
Sezione VIII. La piazza del Campidoglio
Anonimo incisore, Antonio Lafréry editore, Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii et adiacientium…), circa 1548, bulino, mm 405 x 530, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 67
Nicolas Béatrizet inventore, Cornelis Bos incisore, Statua equestre di Marco Aurelio sul basamento di Michelangelo, post 1548, bulino, mm 405 x 393, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 79
Anonimo incisore, Campidoglio, 1562-1563, xilografia, mm 81 x 112, foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2231
Anonimo (da Stefano Dupérac), Veduta di piazza del Campidoglio (rappresentata in controparte), post 1568, matita, penna e inchiostro, mm 163 x 175, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2702 A
Stefano Dupérac incisore ed editore, Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii sciographia …), 1569, acquaforte, bulino, mm 501 x 647, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 18308
Matthaeus Merian il Vecchio incisore, Capitolium, post 1613-ante 1640, acquaforte, mm 332 x 360, foglio sciolto tratto da Martin Zeiller [Martino Zilieri], Itinerarium Italiae nov-antiquae, Merian, Frankfurt am Mayn 1640, Collezione privata
Francesco Villamena, Sezione e fianco del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio, Pianta e alzato del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio, 1619, bulino, mm 394 x 255, in Alcune opere d'architettura di Iacomo Barotio da Vignola. Raccolte et poste in luce da Francesco Villamena l'anno 1617 ..., [s.n.], Roma [1619], tavv. n.n., pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d'architettura di m. Iacomo Barozzio da Vignola. Libro primo, et originale, [s.n.], Roma 1617, Vicenza, Biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Collezione Guglielmo Cappelletti, CAP D XVII 2
Anonimo incisore, Capitolii Novi Descriptio, 1620, bulino, mm 202 x 297, foglio sciolto tratto da Giacomo Lauro, Antiquae Urbis Splendor, Giacomo Lauro, Roma 1620, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9738
Nicolaus van Aelst incisore con aggiornamenti di Giovan Giacomo de’ Rossi editore, Capitolii Romani vera imago ut nunc est, 1650, acquaforte, bulino, mm 378 x 552, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2146
Anonimo artista, Veduta di piazza del Campidoglio, 1650,olio su tela, cm 73 x 99, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. Dep. 75, PV 3011
Gabriel Perelle incisore, Piazza del Campidoglio, circa 1650, acquaforte, mm 194 x 274, Collezione privata
Giovanni Battista Falda incisore, Altra veduta del Campidoglio, 1665-1667, acquaforte, mm 260 x 393, foglio sciolto tratto da Giovan Battista Falda, Il nuovo teatro delle fabbriche ed edifici in prospettiva di Roma moderna sotto il felice pontificato di N. S. Papa Alessandro 7, Giovan Giacomo de Rossi, Roma s.d. [1665-1667], Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2353
Giuseppe Tiburzio Vergelli incisore, Le Capitole, 1688, acquaforte, mm 235 x 389, foglio sciolto tratto da Giuseppe Tiburzio Vergelli, Nuovo Splendore di Roma moderna, Roma 1688, Collezione privata
Lievin Cruyl incisore, Pieter Sluyter editore, Prospectus Capitolii Romani et Templi Aræ Cæli Conventus Fratrum Minorum, 1697, acquaforte, mm 384 x 493, foglio sciolto tratto da Johannes Georgius Graevius, Thesaurus Antiquitatum Romanarum, Utrecht-Leida 1697, vol. IV, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9923
Anonimo incisore, Facciata del Palazzo Senatorio (Le Palais du Capitole), 1706, acquaforte, mm 137 x 191, foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d'Italie ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes et De toutes les raretez, qu'il contient, chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 259, Collezione privata
Anonimo incisore, Facciata del Palazzo dei Conservatori (Le Maison des Magistrats nommés Conservateurs), 1706, acquaforte, mm 137 x 173, foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d'Italie ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes et De toutes les raretez, qu'il contient, chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 262, Collezione privata
Sezione IX. Le sculture di piazza del Campidoglio
Anonimo scultore romano, Statua di Giove, II secolo d. C., marmo pario, altezza cm 212, Roma, Musei Capitolini, in deposito dal 1956 a Palazzo Braschi (Museo di Roma), inv. MC 59
Prospero Boccaduli, Inventario delle figure donate da N.S. Pio V al Po[polo] Ro[mano] fatto questo dì XI de feb[braio] 1566, 11 e 27 febbraio 1566, fascicolo manoscritto, mm 280 x 105 (fascicolo chiuso) 280 x 205 (fascicolo aperto), Roma, Archivio Storico Capitolino, Fondo Boccapaduli, Armadio II, Mazzo IV, fascicolo n. 35
Lorenzo Vaccari incisore, Iouis in Capitolii fastigio statis marmorea statua, incisione, mm 256 x 192, in Lorenzo Vaccari, Antiquarum Statuarum Urbis Romae quae in publicis privatisque locis visuntur icones, Lorenzo Vaccari, Roma 1584, tav. n.n., Roma, Biblioteca Hertziana – Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1840 raro
Giovanni Battista Cavalieri incisore, Iouis signum marmoreum Romae in Capitolio, incisione, mm 276 x 205, in Giovanni Battista Cavalieri, Antiquarum Statuarum Urbis Romae primus et secundus liber, [s.n.], Roma 1585, tav. 76, Roma, Biblioteca Hertziana – Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1700 raro
Giovanni Battista Cavalieri incisore, Mars in Capitolio, incisione, mm 221 x 135, in Giovanni Battista Cavalieri Antiquarum Statuarum Urbis Romae liber tertius et quartius, [s.n.], Roma 1594, tav. 32, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.4.E.35.1 bis
Philippe Thomassin incisore, Mars in Capitolio, incisione, mm 265 x 415, in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 32, Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, inv. 15259
Philippe Thomassin incisore, [Pudicitia] in Capitolio, incisione, mm 265 x 415, in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 49, Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, inv. 15259
Sezione X. Palazzo Farnese
Michelangelo Buonarroti, Studio di cornice, data incerta, matita rossa, mm 93 x 106, Firenze, Casa Buonarroti, 90 A
Nicolas Béatrizet incisore, Antonio Lafréry editore, Prospetto di palazzo Farnese, 1549, bulino, mm 400 x 570 in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 69
Anonimo incisore, Antonio Lafréry editore, Cortile di palazzo Farnese, 1560, bulino, mm 400 x 515, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 70
Sezione XI. San Pietro in Vaticano
Anonimo disegnatore, Veduta di San Pietro da sud-est, 1553-1554, penna e inchiostro, mm 184 x 206, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4345 A
Giovanni Antonio Dosio, Vista del fianco meridionale di San Pietro, ante 1565, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 272 x 221, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2536 A
Anonimo disegnatore, Pianta dell’emiciclo di San Pietro, 1556-1564(?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 77 x 250, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 93 A
Anonimo disegnatore, Pianta dell’emiciclo di San Pietro, 1556-1564(?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 441 x 300, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 96 A
Anonimo disegnatore, Alzato dell’emiciclo di San Pietro, 1547-1555(?), tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 352 x 296, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 95 A
Assistenti di Michelangelo Buonarroti, Modello ligneo dell’abside di San Pietro (già inserito nella calotta absidale del modello di Antonio da Sangallo il Giovane), 1556-1557, legno di tiglio e altre essenze, larghezza cm 90,5, altezza cm 50, lunghezza cm 54 (misure esterne), Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro
Tiberio Alfarano disegnatore ed editore, Natale Bonifacio incisore, Almae Vrbis Divi Petri Veteris Noviqve Templi Descriptio …, 1823 [ed. orig. 1590], acquaforte, mm 567 x 439, tratta da Martino Ferrabosco, Architettura della Basilica di S. Pietro in Vaticano: opera di Bramante Lazzari, Michel Angelo Bonaroti ed altri celebri architetti espressa in XXXII tavole, Nella Stamperia De Romanis, Roma 1812 (III ed., ed. orig. Roma 1620), Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, Pianta di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco 1569, acquaforte, mm 316 x 431, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 41
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, Prospetto laterale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco, s.d., acquaforte, mm 405 x 534, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 30
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, Sezione di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco, s.d., acquaforte, mm 405 x 510, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 83
Anonimo incisore (da Tiberio Calcagni ?), Vincenzo Luchino editore, Prospetto dell’abside meridionale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco, 1564, bulino, mm 395 x 560, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 40
Jacob Bos incisore, Antonio Lafréry editore, Centina di Antonio da Sangallo per gli archi delle volte di San Pietro riutilizzata da Michelangelo, 1561, bulino, mm 400 x 505, in Speculum Romanae Magnificentiae, Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 39
Sezione XII. Il tamburo della cupola di San Pietro in Vaticano
P. van Tienen, Hieronymus Cock incisore ed editore, Aedis D. Petri Romane deformatio, circa 1547, acquaforte, mm 330 x 240, Anzio, Biblioteca Clementina
Anonimo disegnatore, Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo, circa 1565-1570, tracce di matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 221 x 211, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Collezione Santarelli 174
Anonimo disegnatore, Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo, circa 1565-1570, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 180 x 255, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Collezione Santarelli 175
Michelangelo Buonarroti, Dettaglio planimetrico del tamburo della cupola di San Pietro, ante 1555, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, mm 388 x 555, Firenze, Casa Buonarroti, 31 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzo a matita rossa della cupola di San Pietro, primavera 1563, matita rossa, penna e inchiostro, mm 110 x 220, Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro, Armadio 7, B, 427, foglio 497 verso
Assistente di Michelangelo Buonarroti (dal modello della cupola di Michelangelo Buonarroti), Studio della sezione della cupola di San Pietro, post 1561, matita nera, penna e inchiostro, mm 159 x 162, Firenze, Casa Buonarroti, 35 A
Stefano Dupérac incisore, Antonio Lafréry editore, La benedizione papale in Piazza San Pietro, 1571-1572, acquaforte, mm 540 x 385, Anzio, Biblioteca Clementina
Monogrammista I.C.B. incisore, Antonio Lafréry editore, Mostra della Giostra fatta nel Teatro del Palazzo ridotto in questa forma dalla Sta di N. S. Pio 4°, 1565, acquaforte e bulino, mm 575 x 435, Anzio, Biblioteca Clementina
Mario Cartaro incisore, Claudio Duchet editore, Vero disegno deli stupendi edefitii giardini boschi fontane et cose maravegliose di Belvedere in Roma, 1579, bulino, mm 490 x 355, Anzio, Biblioteca Clementina
Giovanni Guerra e Natale Bonifacio incisori, Bartolomeo Grassi editore, Disegno nel quale si rappresentano le Cerimonie d’ordine di N.S. adi 26 di Settembre 1586 in venerdì nella consacratione della Croce che s’haveva da porre sopra la Guglia già drizzata, 1587, acquaforte e bulino, mm 365 x 500, Anzio, Biblioteca Clementina
Sezione XIII. Progetti per edifici residenziali eseguiti a Roma tra 1550 e 1560
Michelangelo Buonarroti, Studio per cornice trabeata di finestra e studio planimetrico per un palazzo, circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, mm 271 x 402, Firenze, Casa Buonarroti, 117 A
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per un palazzo, circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, mm 354 x 253, Firenze, Casa Buonarroti, 118 A
Sezione XIV. San Giovanni dei Fiorentini
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, stilo, compasso, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, mm 173 x 278, Firenze, Casa Buonarroti, 123 A
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, stilo, compasso, matita rossa, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 425 x 297, Firenze, Casa Buonarroti, 120 A
Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, stilo, compasso, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 417 x 376, Firenze, Casa Buonarroti, 124 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzi planimetrici e di alzato per San Giovanni dei Fiorentini, 1559, matita nera, mm 146 x 172, Firenze, Casa Buonarroti, 36 A
Monogrammista RD disegnatore, Valérian Regnard incisore, Prospetto e sezione del modello di San Giovanni dei Fiorentini, 1683, acquaforte, mm 498 x 366, tavola tratta da Valerianus Regnartius, Praecipua Urbis Romanae Templa, Insignium Romae templorum, Io. Iacobo de Rubeis editore, Roma 1684, tav. 48, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Collezione Lanciani, Roma XI.132.21
Sezione XV. La cappella Sforza in Santa Maria Maggiore
Michelangelo Buonarroti, Schizzi architettonici e studio planimetrico per la cappella Sforza, 1562, matita nera, mm 185 x 273, Firenze, Casa Buonarroti, 104 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzi architettonici e studi per la cappella Sforza, 1562, matita nera, mm 179 x 227, Firenze, Casa Buonarroti, 109 A
Michelangelo Buonarroti, Schizzi planimetrici e studio di tomba parietale per la cappella Sforza, post 1562, matita nera, tracce di penna e inchiostro, mm 350 x 200, Firenze, Casa Buonarroti, 103 A recto
Ottaviano Mascherino, Pianta del palazzo papale di Santa Maria Maggiore con l’antica sagrestia e la cappella Sforza, circa 1585, penna e inchiostro, pastello, inchiostro acquerellato, mm 440 x 580, Roma, Accademia di San Luca, Archivio storico, Fondo Ottaviano Mascarino 2427
Anonimo incisore, Pianta e sezione trasversale della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore in Roma, acquaforte, mm 494 x 375, in Giovanni Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle delle chiese di Roma con le loro facciate, fianchi, piante e misure de’ più celebri architetti, Roma 1713, tav. 13, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Rari Roma V.630
Anonimo incisore, Pianta e sezione longitudinale della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore in Roma, acquaforte, mm 475 x 346, in Giovanni Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle delle chiese di Roma con le loro facciate, fianchi, piante e misure de più celebri architetti, Roma 1713, tav. 14, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Dep. Banc. 33.B.20
Anonimo incisore, Esterno di Santa Maria Maggiore con le cappelle Sforza e Cesi, incisione, mm 385 x 252, in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 69, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.3.F.30
Anonimo incisore, Spaccato di Santa Maria Maggiore con la facciata della cappella Sforza, incisione, mm 404 x 542, in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 99, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.2.F.15
Collaboratore di Ferdinando Fuga, Pianta di Santa Maria Maggiore con progetto per la risistemazione degli ingressi delle cappelle Cesi e Sforza, metà del XVIII secolo, preparazione a matita, penna e inchiostro, inchiostri acquerellati di diverso colore, mm 528 x 770, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Collezione Lanciani, Roma 46.XI.II.4, 31809
Sezione XVI. Porta Pia
Michelangelo Buonarroti, Schizzo di mostra di finestra, 1561 (?), matita nera, mm 125 x 71, Firenze, Casa Buonarroti, 85 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per un portale e altri studi per modanature e cornici, matita nera, mm 283 x 255, Firenze, Casa Buonarroti, 97 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, mm 399 x 269, Firenze, Casa Buonarroti, 73 A bis
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, traccia di penna e inchiostro, mm 111 x 80, Firenze, Casa Buonarroti, 84 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, mm 166 x 124, Firenze, Casa Buonarroti, 99 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 470 x 280, Firenze, Casa Buonarroti, 102 A
Michelangelo Buonarroti, Studio per il prospetto di Porta Pia, circa 1561, matita nera, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, mm 442 x 282, Firenze, Casa Buonarroti, 106 A
Giovanni Battista Montano disegnatore e incisore, Prospetto e sezione di Porta Pia a Roma, 1635, bulino, mm 396 x 260, in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto Siena, Pietro Marchetti [1635], tavv. XXXX-XXXXI, pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d'architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola, Pietro Marchetti, Siena 1635, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. I-148
Luigi Rossini, Veduta di Porta Pia, incisione, mm 525 x 748, in Luigi Rossini, Le porte antiche e moderne del recinto di Roma: con le mura, prospetti e piante geometriche; con un breve cenno istorico antiquario, Scudellari, Roma 1829, Roma, Biblioteca Hertziana – Istituto Max Planck per la Storia dell’Arte, Dr 335-4290
Sezione XVII. Santa Maria degli Angeli
Ambrogio Brambilla incisore (da Pirro Ligorio), Claudio Duchet editore, Thermae Deocletianae et Maximianae inter Qurinalem et Viminalem, 1582, bulino, mm 307 x 536, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19100
Giovanni Antonio Dosio disegnatore, Giovanni Battista Cavalieri editore e incisore, Pars anterior Diocletiani Imp. Thermarum quae solis meridiae respicit, 1563, bulino, mm 192 x 257, in Giovanni Battista Cavalieri, Cosmo Medici Duci Florentinor et Senens. Vrbis Romae aedificiorum illustriumquae supersunt reliquiae… [Firenze?] 1569, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 18493
Giovanni Antonio Dosio, Sezione prospettica dell’interno delle Terme di Diocleziano, ante 1561, matita rossa, penna e inchiostro, inchiostro acquerellato di diverso colore, mm 167 x 232, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2545 A recto
Giovanni Antonio Dosio disegnatore, Parte di dentro delle Terme di Diocletiano, 1565, xilografia, mm 83 x 127, foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro] Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19285
Girolamo Franzini, La Chiesa di S. Maria de gl’Angioli. Tem[plum] S. Mariae Angelorum, 1588, xilografia, mm 77 x 62, foglio sciolto tratto da Girolamo Franzini, Le Cose Maravigliose Dell'Alma Città Di Roma, Anfiteatro Del Mondo: Con Le Chiese, Et Antichità rapresentate in disegno da Girolamo Francino, Girolamo Franzini, Roma 1588, Collezione privata
Anonimo incisore, S. Maria de gli Angeli, 1703, xilografia, mm 144 x 85, foglio sciolto tratto da Fioravante Martinelli, Roma di nuovo esattamente ricercata nel suo sito, con tutto ciò di curioso che in esso si ritrova sì antico che moderno …, Luigi Neri, Roma 1703, Collezione privata
Giovanni Battista Piranesi, Veduta interna della chiesa della Madonna degli Angioli detta della Certosa [foglio sciolto tratto dalla serie Vedute di Roma, rovine antiche e fontane romane], 1776, acquaforte, mm 564 x 826, Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 40677
Busto di Michelangelo
Daniele da Volterra, Testa di Michelangelo (su busto di marmo bigio successivo), 1564-1566, bronzo (testa), altezza m 310, Roma, Musei Capitolini, inv. MC 1165/S
Elenco dei testi critici in catalogo
Michelangelo architetto a Roma
Michelangelo e Architettura
Christof Thoenes
La collezione di disegni di Michelangelo della Casa Buonarroti
Pina Ragionieri
Architetture minori di Michelangelo a Roma
Anna Bedon
Le dimore di Michelangelo a Roma. Dalle prime abitazioni alla casa di Macel de’ Corvi
Clara Altavista
Gli anni dal 1505 al 1516
Michelangelo: ritratti e autoritratti
Pina Ragionieri
Cappella Sistina
Cammy Brothers
Finestra a edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo
Mauro Mussolin
Disegni dal Codice Coner: studi dall’antico e da architetture romane
Cammy Brothers
Gli anni dal 1534 al 1564
Michelangelo e la cultura architettonica a Roma alla metà del XVI secolo
Maddalena Scimemi
La “sepoltura” di Giulio II: dai primi progetti alla realizzazione
Claudia Echinger-Maurach
Michelangelo e le mura di Roma
Guido Rebecchini
Michelangelo e le fortificazioni del Borgo
Oronzo Brunetti
Tomba di Cecchino Bracci
Pina Ragionieri
Piazza del Campidoglio
Anna Bedon
Le colonne alveolate di palazzo dei Conservatori
Francesco Benelli
Michelangelo e la decorazione scultorea della piazza Capitolina
Claudio Parisi Presicce
Palazzo Farnese
Emanuela Ferretti
San Pietro in Vaticano
Alessandro Brodini
Il tamburo della cupola di San Pietro in Vaticano
Vitale Zanchettin
Progetti per edifici residenziali eseguiti a Roma intorno al 1550-1560
Claudia Echinger-Maurach
San Giovanni dei Fiorentini
Mauro Mussolin
Cappella Sforza in Santa Maria Maggiore
Georg Satzinger
Porta Pia
Golo Maurer
Santa Maria degli Angeli
Alessandro Brodini
05
ottobre 2009
Michelangelo Buonarroti – Architetto a Roma
Dal 05 ottobre 2009 al 21 febbraio 2010
disegno e grafica
Location
MUSEI CAPITOLINI
Roma, Piazza Del Campidoglio, 1, (Roma)
Roma, Piazza Del Campidoglio, 1, (Roma)
Biglietti
Intero € 6.00; Ridotto € 4.00 Gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente
Orario di apertura
Dal martedì alla domenica ore 9.00 - 20.00. Ingresso consentito fino alle 19 24 e 31 dicembre 9.00-14.00. Ingresso consentito fino alle 13 iorni chiusura: lunedì, 25 dicembre, 1 gennaio
Vernissage
5 Ottobre 2009, ore 17
Editore
SILVANA EDITORIALE
Ufficio stampa
ZETEMA
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