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Mihailo Beli Karanovic – Astanti
[…]Mihailo Beli Karanovic mette in scena l’Ecce homo contemporaneo. Che, diversamente dal Cristo flagellato di Ponzio Pilato («Ecco l’Uomo», disse indicandolo alla folla) e dal Dioniso di Friedrich Nietzsche (Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è), non incarna nè i valori nè la loro trasvalutazione, ma l’ignavia di chi porta con sè la miseria del nulla.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
ESTOTE PARATI
Perchè ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi
albergaste; nudo e non mi rivestiste; infermo e carcerato e non mi visitaste
Vangelo secondo Matteo, 24.43
Sappiate bene questo, che se il padrone di casa sapesse a che ora vuole venire il ladro, starebbe in
guardia e non lascerebbe mettere a soqquadro la casa sua. Anche voi tenetevi pronti
Vangelo secondo Luca, 12.39
Ubudziti. Eccomi qui, con questo esempio di slang serbo che vagola impertinente nell’universo
dei ricordi. Così carico di valore simbolico da trasfigurarsi immantinente in un concetto
complessissimo. Una patologia dalla forte complessione, mi verrebbe da dire chissà perchè
andando col pensiero al secolo decimonono. Un quasi-ricordo, dunque.
Non v’è una parola che stia per ubudziti, come “stella della sera” per “Venere”. Solo il potere
delle immagini traduce codesto concetto in qualcosa di familiare.
Ubudziti è l’arte dell’improvvisazione per le soluzioni temporanee.
Sembra il titolo disinvolto d’un romanzo di edificazione. Mi vengono in mente il Che e il
compagno di ventura Alberto Granados alle prese con la motocicletta. E invece.
Invece la motocicletta era una bicicletta. Rossa, acquistata per quattro lire al mercato delle
pulci. Ero nello studio di Mihailo Beli Karanovic, il pictor optimus che spacca. I nostri
convegni diuturni in via dei Crollalanza a Milano hanno sempre suscitato in me il retropensiero
della replica illustre: perdonate la grandeur, ma mi riferisco proprio alle quotidiane sortite di
James Lord nell’atelier parigino del grande Giacometti. Era il Settembre ’64 e il Maestro
impegnava lo scrittore americano in quotidiane e indefesse pose di corvée nello studio per
quello che sarebbe diventato il suo ritratto. Ragazzi, come dovevano essere formidabili quegli
anni.
Ubudziti. Karanovic stava armeggiando con un pedale della suddetta bicicletta. Del resto, cosa
potete aspettarvi da una bici sgangherata proveniente da chissà dove e arrivata chissà come al
mercato delle pulci? Doveva escogitare un modo per fissare quel pedale all’apposito supporto,
pena l’impossibilità di usufruire del mezzo per cui aveva spesa quella cifra immane. Voi - e mi
ci metto anch’io – sareste andati dal ciclista più vicino, pedale in mano e bicicletta a spinta,
mostrandogli il problema con linguaggio malsicuro e consegnandovi al suo mestiere. Karanovic
no. Karanovic, frugando in mezzo alle cianfrusaglie di pennelli, tubetti di colore, chiodi, viti,
legni, attrezzi e ferraglia varia del suo studio, riuscì a risolvere quel piccolo grande problema
logistico: piegando simbolicamente e fisicamente un ferro al nuovo uso. Riconvertito alla
bisogna, così. Con impiego sapiente di mani e cervello. Mica pigliandolo a martellate come
avrei fatto io, gigioneggiante su una sedia a fumare Winston con lo sguardo fisso sul
2
carpentiere/artista/filosofo in azione. Forte di quell’eureka! che risolve il problema
creativamente e con i mezzi che passa il convento, Karanovic rimise il pedale nell’apposita
sede e corse col rosso velocipede verso i lidi dell’Ideale (per la cronaca, una serata alle
Scimmie). Ubudziti, l’arte dell’improvvisazione per le soluzioni temporanee.
Anche gli Astanti sono ubudziti. Sculture in scala umana realizzate con materiale povero e di
fortuna, replica isomorfica della stesa pasta di cui noi siamo fatti.
Perchè Karanovic sa fare quasi tutto (quasi, veh).
Consapevole del rischio di rifilarvi un peana, un panegirico, un’articolessa o un pistolotto,
chiamatelo come vi pare, credo che Karanovic abbia questo di straordinario: non è solo un
artista, un uomo dalla pronunciata manualità, un saggio riservato e un pittore col talento per la
musica (mess and finesse, casino e raffinatezza: così definisco il suo stile quando suona la
chitarra). Karanovic è anche uno scultore. Che modella ferro, legno, stracci, carta - il materiale
eletto come mezzo espressivo privilegiato della propria produzione - al pari del marmo. Non
sto esagerando. Del resto, quelle che leggete non sono le parole di un testo critico. Avete
dunque l’assicurazione che quanto precede e quanto segue non è l’usuale bru bru della critica.
Me lo ricordo, quel giorno in cui Karanovic fece a botte con uno dei suoi Astanti. Cos’è il genio,
in fin del conto? La Volontà, pervicace e dolorosa e virile (virile quand’anche l’artista fosse
fimmina, dal momento che la virilità è virtù che attraversa i generi), di lottare per informare
un’idea, per definizione informe, ineffabile, ribelle, impresentabile. Oscena, nel senso in cui
Carmelo Bene metteva in scena ciò che la scena eccedeva. Il giorno in cui Karanovic sferrò un
pugno alla sua scultura vidi lo sfogo del genio, la libera manifestazione di un sentimento
superiore. E mi ricordò i tormenti del grande Giacometti.
Anche Karanovic rappresenta ciò che vede. Ma adducendovi un intenso valore simbolico.
Tutt’altro che ermetico, perchè preclaro a tutti noi.
Astanti. Sculture modellate come marmo. Idoli. Idola tribus, gli idoli della tribù: gli errori che
Bacone identificava negli umani, umanissimi pregiudizi che ci impediscono di vedere la reale
natura delle cose, anche quando ce l’abbiamo sotto il naso. Soprattutto se siamo noi stessi gli
oggetti soggetti all’analisi.
Siamo proprio una tribù colpevole. E pericolosamente impreparata al giudizio finale. Che non
necessariamente sarà il Giudizio Universale dell’Onnipotente (anche gli atei ammirerebbero
l’Astante dalla cui morte fiorisce la vita). Una tribù consapevole di sbagliare, assisa come
astanti, un pubblico di osservatori che attende spaesato e imbelle una risposta chiarificatrice
sulla vita.
Foss’anche il vaffanculo con cui qualcuno ne suggellerà la fine, illuminandoci sulla verità della
nostra stolta, vacante, gaia levità.
L’opera di Karanovic, pittura e scultura, parla di noi e a noi si rivolge. Sembra parlarci: «Ma
non l’hai ancora capito? Questo sei tu». Siamo contaminati. Il nostro è il problema dell’umanità
infetta dal suo stesso narcisismo.
Guardate la scultura chiamata Νάρκισσος (Narciso): chi, se non un genio, poteva rimpiazzare
lo specchio acquorio in cui il vanesio si riflette, con lo sportello di un’automoblile prelevato dal
rottamaio, sozzo d’acquaccia e cicche di sigaretta, e rappresentare la latrina in cui noi, illusi
delle nostre autodifese dalla vita, ci specchiamo?
Perchè morire è facile. E’ la vita, che ci sconfigge.
Tempus fugit. Narciso, in attesa della morte, mostra qui l’apice della sua arroganza, peccato
primordiale dell’umanità. Non per caso Adamo ed Eva, nei nomi originari dell’Antico
Testamento ( הוח ; אָדָם ), stanno qui a dimostrarcelo, nella posa plastica della vergogna di sè.
3
E Narciso, quale epitome dell’impresa di Mihailo Beli Kranovic, è l’osceno dell’Ecce homo
contemporaneo. Che, diversamente dal Cristo flagellato di Ponzio Pilato («Ecco l’Uomo», disse
indicandolo alla folla) e dal Dioniso di Friedrich Nietzsche (Ecce Homo. Come si diventa ciò
che si è), non incarna nè i valori nè la loro trasvalutazione, ma l’ignavia di chi porta con sè la
miseria del nulla.
Ecco l’uomo d’oggi, senza Dio e senza morale, inane Prometeo che si logora giorno per giorno
nello sforzo velleitario di rubare il fuoco agli dèi.
Karanovic pone al centro della propria ricerca la sofferenza e l’arroganza di un’umanità che si è
autoinflitta la dannazione come un cristo minore, la cui croce è il suo stesso peccato d’ignavia.
Un’umanità bloccata in un adesso immobile che ha tutte le reminiscenze del nulla eterno: la
morte del corpo e la morte dell’anima.
Astanti è il termine che descrive in maniera definita i simulacri di un consesso dolente, sculture
in scala umana realizzate con gli scarti del nostro tempo, fisse e sussistenti nello stato
d’indolente attesa.
E al contempo assise a fissare l’autorappresentazione di un’umanità inerte, vanamente ribelle
alla divinità, alla natura e alla morale. E senza d’altro canto l’ardire di sostituirsi ad esse.
Gli astanti siamo noi. Guardiamo il nostro volto riflesso in uno specchio d’acqua compiacendoci
della nostra eccellenza: stiamo rubando il fuoco agli dèi, c’illudiamo di poter creare la vita dal
nulla e potenziamo i nostri corpi per opporci alla natura.
Ma lo specchio d’acqua in cui ci rimiriamo è una latrina.
Pure, dietro a tutto ciò si cela la possibilità di un riscatto.
Un riscatto per noi.
Esseri umani.
Astanti.
Portatori di un frammento d’eternità.
Perchè, come dalla nuda terra fiorisce la vita, così dalla morte di questo nostro tempo imbelle
può germogliare un’umanità rinnovata. E’ il senso intrinseco all’Astante, disteso su un letto di
morte. Un Astante agonico, forse morto in rivolta, dal cui petto fiorisce la vita. Marcescenza del
corpo transeunte reversibile nella partenogenesi di una rinnovata speranza.
Che lotta con forza tranquilla, la forza tranquilla del potere simbolico dell’Arte, contro il metodo
umano del conculcare e offendere la vita. Esemplato nella Venere, astante, protesa come in
sacrificio con l’utero stretto tra le mani di rabbia. La donna, iconografia per eccellenza
dell’Amore (la Beatrice di Dante, la Laura di Francesco Petrarca) e donatrice di vita, che in
questi tempi di violenza globale rovescia la sua stessa natura nelle donne kamikaze come Rim
al-Riashi, la ventunenne madre di due figli che il 19 Gennaio 2004 sferrò un attentato suicida
al valico di frontiera di Erez fra Israele e la Striscia di Gaza.
O come le Fidanzate di Allah dell’oltranzismo separatista ceceno, autrici del sequestro di 850
civili al teatro Dubrovka di Mosca poi uccise dalle forze speciali di Vladimir Putin.
Una speranza riposta, in questo tempo maledetto, d’orrori e martirii, in questo stupido secolo
che è appena succeduto al Secolo Breve di Eric Hobsbawm e che ha già dimostrato la fallacia
della profezia di Francis Fukuyama (La fine della storia), nella Madonna d’Algeri immortalata
dal fotografo Hocine Zaourar dopo il massacro di Benthala in Algeria, tredici anni (cioè ora):
una madre che urla lo strazio per il martirio del proprio figlio, Vergine laica dal cuore spezzato.
4
Una madre che piange la morte dell’umanità. Come nella foto straziante della Madre di
Belgrado, in lacrime di fronte alle candele pietosamente accese in una chiesa di Belgrado, con
cui il 24 marzo 1999 il Corriere della Sera aprì la prima pagina per documentare il primo giorno
di quella guerra infame, la tempesta di missili Cruise rovesciati dal Patto NATO sulla Jugoslavia
per 78 giorni di fila.
La Madonna d’Algeri.
La Madre di Belgrado.
Così straordinariamente vicine, per reminiscenza ideale, all’Orante di Karanovic, in ginocchio -
ma grandiosamente assisa - di fronte alla morte di un Cristo Bambino. Un Cristo senza croce,
dipinto come Van Dyck l’avrebbe dipinto, sospeso nel buio al pari dell’Astante che gli si
oppone, l’Anticristo, summum malum che gode dell’uccisione della morale da noi stessi
perpetrata. La nostra morte progressiva.
Ma è anche una prova. Gli Astanti rappresentano una prova per noi. Perchè noi siamo gli
astanti rispetto all’orribile magnificenza dello spettacolo del mondo.
Estote parati, dunque: siate pronti, uomini. Verrà il ladro. Verrà il giudizio. Siate pronti.
Affinchè un giorno, anima in rivolta e cuore in mano, anche voi possiate dire «ora no ho più
paura».
Emanuele Beluffi
IL COMPIANTO DELL’UMANITÀ MORTA DI MIHAILO BELI KARANOVIC
Chi sono gli Astanti? Da dove arrivano e dove andranno? Come sono state create queste
sculture così scure che sembrano in legno ?
Sono inquietanti figure, presenze, scarti della società che ci interrogano sull’umanità dolente
e sepolta nell’era post tecnologica, narcisista e individualista. Questi Astanti rimandano alla
scultura lignea del XV-XVI secolo, ai volti drammatici dipinti da Masaccio a Santa Maria del
Carmine, cappella Brancacci a Firenze, alla durezza marmorea dei corpi di Mantegna, al
naturalismo espressionista di Donatello, alla solennità compositiva di Francesco del Cossa.
Dembrano un omaggio al Compianto del Cristo morto (1469-1473) di Nicolò dell’Arca,
gruppo scultoreo che ha sconvolto il Quattrocento per drammaticità, verismo e teatralità. Si
tratta di sette figure straziate dal dolore per la morte del Cristo, a grandezza naturale, in
terracotta, conservate in Santa Maria della Vita a Bologna. Nell’arte antica e moderna la
sofferenza umana è sempre di un’attualità sconvolgente.
Karanovic s’ispira all’Umanesimo per rappresentare la condizione umana contemporanea.
Medita l’arte sacra, recuperando soluzioni iconografiche adottate nel genere del “Lamento
funebre”, molto popolare nel Nord Italia (Lombardia, Veneto, Emilia) e in Francia (Borgogna e
Lorena).
Di fronte agli Astanti noi spettatori restiamo in silenzio e immobili, annichiliti per i loro crudele
realismo “caravaggesco”, spaesati dalla sensibilità dell’artista d’interpretare l’umanità
sofferente, seguendo il tema iconografico del “Compianto morto” o della “Lamentazione sul
Cristo morto”, che ebbero una grandissima diffusione nell’arte sacra popolare, sia nell’ambito
pittorico che in quello della scultura, dando vita al tema classico della “Sacra
Rappresentazione”.
Gli Astanti, queste sculture solenni, sono una testimonianza della permanenza del classico
nell’arte del XXI secolo.
Pittore già noto per ritratti e figure neoespressioniste, Karanovic presenta per la prima volta
un’installazione complessa da un dipinto e otto sculture scure, verniciate di lacca per il legno,
realizzate con tonnellate di spazzatura, ferro, legno, tessuti, plastica, nylon, raccolte nell’arco
di due anni, tenute insieme da nastro adesivo e uno spago fine di canapa.
Karanovic ha dato forma alla sofferenza, al dolore silenzioso, all’abbandono e alla solitudine
dello scarto dell’umanità, l’altra faccia della società globale: immigrati, deboli e tutti i disagiati
senza terra, senza Dio, senza identità individuale o collettiva, che rappresentano un
monumento al disagio fisico e morale degli emarginati di tutte le razze e religioni che non
desideriamo incontrare sul nostro cammino. Gli Astanti ci spiano e vivono ai margini delle
metropoli come fantasmi, considerati presenze inutili, perché non producono un reddito
necessario per mantenere il ritmo accelerato e costoso della nostra era opulenta e
neobarocca, sotto l’egida dell’eccesso di tecnologia, in cui regnano narcisismo, egoismo,
arroganza, cinismo e indifferenza in nome del Dio progresso.
Karanovic rappresenta l’uomo della strada. Il suo Adamo potrebbe essere un clandestino, un
immigrato africano o rumeno, Eva dal volto straziato dal dolore, macchiata dal peccato di
esistere, consapevole di partorire infiniti cloni di Caino da secoli. Potrebbe essere una sintesi
di tutte le “Maddalene” della storia dell’arte. L’Anziana materializza l’incubo della vecchiaia,
più temuta della morte, mentre l’Anticristo potremmo essere tutti noi miscredenti.
Tra le altre sculture in mostra, inquietano Astante #2, sdraiato su un lettino da obitorio con
il ventre squartato da cui fuoriesce un bonsai di Ficus Benjamin, e una Venere dalla chioma di
stracci, che stringe tra le mani rivolte verso l’alto un drappo rosso, metafora del sangue e
della vita partorita nel dolore che poggia i piedi su una base contenente terra, edera e altre
piante verdi. Queste sculture “iperrealiste” , nate dalla spazzatura e dagli scarti della società
contemporanea, urlano la vendetta della Natura, non ancora dominata dalla volontà e dalla
“cattività” umane. Gli Astanti sono immobili e restano in attesa di sfidare l’eternità,
mostrando la feroce indifferenza ai problemi umani e la vendetta della Natura, che deve
tornare al centro della vita dell’uomo.
Narciso si specchia in un sportello di un’automobile e la sua immagine riflessa smaterializza il
volto realista, mettendo a fuoco la precarietà dell’esistenza umana e il dolore di un uomo
suicida d’amore e avido di emozioni, sterile e invaghito solo di se stesso.
2
Gli Astanti attendono di emanciparsi dalla loro condizione di sofferenti, ci richiamano ad
assumerci l’impegno di considerarli come uomini e di accoglierli nella nostra comunità
“civilizzata” che ha perduto il senso della solidarietà e della responsabilità verso i deboli.
Nell’arte sacra, il dolore e l’umana sofferenza si iconizzano nel volto del Cristo in Croce, per
ridestare nell’uomo qualche barlume di verità, un bagliore di fede nel Dio che, secondo la
tradizione cristiana, ha salvato l’uomo dall’abisso del male e dalla caducità della vita terrena.
Ma il dolore messo in scena da Karanovic è un'altra cosa: è angoscia di un’ umanità sorda e
cieca di fronte all’incommensurabile disperazione di un uomo –spazzatura, marcio nelle
viscere, rottame di se stesso, mummificato nel suo egoismo. I suoi corpi immobili presentano
la condizione umana, disarmata. Sono una metafora dell’uomo moderno, necrofilo, violento,
senza tensioni spirituali e lontano anni luce da una possibile redenzione, sul baratro del nulla
perché non prova più neppure la sofferenza. Sofferenza è anche pensare a chi siamo. Gli
Astanti sono gli altri e siamo noi, che attendiamo non la salvezza, ma una speranza di
riscatto, senza sapere quale.
Jacqueline Ceresoli
Perchè ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi
albergaste; nudo e non mi rivestiste; infermo e carcerato e non mi visitaste
Vangelo secondo Matteo, 24.43
Sappiate bene questo, che se il padrone di casa sapesse a che ora vuole venire il ladro, starebbe in
guardia e non lascerebbe mettere a soqquadro la casa sua. Anche voi tenetevi pronti
Vangelo secondo Luca, 12.39
Ubudziti. Eccomi qui, con questo esempio di slang serbo che vagola impertinente nell’universo
dei ricordi. Così carico di valore simbolico da trasfigurarsi immantinente in un concetto
complessissimo. Una patologia dalla forte complessione, mi verrebbe da dire chissà perchè
andando col pensiero al secolo decimonono. Un quasi-ricordo, dunque.
Non v’è una parola che stia per ubudziti, come “stella della sera” per “Venere”. Solo il potere
delle immagini traduce codesto concetto in qualcosa di familiare.
Ubudziti è l’arte dell’improvvisazione per le soluzioni temporanee.
Sembra il titolo disinvolto d’un romanzo di edificazione. Mi vengono in mente il Che e il
compagno di ventura Alberto Granados alle prese con la motocicletta. E invece.
Invece la motocicletta era una bicicletta. Rossa, acquistata per quattro lire al mercato delle
pulci. Ero nello studio di Mihailo Beli Karanovic, il pictor optimus che spacca. I nostri
convegni diuturni in via dei Crollalanza a Milano hanno sempre suscitato in me il retropensiero
della replica illustre: perdonate la grandeur, ma mi riferisco proprio alle quotidiane sortite di
James Lord nell’atelier parigino del grande Giacometti. Era il Settembre ’64 e il Maestro
impegnava lo scrittore americano in quotidiane e indefesse pose di corvée nello studio per
quello che sarebbe diventato il suo ritratto. Ragazzi, come dovevano essere formidabili quegli
anni.
Ubudziti. Karanovic stava armeggiando con un pedale della suddetta bicicletta. Del resto, cosa
potete aspettarvi da una bici sgangherata proveniente da chissà dove e arrivata chissà come al
mercato delle pulci? Doveva escogitare un modo per fissare quel pedale all’apposito supporto,
pena l’impossibilità di usufruire del mezzo per cui aveva spesa quella cifra immane. Voi - e mi
ci metto anch’io – sareste andati dal ciclista più vicino, pedale in mano e bicicletta a spinta,
mostrandogli il problema con linguaggio malsicuro e consegnandovi al suo mestiere. Karanovic
no. Karanovic, frugando in mezzo alle cianfrusaglie di pennelli, tubetti di colore, chiodi, viti,
legni, attrezzi e ferraglia varia del suo studio, riuscì a risolvere quel piccolo grande problema
logistico: piegando simbolicamente e fisicamente un ferro al nuovo uso. Riconvertito alla
bisogna, così. Con impiego sapiente di mani e cervello. Mica pigliandolo a martellate come
avrei fatto io, gigioneggiante su una sedia a fumare Winston con lo sguardo fisso sul
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carpentiere/artista/filosofo in azione. Forte di quell’eureka! che risolve il problema
creativamente e con i mezzi che passa il convento, Karanovic rimise il pedale nell’apposita
sede e corse col rosso velocipede verso i lidi dell’Ideale (per la cronaca, una serata alle
Scimmie). Ubudziti, l’arte dell’improvvisazione per le soluzioni temporanee.
Anche gli Astanti sono ubudziti. Sculture in scala umana realizzate con materiale povero e di
fortuna, replica isomorfica della stesa pasta di cui noi siamo fatti.
Perchè Karanovic sa fare quasi tutto (quasi, veh).
Consapevole del rischio di rifilarvi un peana, un panegirico, un’articolessa o un pistolotto,
chiamatelo come vi pare, credo che Karanovic abbia questo di straordinario: non è solo un
artista, un uomo dalla pronunciata manualità, un saggio riservato e un pittore col talento per la
musica (mess and finesse, casino e raffinatezza: così definisco il suo stile quando suona la
chitarra). Karanovic è anche uno scultore. Che modella ferro, legno, stracci, carta - il materiale
eletto come mezzo espressivo privilegiato della propria produzione - al pari del marmo. Non
sto esagerando. Del resto, quelle che leggete non sono le parole di un testo critico. Avete
dunque l’assicurazione che quanto precede e quanto segue non è l’usuale bru bru della critica.
Me lo ricordo, quel giorno in cui Karanovic fece a botte con uno dei suoi Astanti. Cos’è il genio,
in fin del conto? La Volontà, pervicace e dolorosa e virile (virile quand’anche l’artista fosse
fimmina, dal momento che la virilità è virtù che attraversa i generi), di lottare per informare
un’idea, per definizione informe, ineffabile, ribelle, impresentabile. Oscena, nel senso in cui
Carmelo Bene metteva in scena ciò che la scena eccedeva. Il giorno in cui Karanovic sferrò un
pugno alla sua scultura vidi lo sfogo del genio, la libera manifestazione di un sentimento
superiore. E mi ricordò i tormenti del grande Giacometti.
Anche Karanovic rappresenta ciò che vede. Ma adducendovi un intenso valore simbolico.
Tutt’altro che ermetico, perchè preclaro a tutti noi.
Astanti. Sculture modellate come marmo. Idoli. Idola tribus, gli idoli della tribù: gli errori che
Bacone identificava negli umani, umanissimi pregiudizi che ci impediscono di vedere la reale
natura delle cose, anche quando ce l’abbiamo sotto il naso. Soprattutto se siamo noi stessi gli
oggetti soggetti all’analisi.
Siamo proprio una tribù colpevole. E pericolosamente impreparata al giudizio finale. Che non
necessariamente sarà il Giudizio Universale dell’Onnipotente (anche gli atei ammirerebbero
l’Astante dalla cui morte fiorisce la vita). Una tribù consapevole di sbagliare, assisa come
astanti, un pubblico di osservatori che attende spaesato e imbelle una risposta chiarificatrice
sulla vita.
Foss’anche il vaffanculo con cui qualcuno ne suggellerà la fine, illuminandoci sulla verità della
nostra stolta, vacante, gaia levità.
L’opera di Karanovic, pittura e scultura, parla di noi e a noi si rivolge. Sembra parlarci: «Ma
non l’hai ancora capito? Questo sei tu». Siamo contaminati. Il nostro è il problema dell’umanità
infetta dal suo stesso narcisismo.
Guardate la scultura chiamata Νάρκισσος (Narciso): chi, se non un genio, poteva rimpiazzare
lo specchio acquorio in cui il vanesio si riflette, con lo sportello di un’automoblile prelevato dal
rottamaio, sozzo d’acquaccia e cicche di sigaretta, e rappresentare la latrina in cui noi, illusi
delle nostre autodifese dalla vita, ci specchiamo?
Perchè morire è facile. E’ la vita, che ci sconfigge.
Tempus fugit. Narciso, in attesa della morte, mostra qui l’apice della sua arroganza, peccato
primordiale dell’umanità. Non per caso Adamo ed Eva, nei nomi originari dell’Antico
Testamento ( הוח ; אָדָם ), stanno qui a dimostrarcelo, nella posa plastica della vergogna di sè.
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E Narciso, quale epitome dell’impresa di Mihailo Beli Kranovic, è l’osceno dell’Ecce homo
contemporaneo. Che, diversamente dal Cristo flagellato di Ponzio Pilato («Ecco l’Uomo», disse
indicandolo alla folla) e dal Dioniso di Friedrich Nietzsche (Ecce Homo. Come si diventa ciò
che si è), non incarna nè i valori nè la loro trasvalutazione, ma l’ignavia di chi porta con sè la
miseria del nulla.
Ecco l’uomo d’oggi, senza Dio e senza morale, inane Prometeo che si logora giorno per giorno
nello sforzo velleitario di rubare il fuoco agli dèi.
Karanovic pone al centro della propria ricerca la sofferenza e l’arroganza di un’umanità che si è
autoinflitta la dannazione come un cristo minore, la cui croce è il suo stesso peccato d’ignavia.
Un’umanità bloccata in un adesso immobile che ha tutte le reminiscenze del nulla eterno: la
morte del corpo e la morte dell’anima.
Astanti è il termine che descrive in maniera definita i simulacri di un consesso dolente, sculture
in scala umana realizzate con gli scarti del nostro tempo, fisse e sussistenti nello stato
d’indolente attesa.
E al contempo assise a fissare l’autorappresentazione di un’umanità inerte, vanamente ribelle
alla divinità, alla natura e alla morale. E senza d’altro canto l’ardire di sostituirsi ad esse.
Gli astanti siamo noi. Guardiamo il nostro volto riflesso in uno specchio d’acqua compiacendoci
della nostra eccellenza: stiamo rubando il fuoco agli dèi, c’illudiamo di poter creare la vita dal
nulla e potenziamo i nostri corpi per opporci alla natura.
Ma lo specchio d’acqua in cui ci rimiriamo è una latrina.
Pure, dietro a tutto ciò si cela la possibilità di un riscatto.
Un riscatto per noi.
Esseri umani.
Astanti.
Portatori di un frammento d’eternità.
Perchè, come dalla nuda terra fiorisce la vita, così dalla morte di questo nostro tempo imbelle
può germogliare un’umanità rinnovata. E’ il senso intrinseco all’Astante, disteso su un letto di
morte. Un Astante agonico, forse morto in rivolta, dal cui petto fiorisce la vita. Marcescenza del
corpo transeunte reversibile nella partenogenesi di una rinnovata speranza.
Che lotta con forza tranquilla, la forza tranquilla del potere simbolico dell’Arte, contro il metodo
umano del conculcare e offendere la vita. Esemplato nella Venere, astante, protesa come in
sacrificio con l’utero stretto tra le mani di rabbia. La donna, iconografia per eccellenza
dell’Amore (la Beatrice di Dante, la Laura di Francesco Petrarca) e donatrice di vita, che in
questi tempi di violenza globale rovescia la sua stessa natura nelle donne kamikaze come Rim
al-Riashi, la ventunenne madre di due figli che il 19 Gennaio 2004 sferrò un attentato suicida
al valico di frontiera di Erez fra Israele e la Striscia di Gaza.
O come le Fidanzate di Allah dell’oltranzismo separatista ceceno, autrici del sequestro di 850
civili al teatro Dubrovka di Mosca poi uccise dalle forze speciali di Vladimir Putin.
Una speranza riposta, in questo tempo maledetto, d’orrori e martirii, in questo stupido secolo
che è appena succeduto al Secolo Breve di Eric Hobsbawm e che ha già dimostrato la fallacia
della profezia di Francis Fukuyama (La fine della storia), nella Madonna d’Algeri immortalata
dal fotografo Hocine Zaourar dopo il massacro di Benthala in Algeria, tredici anni (cioè ora):
una madre che urla lo strazio per il martirio del proprio figlio, Vergine laica dal cuore spezzato.
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Una madre che piange la morte dell’umanità. Come nella foto straziante della Madre di
Belgrado, in lacrime di fronte alle candele pietosamente accese in una chiesa di Belgrado, con
cui il 24 marzo 1999 il Corriere della Sera aprì la prima pagina per documentare il primo giorno
di quella guerra infame, la tempesta di missili Cruise rovesciati dal Patto NATO sulla Jugoslavia
per 78 giorni di fila.
La Madonna d’Algeri.
La Madre di Belgrado.
Così straordinariamente vicine, per reminiscenza ideale, all’Orante di Karanovic, in ginocchio -
ma grandiosamente assisa - di fronte alla morte di un Cristo Bambino. Un Cristo senza croce,
dipinto come Van Dyck l’avrebbe dipinto, sospeso nel buio al pari dell’Astante che gli si
oppone, l’Anticristo, summum malum che gode dell’uccisione della morale da noi stessi
perpetrata. La nostra morte progressiva.
Ma è anche una prova. Gli Astanti rappresentano una prova per noi. Perchè noi siamo gli
astanti rispetto all’orribile magnificenza dello spettacolo del mondo.
Estote parati, dunque: siate pronti, uomini. Verrà il ladro. Verrà il giudizio. Siate pronti.
Affinchè un giorno, anima in rivolta e cuore in mano, anche voi possiate dire «ora no ho più
paura».
Emanuele Beluffi
IL COMPIANTO DELL’UMANITÀ MORTA DI MIHAILO BELI KARANOVIC
Chi sono gli Astanti? Da dove arrivano e dove andranno? Come sono state create queste
sculture così scure che sembrano in legno ?
Sono inquietanti figure, presenze, scarti della società che ci interrogano sull’umanità dolente
e sepolta nell’era post tecnologica, narcisista e individualista. Questi Astanti rimandano alla
scultura lignea del XV-XVI secolo, ai volti drammatici dipinti da Masaccio a Santa Maria del
Carmine, cappella Brancacci a Firenze, alla durezza marmorea dei corpi di Mantegna, al
naturalismo espressionista di Donatello, alla solennità compositiva di Francesco del Cossa.
Dembrano un omaggio al Compianto del Cristo morto (1469-1473) di Nicolò dell’Arca,
gruppo scultoreo che ha sconvolto il Quattrocento per drammaticità, verismo e teatralità. Si
tratta di sette figure straziate dal dolore per la morte del Cristo, a grandezza naturale, in
terracotta, conservate in Santa Maria della Vita a Bologna. Nell’arte antica e moderna la
sofferenza umana è sempre di un’attualità sconvolgente.
Karanovic s’ispira all’Umanesimo per rappresentare la condizione umana contemporanea.
Medita l’arte sacra, recuperando soluzioni iconografiche adottate nel genere del “Lamento
funebre”, molto popolare nel Nord Italia (Lombardia, Veneto, Emilia) e in Francia (Borgogna e
Lorena).
Di fronte agli Astanti noi spettatori restiamo in silenzio e immobili, annichiliti per i loro crudele
realismo “caravaggesco”, spaesati dalla sensibilità dell’artista d’interpretare l’umanità
sofferente, seguendo il tema iconografico del “Compianto morto” o della “Lamentazione sul
Cristo morto”, che ebbero una grandissima diffusione nell’arte sacra popolare, sia nell’ambito
pittorico che in quello della scultura, dando vita al tema classico della “Sacra
Rappresentazione”.
Gli Astanti, queste sculture solenni, sono una testimonianza della permanenza del classico
nell’arte del XXI secolo.
Pittore già noto per ritratti e figure neoespressioniste, Karanovic presenta per la prima volta
un’installazione complessa da un dipinto e otto sculture scure, verniciate di lacca per il legno,
realizzate con tonnellate di spazzatura, ferro, legno, tessuti, plastica, nylon, raccolte nell’arco
di due anni, tenute insieme da nastro adesivo e uno spago fine di canapa.
Karanovic ha dato forma alla sofferenza, al dolore silenzioso, all’abbandono e alla solitudine
dello scarto dell’umanità, l’altra faccia della società globale: immigrati, deboli e tutti i disagiati
senza terra, senza Dio, senza identità individuale o collettiva, che rappresentano un
monumento al disagio fisico e morale degli emarginati di tutte le razze e religioni che non
desideriamo incontrare sul nostro cammino. Gli Astanti ci spiano e vivono ai margini delle
metropoli come fantasmi, considerati presenze inutili, perché non producono un reddito
necessario per mantenere il ritmo accelerato e costoso della nostra era opulenta e
neobarocca, sotto l’egida dell’eccesso di tecnologia, in cui regnano narcisismo, egoismo,
arroganza, cinismo e indifferenza in nome del Dio progresso.
Karanovic rappresenta l’uomo della strada. Il suo Adamo potrebbe essere un clandestino, un
immigrato africano o rumeno, Eva dal volto straziato dal dolore, macchiata dal peccato di
esistere, consapevole di partorire infiniti cloni di Caino da secoli. Potrebbe essere una sintesi
di tutte le “Maddalene” della storia dell’arte. L’Anziana materializza l’incubo della vecchiaia,
più temuta della morte, mentre l’Anticristo potremmo essere tutti noi miscredenti.
Tra le altre sculture in mostra, inquietano Astante #2, sdraiato su un lettino da obitorio con
il ventre squartato da cui fuoriesce un bonsai di Ficus Benjamin, e una Venere dalla chioma di
stracci, che stringe tra le mani rivolte verso l’alto un drappo rosso, metafora del sangue e
della vita partorita nel dolore che poggia i piedi su una base contenente terra, edera e altre
piante verdi. Queste sculture “iperrealiste” , nate dalla spazzatura e dagli scarti della società
contemporanea, urlano la vendetta della Natura, non ancora dominata dalla volontà e dalla
“cattività” umane. Gli Astanti sono immobili e restano in attesa di sfidare l’eternità,
mostrando la feroce indifferenza ai problemi umani e la vendetta della Natura, che deve
tornare al centro della vita dell’uomo.
Narciso si specchia in un sportello di un’automobile e la sua immagine riflessa smaterializza il
volto realista, mettendo a fuoco la precarietà dell’esistenza umana e il dolore di un uomo
suicida d’amore e avido di emozioni, sterile e invaghito solo di se stesso.
2
Gli Astanti attendono di emanciparsi dalla loro condizione di sofferenti, ci richiamano ad
assumerci l’impegno di considerarli come uomini e di accoglierli nella nostra comunità
“civilizzata” che ha perduto il senso della solidarietà e della responsabilità verso i deboli.
Nell’arte sacra, il dolore e l’umana sofferenza si iconizzano nel volto del Cristo in Croce, per
ridestare nell’uomo qualche barlume di verità, un bagliore di fede nel Dio che, secondo la
tradizione cristiana, ha salvato l’uomo dall’abisso del male e dalla caducità della vita terrena.
Ma il dolore messo in scena da Karanovic è un'altra cosa: è angoscia di un’ umanità sorda e
cieca di fronte all’incommensurabile disperazione di un uomo –spazzatura, marcio nelle
viscere, rottame di se stesso, mummificato nel suo egoismo. I suoi corpi immobili presentano
la condizione umana, disarmata. Sono una metafora dell’uomo moderno, necrofilo, violento,
senza tensioni spirituali e lontano anni luce da una possibile redenzione, sul baratro del nulla
perché non prova più neppure la sofferenza. Sofferenza è anche pensare a chi siamo. Gli
Astanti sono gli altri e siamo noi, che attendiamo non la salvezza, ma una speranza di
riscatto, senza sapere quale.
Jacqueline Ceresoli
14
settembre 2010
Mihailo Beli Karanovic – Astanti
Dal 14 settembre al 09 ottobre 2010
arte contemporanea
Location
MC2GALLERY
Milano, Via Giovanni Lulli, 5, (Milano)
Milano, Via Giovanni Lulli, 5, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a venerdì 11-13 15-19
Vernissage
14 Settembre 2010, ore 18.30
Autore
Curatore