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Miguel Rasero – Sin tìtulo
Il lavoro dell’artista spagnolo parte dalla geometria e dall’equilibrio instabile dei corpi che rappresenta, attraverso l’uso sapiente del collage fino alle recenti realizzazioni in bronzo, ferro, legno.
Comunicato stampa
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Miguel Rasero, revisited
di Juan Manuel Bonet
Un anno prima di compiere i quaranta, Miguel Rasero, cordovano di Doña Mencía, radicatosi a Barcellona nell’adolescenza, rivisita, e noi con lui, gli ultimi dodici anni della sua produzione pittorica, cioè il periodo in cui si è dedicato in modo più intenso e fruttuoso alla pittura. La seconda metà di una traiettoria iniziata nei primi anni ’70, e che cominciò a diventare pubblica nel 1975 con la sua prima personale, inaugurata allo Studio Trece. A una cinquantina di lavori su carta e quadri, scelti tra quelli che andava serbando per sé, spetta di raccontarci questa storia. Jaime Gil de Biedma nel 1969, esattamente l’anno in cui compiva quaranta anni, intitolò Colección particular (Collezione personale) la prima antologia, il primo ripasso della sua opera poetica. Il titolo farebbe al caso di questo pittore, in questo momento, in questa galleria di Parés, così ricca di tradizione e prestigio.
Una delle prime persone che ho sentito parlare di Rasero fu Javier Rubio Navarro. Appena conclusa l’epoca di Trama e delle convinzioni inamovibili, il compagno di avventure di Broto, di Grau e di Tena si manifestava a favore di una rifondazione più ampia del mestiere della pittura. Incominciavano a interessargli anche – in parte grazie al contagio madrileno – alcuni lavori di carattere figurativo. Fu colpito in questo senso dalle prime nature morte di Rasero, in cui il pittore, in rottura ancor più radicale di quella degli artisti del gruppo Trama con un passato immediato anche astratto, e del movimento pittura-pittura, si decantava attraverso la figurazione, e adottava un tono di grave concentrazione nel mestiere, di plasticità senza palliativi. Un tono che derivava, tra l’altro, dai forti riferimenti alle mele di Cézanne, e anche alle bottiglie morandiane.
A Madrid da tempo noi critici o scrittori difendevamo un certo numero di nomi nuovi che reinventavano la pittura, vuoi in termini figurativi, vuoi in termini astratti, a partire da una riflessione sul proprio passato, e che facevano dal citato Cézanne, a Matisse, agli action painters nordamericani, i principali punti di riferimento. Ovviamente, uno sforzo di concentrazione come quello evidenziato da quelle sobrie e superbe nature morte di Rasero non poteva lasciarci indifferenti.
Come altri pittori degli anni ’80, Rasero si mostrò presto sensibile, in quel momento di apertura verso l’esterno, ai venti che venivano dall’Italia e dalla Germania. Ma né nei momenti di maggiore euforia espressionista (o romantica, simbolista, che è lo stesso) e di maggiori concessioni alle seduzioni della materia, sarebbe mancato alla sua pittura il contrappunto della disciplina, di un innato senso del mezzo. La lezione di Kieffer o di Cucchi, due pittori ai quali ha fatto riferimento in conversazioni con alcuni dei suoi critici, non annullava quelle precedenti. Quella di Zurbarán, per esempio: «per raggiungere lo studio di Rasero bisogna attraversare un fantastico capannone industriale di Cornellá, oggetto di un suo quadro oscuro, quasi metafisico del 1985, e molto ben descritto da Michael Gibson in un testo dell’anno dopo. Questo luogo, in cui ciò che maggiormente mi sorprende è l’assenza totale dalle sue pareti di citazioni letterarie o pittoriche, è stato uno degli scenari – dell’altro parlerò poi, della sua avventura pittorica. Da qui sono usciti, negli ultimi due lustri, numerosi interni e nature morte, e, a partire dal 1989, quadri a motivi vegetali».
Il punto nodale della pittura che Rasero fece nella seconda metà degli anni ’80, è senza dubbio il modo in cui vi si combinano l’uso della carta e la riflessione sull’arte del passato. Riuscire a mettere il collage, tecnica sostanzialmente moderna, al servizio di impostazioni sostanzialmente antiche, o in ogni caso atemporali, aliene al tempo reale, all’epoca accelerata in cui viviamo, costituisce un progetto veramente singolare, perché paradossale. Perciò, e per la felice risoluzione del paradosso, Rasero ci apparve come il più atipico dei partecipanti alla collettiva del Círculo de Bellas Artes madrileno Pintar con papel (Dipingere con la carta, 1985), in cui egli non poteva essere incluso né nel gruppo dei post-cubisti – nonostante abbia a volte strizzato l’occhio a Braque o persino a Picasso – né in quello dei post-surrealisti. Ora dipingendo con la carta, ora facendolo con mezzi più tradizionali, Rasero ha costruito un universo plastico sorprendentemente bello. Un universo plastico sostenuto da un’esperienza della pittura del passato – Cézanne e i cubisti, i vasi greci e gli affreschi di Pompei, Rembrandt o Chardin e i nostri barocchi – ma dove questa esperienza è solo un aspetto del problema, mentre l’altro è un’esperienza del mondo, una gran curiosità per tutte le manifestazioni della vita, una chiara coscienza del fatto che dipingere è un modo di stare al mondo, sebbene l’ironia satirica, nelle opere incluse nella sezione España, si riveli in alcuni titoli: Spanish natura morta, Espanisch bodegón, Espanis mujé – tutto un ciclo di questa opera affonda le sue radici nell’arte, ben nostra, della vanitas. Nel “Museo de la calavera” (Museo del teschio) che un giorno Chico Rivas fonderà, non potrà mancare qualcuna di queste tele cupe, erose, estreme, di colore nero, grigio bruno, o qualche collage, come quello del 1987, in cui l’architettura della calotta cranica emerge da un impasto molto caratteristicamente raseriano di carta colorata. La lampada, cara ai poeti simbolisti e ai pittori nabis è uno dei motivi ricorrenti di questa tappa della pittura di Rasero. Dipingendo lampade sottolinea la sua attrazione per la questione della luce, ci intrappola in un labirinto affascinante, nel quale mandolini o chitarre, bottiglie, fichi, maschere ensoriane o solanesche, vassoi, vasi o tazze da tè, coltelli o pennelli, uccelli pronti a essere cucinati o bucrani o cani da caccia in agguato, giornali cinesi o silhouette femminili – nella sua esposizione da Gaspar del 1989 c’erano molte opere fortemente sessuate, come Penetración, Eva, Lo femenino, e così via – palchi di cervi o utensili da cucina, emergono dall’intrecciarsi di carte, che in qualche caso arrivano al Penúltimo silencio negro, alla Cuasi abstracción cui si allude nel titolo di un’altra opera di formato molto grande, e veramente portentosa per l’atmosfera misteriosa e satura di colore che la domina.
Insieme a questi pezzi di gran respiro, Rasero ne ha anche realizzati altri più piccoli, più privati. Merli alla Klee, naufragi, una chiocciola disegnata, assemblaggi a base di cera, appunti minimi di cose da non dimenticare, pagine di un diario che il vento si porta via... ed effettivamente sul pavimento dello studio volano note, pezzi di quadri, resti della battaglia... Anche se non ne esibirà nessuna a Parés, non dobbiamo nemmeno dimenticare il ruolo di costruttore di casse, di ricettacoli della memoria, di questo membro dei fan-club di Joseph Cornell. Né il libro La llengua suspesa (La lingua sospesa, Barcellona, Tabelaria, 1989), in cui sette sue xilografie dialogano con altrettante poesie di Vicenc Altaió.
Nel corso di questa fase, prodiga di risultati ammirevoli, come si potrà ora nuovamente dimostrare, Rasero ha talvolta sentito la tentazione del realismo, specialmente evidente in alcune scene con tema «venatorio e di interni di cucina», simmetriche alla realizzazione di una serie di quadri e di trompe-l’oeil per un padiglione di caccia in una tenuta della Mancha. Alla fine, indubbiamente, e sebbene alcuni di questi quadri siano molto buoni, ha resistito senza cadere in questa tentazione, il che gli fa ovviamente onore, non perché questa via non potesse essere percorsa – ci sono molti esempi, dentro e fuori delle nostre frontiere, di pittori che lo fanno con rigore e lucidità – ma perché non ci si sentiva a suo agio, perché pensava che avrebbe cominciato a tradire se stesso se avesse continuato per quella strada.
Il giorno in cui il corpo glielo richiederà, sono sicuro che Rasero ritornerà a dipingere nature morte, o teschi, o interni sotto la lampada arancio. Non pochi dei motivi da lui mescolati durante gli anni a cui ho appena fatto riferimento ricompaiono, combinati con altri nuovi, nella sua decorazione, del 1992, per un bar, un luogo coinvolgente, magico, una autentica caverna che non avrebbe stonato nella Barcellona della favola modernista, ubicato all’interno dell’Hotel de les Arts. Indubbiamente, già da molti anni, per lo meno dal 1989, è chiaro che Rasero ha spostato il centro del suo interesse verso un altro territorio. Che è arrivato a un punto di saturazione. Che oggi si propone le cose in termini più essenziali, più astratti, più “bianchi” che durante il ciclo precedente. Il risultato di questo processo di decantazione, iniziato ai primi del decennio in cui ci incontrammo, è stato una lunga e bellissima serie di quadri e lavori su carta. Alcune di queste opere sono raccolte nel libro che abbiamo fatto insieme, Carta desde mi Sainte Victoire (Lettera dalla mia Sainte Victoire) (Barcellona, Ambìt, 1993), e nel nostro dialogo, intitolato De Vegetabilibus (esposto in parte nella sua prima personale madrilena, inaugurata due anni fa da Anselmo Alvarez) ai quali rimando il lettore interessato a maggiori dettagli. Quello che Rasero compone in De Vegetabilibus è una specie di cantico terreno, il cui senso viene restituito molto bene dal titolo di una delle opere che lo compongono: De la tierra como si se tratara de un texto sagrado (Della terra come se si trattasse di un testo sacro). Si fa strada qui un nuovo paesaggio, che circonda Arnes, il suo borgo di adozione nella Terra alta della provincia di Tarragona, e già ai confini del Maestrazgo. Un nuovo paesaggio, simboleggiato dalla Roca Benet che si vede dal suo studio laggiù. Un nuovo paesaggio che offre al pittore questi profondi neri, questi bruni, questi bianchi, e tutta una teoria di figure vegetali, rami che si disegnano nell’aria come quelli de La higuera en la hora de la siesta (Il fico nell’ora della siesta), bulbi e, soprattutto, intrecci vegetali che si fondono con l’humus, radici in cui vuole simboleggiare da una parte la sua meraviglia e la sua sintonia con il fuggire della vita, e dall’altra, il suo voler essere radicale, e andare alla radice stessa della pittura.
L’opera più recente di Rasero integrerà, al piano superiore della Sala Parés, la sezione inedita di questa collezione privata. In questi quadri e lavori su carta nei quali dominano il nero e il bianco, compie un’altra seria svolta. Si muove ora in un territorio di cui è difficile dire se sia figurativo o astratto. La sua indagine è ancora più «segreta e riflessiva» di quanto fosse nel 1991, quando Marìa Lluisa Borras usò nei suoi confronti, in modo assolutamente pertinente, queste due parole. I motivi vegetali sono ancora presenti, ma resi essenziali, ridotti a linee, a filamenti. Tutto si trasforma ora in dispersione, puro gioco di specchi, riflessi, vibrazioni, tensioni segrete, mistero. Anche se il collage continua a giocare un certo ruolo, il disegno, che ha sempre avuto una funzione fondamentale nell’opera di questo pittore, passa ora in primo piano, si trasforma nello stesso fondamento, nel protagonista quasi unico – di una pittura più spoglia che mai di tutto ciò che è accessorio, più pittura-pittura che mai.
Juan Manuel Bonet è direttore del Centro Nacional de arte Reina Sofia, Madrid.
Saggio pubblicato nel catalogo della mostra di Miguel Rasero presso il Palacio de la Merced a Cordoba nel 2002.
di Juan Manuel Bonet
Un anno prima di compiere i quaranta, Miguel Rasero, cordovano di Doña Mencía, radicatosi a Barcellona nell’adolescenza, rivisita, e noi con lui, gli ultimi dodici anni della sua produzione pittorica, cioè il periodo in cui si è dedicato in modo più intenso e fruttuoso alla pittura. La seconda metà di una traiettoria iniziata nei primi anni ’70, e che cominciò a diventare pubblica nel 1975 con la sua prima personale, inaugurata allo Studio Trece. A una cinquantina di lavori su carta e quadri, scelti tra quelli che andava serbando per sé, spetta di raccontarci questa storia. Jaime Gil de Biedma nel 1969, esattamente l’anno in cui compiva quaranta anni, intitolò Colección particular (Collezione personale) la prima antologia, il primo ripasso della sua opera poetica. Il titolo farebbe al caso di questo pittore, in questo momento, in questa galleria di Parés, così ricca di tradizione e prestigio.
Una delle prime persone che ho sentito parlare di Rasero fu Javier Rubio Navarro. Appena conclusa l’epoca di Trama e delle convinzioni inamovibili, il compagno di avventure di Broto, di Grau e di Tena si manifestava a favore di una rifondazione più ampia del mestiere della pittura. Incominciavano a interessargli anche – in parte grazie al contagio madrileno – alcuni lavori di carattere figurativo. Fu colpito in questo senso dalle prime nature morte di Rasero, in cui il pittore, in rottura ancor più radicale di quella degli artisti del gruppo Trama con un passato immediato anche astratto, e del movimento pittura-pittura, si decantava attraverso la figurazione, e adottava un tono di grave concentrazione nel mestiere, di plasticità senza palliativi. Un tono che derivava, tra l’altro, dai forti riferimenti alle mele di Cézanne, e anche alle bottiglie morandiane.
A Madrid da tempo noi critici o scrittori difendevamo un certo numero di nomi nuovi che reinventavano la pittura, vuoi in termini figurativi, vuoi in termini astratti, a partire da una riflessione sul proprio passato, e che facevano dal citato Cézanne, a Matisse, agli action painters nordamericani, i principali punti di riferimento. Ovviamente, uno sforzo di concentrazione come quello evidenziato da quelle sobrie e superbe nature morte di Rasero non poteva lasciarci indifferenti.
Come altri pittori degli anni ’80, Rasero si mostrò presto sensibile, in quel momento di apertura verso l’esterno, ai venti che venivano dall’Italia e dalla Germania. Ma né nei momenti di maggiore euforia espressionista (o romantica, simbolista, che è lo stesso) e di maggiori concessioni alle seduzioni della materia, sarebbe mancato alla sua pittura il contrappunto della disciplina, di un innato senso del mezzo. La lezione di Kieffer o di Cucchi, due pittori ai quali ha fatto riferimento in conversazioni con alcuni dei suoi critici, non annullava quelle precedenti. Quella di Zurbarán, per esempio: «per raggiungere lo studio di Rasero bisogna attraversare un fantastico capannone industriale di Cornellá, oggetto di un suo quadro oscuro, quasi metafisico del 1985, e molto ben descritto da Michael Gibson in un testo dell’anno dopo. Questo luogo, in cui ciò che maggiormente mi sorprende è l’assenza totale dalle sue pareti di citazioni letterarie o pittoriche, è stato uno degli scenari – dell’altro parlerò poi, della sua avventura pittorica. Da qui sono usciti, negli ultimi due lustri, numerosi interni e nature morte, e, a partire dal 1989, quadri a motivi vegetali».
Il punto nodale della pittura che Rasero fece nella seconda metà degli anni ’80, è senza dubbio il modo in cui vi si combinano l’uso della carta e la riflessione sull’arte del passato. Riuscire a mettere il collage, tecnica sostanzialmente moderna, al servizio di impostazioni sostanzialmente antiche, o in ogni caso atemporali, aliene al tempo reale, all’epoca accelerata in cui viviamo, costituisce un progetto veramente singolare, perché paradossale. Perciò, e per la felice risoluzione del paradosso, Rasero ci apparve come il più atipico dei partecipanti alla collettiva del Círculo de Bellas Artes madrileno Pintar con papel (Dipingere con la carta, 1985), in cui egli non poteva essere incluso né nel gruppo dei post-cubisti – nonostante abbia a volte strizzato l’occhio a Braque o persino a Picasso – né in quello dei post-surrealisti. Ora dipingendo con la carta, ora facendolo con mezzi più tradizionali, Rasero ha costruito un universo plastico sorprendentemente bello. Un universo plastico sostenuto da un’esperienza della pittura del passato – Cézanne e i cubisti, i vasi greci e gli affreschi di Pompei, Rembrandt o Chardin e i nostri barocchi – ma dove questa esperienza è solo un aspetto del problema, mentre l’altro è un’esperienza del mondo, una gran curiosità per tutte le manifestazioni della vita, una chiara coscienza del fatto che dipingere è un modo di stare al mondo, sebbene l’ironia satirica, nelle opere incluse nella sezione España, si riveli in alcuni titoli: Spanish natura morta, Espanisch bodegón, Espanis mujé – tutto un ciclo di questa opera affonda le sue radici nell’arte, ben nostra, della vanitas. Nel “Museo de la calavera” (Museo del teschio) che un giorno Chico Rivas fonderà, non potrà mancare qualcuna di queste tele cupe, erose, estreme, di colore nero, grigio bruno, o qualche collage, come quello del 1987, in cui l’architettura della calotta cranica emerge da un impasto molto caratteristicamente raseriano di carta colorata. La lampada, cara ai poeti simbolisti e ai pittori nabis è uno dei motivi ricorrenti di questa tappa della pittura di Rasero. Dipingendo lampade sottolinea la sua attrazione per la questione della luce, ci intrappola in un labirinto affascinante, nel quale mandolini o chitarre, bottiglie, fichi, maschere ensoriane o solanesche, vassoi, vasi o tazze da tè, coltelli o pennelli, uccelli pronti a essere cucinati o bucrani o cani da caccia in agguato, giornali cinesi o silhouette femminili – nella sua esposizione da Gaspar del 1989 c’erano molte opere fortemente sessuate, come Penetración, Eva, Lo femenino, e così via – palchi di cervi o utensili da cucina, emergono dall’intrecciarsi di carte, che in qualche caso arrivano al Penúltimo silencio negro, alla Cuasi abstracción cui si allude nel titolo di un’altra opera di formato molto grande, e veramente portentosa per l’atmosfera misteriosa e satura di colore che la domina.
Insieme a questi pezzi di gran respiro, Rasero ne ha anche realizzati altri più piccoli, più privati. Merli alla Klee, naufragi, una chiocciola disegnata, assemblaggi a base di cera, appunti minimi di cose da non dimenticare, pagine di un diario che il vento si porta via... ed effettivamente sul pavimento dello studio volano note, pezzi di quadri, resti della battaglia... Anche se non ne esibirà nessuna a Parés, non dobbiamo nemmeno dimenticare il ruolo di costruttore di casse, di ricettacoli della memoria, di questo membro dei fan-club di Joseph Cornell. Né il libro La llengua suspesa (La lingua sospesa, Barcellona, Tabelaria, 1989), in cui sette sue xilografie dialogano con altrettante poesie di Vicenc Altaió.
Nel corso di questa fase, prodiga di risultati ammirevoli, come si potrà ora nuovamente dimostrare, Rasero ha talvolta sentito la tentazione del realismo, specialmente evidente in alcune scene con tema «venatorio e di interni di cucina», simmetriche alla realizzazione di una serie di quadri e di trompe-l’oeil per un padiglione di caccia in una tenuta della Mancha. Alla fine, indubbiamente, e sebbene alcuni di questi quadri siano molto buoni, ha resistito senza cadere in questa tentazione, il che gli fa ovviamente onore, non perché questa via non potesse essere percorsa – ci sono molti esempi, dentro e fuori delle nostre frontiere, di pittori che lo fanno con rigore e lucidità – ma perché non ci si sentiva a suo agio, perché pensava che avrebbe cominciato a tradire se stesso se avesse continuato per quella strada.
Il giorno in cui il corpo glielo richiederà, sono sicuro che Rasero ritornerà a dipingere nature morte, o teschi, o interni sotto la lampada arancio. Non pochi dei motivi da lui mescolati durante gli anni a cui ho appena fatto riferimento ricompaiono, combinati con altri nuovi, nella sua decorazione, del 1992, per un bar, un luogo coinvolgente, magico, una autentica caverna che non avrebbe stonato nella Barcellona della favola modernista, ubicato all’interno dell’Hotel de les Arts. Indubbiamente, già da molti anni, per lo meno dal 1989, è chiaro che Rasero ha spostato il centro del suo interesse verso un altro territorio. Che è arrivato a un punto di saturazione. Che oggi si propone le cose in termini più essenziali, più astratti, più “bianchi” che durante il ciclo precedente. Il risultato di questo processo di decantazione, iniziato ai primi del decennio in cui ci incontrammo, è stato una lunga e bellissima serie di quadri e lavori su carta. Alcune di queste opere sono raccolte nel libro che abbiamo fatto insieme, Carta desde mi Sainte Victoire (Lettera dalla mia Sainte Victoire) (Barcellona, Ambìt, 1993), e nel nostro dialogo, intitolato De Vegetabilibus (esposto in parte nella sua prima personale madrilena, inaugurata due anni fa da Anselmo Alvarez) ai quali rimando il lettore interessato a maggiori dettagli. Quello che Rasero compone in De Vegetabilibus è una specie di cantico terreno, il cui senso viene restituito molto bene dal titolo di una delle opere che lo compongono: De la tierra como si se tratara de un texto sagrado (Della terra come se si trattasse di un testo sacro). Si fa strada qui un nuovo paesaggio, che circonda Arnes, il suo borgo di adozione nella Terra alta della provincia di Tarragona, e già ai confini del Maestrazgo. Un nuovo paesaggio, simboleggiato dalla Roca Benet che si vede dal suo studio laggiù. Un nuovo paesaggio che offre al pittore questi profondi neri, questi bruni, questi bianchi, e tutta una teoria di figure vegetali, rami che si disegnano nell’aria come quelli de La higuera en la hora de la siesta (Il fico nell’ora della siesta), bulbi e, soprattutto, intrecci vegetali che si fondono con l’humus, radici in cui vuole simboleggiare da una parte la sua meraviglia e la sua sintonia con il fuggire della vita, e dall’altra, il suo voler essere radicale, e andare alla radice stessa della pittura.
L’opera più recente di Rasero integrerà, al piano superiore della Sala Parés, la sezione inedita di questa collezione privata. In questi quadri e lavori su carta nei quali dominano il nero e il bianco, compie un’altra seria svolta. Si muove ora in un territorio di cui è difficile dire se sia figurativo o astratto. La sua indagine è ancora più «segreta e riflessiva» di quanto fosse nel 1991, quando Marìa Lluisa Borras usò nei suoi confronti, in modo assolutamente pertinente, queste due parole. I motivi vegetali sono ancora presenti, ma resi essenziali, ridotti a linee, a filamenti. Tutto si trasforma ora in dispersione, puro gioco di specchi, riflessi, vibrazioni, tensioni segrete, mistero. Anche se il collage continua a giocare un certo ruolo, il disegno, che ha sempre avuto una funzione fondamentale nell’opera di questo pittore, passa ora in primo piano, si trasforma nello stesso fondamento, nel protagonista quasi unico – di una pittura più spoglia che mai di tutto ciò che è accessorio, più pittura-pittura che mai.
Juan Manuel Bonet è direttore del Centro Nacional de arte Reina Sofia, Madrid.
Saggio pubblicato nel catalogo della mostra di Miguel Rasero presso il Palacio de la Merced a Cordoba nel 2002.
13
maggio 2004
Miguel Rasero – Sin tìtulo
Dal 13 maggio al 15 giugno 2004
arte contemporanea
Location
BZF
Firenze, Via Panicale, 61R, (Firenze)
Firenze, Via Panicale, 61R, (Firenze)
Vernissage
13 Maggio 2004, ore 18.30