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Michele Melotta – De forma
In mostra 25 sculture in bronzo e 13 sculture in gesso.
Comunicato stampa
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La densa memoria di Michele Melotta
di Fabrizio D’Amico
È un mondo segreto e ansioso, quello che Michele Melotta mette in figura: da anni, da decenni chiuso in un suo bozzolo, ripiegato in sé, geloso del proprio silenzio, della propria appartatezza. Non sono valse, a spezzare quel silenzio – tranne che in casi rari e distanti – le episodiche sollecitazioni che ha ricevuto a mostrare il suo lavoro: sollecitazioni che egli ha di volta in volta ricevuto, tra l’altro, dai compagni di strada di via degli Ausoni, a Roma, dove vive e ha studio. Né è venuta per caso questa solitudine a tutto tetragona: che inerisce nel profondo non solo al suo animo, ma alla forma della sua scultura, com’essa oggi finalmente si svela in questa mostra sorprendente.
Ha memorie dense, Melotta. Troppe, forse, per poter reggere sulle sue spalle quel carico senza tremarne. Giacometti, e Leoncillo: ma anche più in là, ricorda: fino a Matisse, fino a Medardo, fino a Rodin, cui sembra aver rubato la digitazione veloce ed eccitata sul gesso, sul bronzo.
“Non posso simultaneamente vedere gli occhi, le mani, i piedi della persona che sta a due o tre metri da me, ma quell’unica parte che guardo trascina con sé la sensazione dell’esistenza del tutto”, ha scritto Giacometti nel 1960. La “parte per il tutto” era stato per lui un limen di verità – non semplicemente un divertissement surrealista – almeno dal ’47 (La main), e a quella soglia era sovente tornato: ne La jambe, bronzo fuso nel ’58, ad esempio. Melotta ricorda quell’ansia di verità di Giacometti, nei suoi torsi mutili, nei suoi corpi acefali, nelle sue gambe appoggiate in precario equilibrio, come stessero per spiccare il balzo da un trampolino. Assieme, ascolta la lezione di Leoncillo, il suo ostinato prendere distanza dal demone tentante dell’ “astratto”, il suo voler cercare sempre la “figura”, il suo intendere la materia non come nume intoccabile, ma come ansa dove lasciare una nuda impronta di sé (“voglio la tua orma, quella dei tuoi anni, dei tuoi patimenti, della tua storia, di quello che ti è accaduto e che senti oggi”, annotava Leoncillo nel 1958 nel suo Piccolo diario, rammentando un incontro di pochi giorni avanti con Toti Scialoja, e un dialogo accaldato con l’amico, denso di pensiero e di conflitti). Credo che le radici di Melotta siano in quegli anni oggi lontani e densi di esiti straordinari; che egli cerchi ancora adesso in quel clima che vedeva spegnersi l’orgoglio della matericità informel, e dell’espressionismo astratto, e a tentoni scavava in una coltre di cenere per trovare nella materia un luogo, soltanto, per lasciar traccia di sé, testimonianza delle proprie speranze, della propria esistenza.
Del corpo, nel suo lavoro, Melotta ha fatto misura per ogni suo gesto formatore: somigliano a corpi infatti i gessi riuniti oggi in una magica sala della “Diagonale”. Corpi esili, diafani, sussurrati nell’aria, quasi. Non so se Melotta li costruisca con la spatola, o lasci soltanto gocciare, con la mano, il gesso su altro gesso, appena rappreso: certo che essi sfiorano l’imponderabilità, la trasparenza. Si allungano filiformi accanto al muro, quei corpi snudati di peso, da cui poi appena divaricano, flettendosi in inchini; sorridono allora, forse, alla luce che qua e là li svela, esaltando il loro biancore. Si confessano innocenti, nonostante la vita che hanno alle spalle; anche se poi, quando qualcuno d’essi sarà trasposto in bronzo, il grumo di materia da cui nascono e dal quale non vorranno separarsi li trascinerà a significare altro, e opposto, dolore: come intrisi adesso, nel nuovo materiale, di una vita gremita e pesante, non più di un sogno leggero, impalpabile.
Nel nero di cui ricopre sovente i suoi bronzi, Melotta figura l’esistenza: dal grumo d’essa originario e indifferenziato – quasi un’oscura nascenza – degli Studi per zampa d’elefante, alle immagini forti, simboliche e drammatiche, delle Menadi, alla teoria delle Figure: torsi acefali e privi degli arti superiori che si dispongono adesso in sequenza ottusa, paratattica, alterna solo all’ombra di sé che proiettano sul muro retrostante. Rigorosamente frontali, aliene dall’intento di testimoniare la ‘bravura’ della mano che ne ha alzato le sagome trepide (e del pari lontanissime – ovviamente – da ogni ambizione monumentale), queste Figure – spoglie, immote, silenti – attestano solo la vita che è trascorsa: impronte sulla rena dell’esistenza; impronte – come voleva Scialoja – che serbano, nel loro breve e lento mutare, memoria di quanto è stato pensato, sofferto, vissuto.
Fabrizio D’Amico
di Fabrizio D’Amico
È un mondo segreto e ansioso, quello che Michele Melotta mette in figura: da anni, da decenni chiuso in un suo bozzolo, ripiegato in sé, geloso del proprio silenzio, della propria appartatezza. Non sono valse, a spezzare quel silenzio – tranne che in casi rari e distanti – le episodiche sollecitazioni che ha ricevuto a mostrare il suo lavoro: sollecitazioni che egli ha di volta in volta ricevuto, tra l’altro, dai compagni di strada di via degli Ausoni, a Roma, dove vive e ha studio. Né è venuta per caso questa solitudine a tutto tetragona: che inerisce nel profondo non solo al suo animo, ma alla forma della sua scultura, com’essa oggi finalmente si svela in questa mostra sorprendente.
Ha memorie dense, Melotta. Troppe, forse, per poter reggere sulle sue spalle quel carico senza tremarne. Giacometti, e Leoncillo: ma anche più in là, ricorda: fino a Matisse, fino a Medardo, fino a Rodin, cui sembra aver rubato la digitazione veloce ed eccitata sul gesso, sul bronzo.
“Non posso simultaneamente vedere gli occhi, le mani, i piedi della persona che sta a due o tre metri da me, ma quell’unica parte che guardo trascina con sé la sensazione dell’esistenza del tutto”, ha scritto Giacometti nel 1960. La “parte per il tutto” era stato per lui un limen di verità – non semplicemente un divertissement surrealista – almeno dal ’47 (La main), e a quella soglia era sovente tornato: ne La jambe, bronzo fuso nel ’58, ad esempio. Melotta ricorda quell’ansia di verità di Giacometti, nei suoi torsi mutili, nei suoi corpi acefali, nelle sue gambe appoggiate in precario equilibrio, come stessero per spiccare il balzo da un trampolino. Assieme, ascolta la lezione di Leoncillo, il suo ostinato prendere distanza dal demone tentante dell’ “astratto”, il suo voler cercare sempre la “figura”, il suo intendere la materia non come nume intoccabile, ma come ansa dove lasciare una nuda impronta di sé (“voglio la tua orma, quella dei tuoi anni, dei tuoi patimenti, della tua storia, di quello che ti è accaduto e che senti oggi”, annotava Leoncillo nel 1958 nel suo Piccolo diario, rammentando un incontro di pochi giorni avanti con Toti Scialoja, e un dialogo accaldato con l’amico, denso di pensiero e di conflitti). Credo che le radici di Melotta siano in quegli anni oggi lontani e densi di esiti straordinari; che egli cerchi ancora adesso in quel clima che vedeva spegnersi l’orgoglio della matericità informel, e dell’espressionismo astratto, e a tentoni scavava in una coltre di cenere per trovare nella materia un luogo, soltanto, per lasciar traccia di sé, testimonianza delle proprie speranze, della propria esistenza.
Del corpo, nel suo lavoro, Melotta ha fatto misura per ogni suo gesto formatore: somigliano a corpi infatti i gessi riuniti oggi in una magica sala della “Diagonale”. Corpi esili, diafani, sussurrati nell’aria, quasi. Non so se Melotta li costruisca con la spatola, o lasci soltanto gocciare, con la mano, il gesso su altro gesso, appena rappreso: certo che essi sfiorano l’imponderabilità, la trasparenza. Si allungano filiformi accanto al muro, quei corpi snudati di peso, da cui poi appena divaricano, flettendosi in inchini; sorridono allora, forse, alla luce che qua e là li svela, esaltando il loro biancore. Si confessano innocenti, nonostante la vita che hanno alle spalle; anche se poi, quando qualcuno d’essi sarà trasposto in bronzo, il grumo di materia da cui nascono e dal quale non vorranno separarsi li trascinerà a significare altro, e opposto, dolore: come intrisi adesso, nel nuovo materiale, di una vita gremita e pesante, non più di un sogno leggero, impalpabile.
Nel nero di cui ricopre sovente i suoi bronzi, Melotta figura l’esistenza: dal grumo d’essa originario e indifferenziato – quasi un’oscura nascenza – degli Studi per zampa d’elefante, alle immagini forti, simboliche e drammatiche, delle Menadi, alla teoria delle Figure: torsi acefali e privi degli arti superiori che si dispongono adesso in sequenza ottusa, paratattica, alterna solo all’ombra di sé che proiettano sul muro retrostante. Rigorosamente frontali, aliene dall’intento di testimoniare la ‘bravura’ della mano che ne ha alzato le sagome trepide (e del pari lontanissime – ovviamente – da ogni ambizione monumentale), queste Figure – spoglie, immote, silenti – attestano solo la vita che è trascorsa: impronte sulla rena dell’esistenza; impronte – come voleva Scialoja – che serbano, nel loro breve e lento mutare, memoria di quanto è stato pensato, sofferto, vissuto.
Fabrizio D’Amico
20
ottobre 2010
Michele Melotta – De forma
Dal 20 ottobre al 04 dicembre 2010
arte contemporanea
Location
GALLERIA DIAGONALE
Roma, Via Dei Chiavari, 75, (Roma)
Roma, Via Dei Chiavari, 75, (Roma)
Orario di apertura
martedì – sabato 16 - 20
Ufficio stampa
STUDIO MARTINOTTI
Autore
Curatore