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Mihailo Beli Karanovic – Ut pictura poesis
Mostra personale
Comunicato stampa
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Ut pictura poesis
Ut pictura poesis, la poesia è come la pittura, recita il verso oraziano. Nell'Estetica dell'Encyclopédie, alla voce "Galleria", Claude-Henri Watelet annotava che se qualcosa poteva stare a fondamento dell'analogia fra pittura e poesia, senza alcun dubbio doveva trattarsi delle relazioni fra i generi di queste due arti. E proprio alla voce "Genere" lo scrittore d'arte francese vedeva nel ritratto uno degli elementi comuni all'opera pittorica e all'opera poetica. Il Watelet si riferiva in special modo alle teorie scaturienti dall'apoftegma ut pictura poesis discusse nel mondo culturale francese del Sei-Settecento da André Félibien, Charles-Alphonse Du Fresnoy, Roger de Piles, e soprattutto alle Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture di Jean-Baptiste Du Bos. L'estensore delle succitate voci dell'Encyclopédie vedeva nel ritratto il genere comune sia alla poesia che alla pittura, confrontabile attraverso le differenti modalità d'esecuzione. E a proposito del rapporto arte-poesia, il letterato francese annotava con gran fervore (e non senza una certa ingenuità, aggiungiamo noi post-postmoderni che ci siamo formati sugli scaracchi di certe declinazioni dell'arte performativa che oggi vanno per la maggiore) come le descrizioni in versi dei doni della natura rappresentassero per l'arte poetica ciò che rappresentavano per la pittura i dipinti di fiori e frutta di Alexandre-François Desportes, mentre gli scrittori di favole erano accomunati ai pittori che avevano negli animali il loro soggetto prediletto.
Ora, riconoscendo che noi siamo e sempre saremo nani sulle spalle dei giganti, di là dalla perentorietà un po' goffa delle annotazioni del Watelet non possiamo non vedere come la relazione arte-poesia abbia un valore polisemico che si sottrae con ciò stesso all'unidirezionalità concettuale. Mentre d'altro canto la bellezza, che già Platone nel Simposio considerava come qualità autosussistente di un oggetto bello in sé e per sé, sembra indiscutibilmente una proprietà semplice. La natura del bello va concepita in senso puramente estetico, e non per nulla i termini "Bello" e "Bellezza" figuravano tra le voci compilate dal Diderot in quella straordinaria intrapresa editoriale senza fine che fu l'Estetica dell'Encyclopédie dei philosophes francesi. Questo perché il bello in senso puramente estetico comprende solo esperienze estetiche, includendo ciò che procura tali esperienze, sia esso colore, suono o pensiero. In questo senso gli Antichi affermavano che la bellezza consiste nelle proporzioni e nell´adeguata disposizione delle parti: e così i Greci dicevano συμμετρία per il bello visibile e άρμουία per il bello udibile, mentre i filosofi scolastici riservavano all'esperienza estetica di carattere noetico la nozione del bello in spiritualibus, contraltare del bello in corporalibus. Un po' dopo, in età umanistico-rinascimentale, Leon Battista Alberti avrebbe coniato il neologismo adatto al bello attraverso la nozione di concinnitas, «certo consenso e concordantia delle parti», sintetizzando in un'unica parola le idee di accordo e proporzionalità dei Greci. Anche se poi, chi fu il più furbo se non Francesco Petrarca il quale disse che la bellezza è, in fin del conto, un certo-non-so-che? (nescio quid alla latina, ma i francesi sono insuperabili: je ne sais quoi). O poffarbacco: siamo partiti dall'ut pictura poesis, e col Petrarca abbiamo perso niente meno che la poesia - e anche la pittura, forse. Ma se riandiamo col pensiero alle parole dell'anonimo scrittore del V secolo meglio noto come Pseudo Dionigi, epigono cristiano di Plotino, ecco che la poesia ritorna: se la bellezza è armonia e proporzione, e se non tutti gli oggetti sono composti (come la luce, le stelle, l'oro, che pure pare sian belli), allora la bellezza non deriva dagli oggetti stessi, ma dall'anima, che in un certo senso li illumina, come già affermava Plotino. Formulando così nel trattato Sui nomi divini una definizione lapidaria della bellezza: il bello è proporzione e splendore.
Bene, non so se il pittore Mihailo Beli Karanovic abbia avuto a che fare col Watelet e lo Pseudo Dionigi, ma non riesco a non vedere questa sua galleria di ritratti come bagnata da una pioggia di luce, fluida e leggera, e consegnata a un rapporto armonico di luce-colore-ombra. Un'adeguata oggettivazione della poesia pittorica. Forse perché pochi osano dipingere il bello. Forse perché molti scordano che non si possono fare progressi senza il bello.
Diciamolo: l'unico modo per dipingere ora è difendere la pittura nel suo stato puro. Perché la pittura, al di là del figurativo/astratto et cetera, è fatta con un'idea. Władysław Tatarkiewicz, nel suo Storia di sei Idee, dedicava ben tre capitoli alla trattazione del Bello. E il grande Erwin Panofsky, sulla nozione di idea nella storia dell'estetica, scrisse quel classico del pensiero che va sotto il nome di Idea. Già: chi ha il coraggio di tirar fuori gli attributi per negare la verità di Platone? Perché tutto nasce da lì, come disse il filosofo inglese Whitehead: la storia del pensiero occidentale è una serie di glosse a Platone. E lo stesso accade con la pittura: già s'è detto che siamo nani sulle spalle dei giganti. Dunque bisogna studiare e imparare. Dai classici. Pure Aristotele è un classico, pure Marx lo è. Li si relega in un cassetto in quanto classici? Tradizionali? Poi ti danno di tradizionalista, che nella nuova formulazione della critica odierna si accompagna all'altra accusa, quella di decorativismo solitamente rivolta alle opere troppo lontane dalla raffigurazione provocatoria. Perché oggi solo a tratti, e in casi individuati e singoli, conta saper fare pittura. Il saper fare pittura è il saper pensare. Dare forma e materia al pensiero. Vallo a spiegare agli imbrattatele neopop.
Per questo l'artista, quale che sia il mezzo espressivo adottato, è un filosofo. E, di converso, il filosofo è un artista. Cosa diceva il compianto Gilles Deleuze? Che la filosofia è costruzione di concetti. E con un´espressione vicina allo slogan si potrebbe dire che Schopenhauer fosse un pittore del pensiero. Critici e artisti s'inventano l'estetica concettuale e dimenticano l'estetica visiva. Critici e artisti si occupano - quando lo fanno, cioè molto raramente, impegnati come sono a fare le star - dell'estetica dal punto di vista concettuale e non visivo. Eppure è così semplice, è come la lettera rubata di Edgar Allan Poe, che tutti cercano affannosamente senza accorgersi che ce l'hanno lì sotto il naso, dove è sempre stata.
Se osservi i ritratti del Karanovic, succede di non riuscire a togliere lo sguardo dai quadri che stai vedendo: non perchè ti debba affannare a capirli - non v'è proprio nulla che si debba cercar di capire, qui - ma perché belli. Non sono ritratti fotografici, è inutile sforzarsi di dire «m'assomiglia». Anzi, non sono nemmeno ritratti ma pretesti: pre-testi, anteriori al bru-bru speculativo della critica. Karanovic non dipinge ciò che vede. E già questo è un concetto forte per il problema pressante della cultura artistica odierna: la mancanza di pittoricità. Perché deprivare un quadro del suo unico valore, la sua intrinseca pittoricità? E perché sforzarsi d'introdurre elementi concettuali? La pittura non è mai una replica isomorfica della realtà. E nemmeno ha da esser l'esatta riproduzione del mondo là fuori come un ritratto fotografico. La pittura è pittura. E, se fatta bene, diventa opera d'arte. Cos'è un'immagine? Cos'è un ritratto? «Col solo gettare di una spugna piena di diversi colori in un muro, essa lascia in esso muro una macchia, dove si vedono varie invenzioni, cioè teste d'uomini, diversi animali e altre simili cose», diceva Leonardo da Vinci. Guardare un'immagine raffigurata in un quadro non equivale a fare raffronti col mondo esterno, in quanto si tratta di un'esperienza estetica - ricordate? la natura del bello va concepita in senso puramente estetico - fortemente radicata nella sfera percettiva: l'immagine, come la lettera rubata di Edgar Allan Poe, sta lì davanti a noi e richiede solo d'esser guardata. E, dal momento che non siamo fatti come Mihailo Karanovic, che vede la pittoricità anche in un pezzo di ferro come Leonardo da Vinci vede una certa figura sulla macchia di un muro, non possiamo non metterci nell'esatta disposizione d'animo quando ci troviamo davanti a uno di questi dipinti: non possiamo cioè non vedere ciò che il Karanovic ha intenzionalmente rappresentato. Guardiamo la raffigurazione di un volto e ci sentiamo come guardati a nostra volta da quel volto. E' l'esuberante bellezza della pittura che attrae a sé. Questo è il saper fare pittura. Questo è la poesia pittorica. Vedere la pittoricità anche in un pezzo di ferro: spiritualità del fare pittura. Cari critici e cari artisti, è del tutto inutile ciurlar nel manico con quattro concetti. Non prendete ciò che non vi appartiene. Per questo motivo nemmeno il soggetto in sé è rilevante. Ciò che veramente conta è come è stato dipinto. E tuttavia sembra che solo al pittore sia come proibito d'occuparsi della meraviglia dell'esistente. Ut pictura poesis. Come il filosofo di Deleuze, come il poeta di Watelet, anche Mihailo Karanovic si serve di immagini: la sua opera è poesia pittorica che oggettiva la bellezza attraverso un'intima connessione di forma e immagine. Eidos e Eidolon - non scordiamo la lezione di Ernst Cassirer che preconizzò il saggio sull'Idea del Panofsky - sono le due polarità del bello in senso estetico: l'una, forma pura, verità delle cose; l'altra, artefatto, immagine depotenziata dell'idea. E l'opera del Karanovic, oltre che un'oggettivazione della natura del bello, sembra un commento a quella che potremmo aggiungere idealmente alle voci già comprese nell'Estetica dell'Encyclopédie e alla storia estetica delle idee: la natura dell'immagine, l'eidolon. Con un paradossale omaggio al vituperato predominio dell'immagine attraverso la pittura, mezzo espressivo più antico dei nuovi media.
È il baudrillardiano assassinio della realtà, il rigoglio estetizzante dell'immagine nella cultura contemporanea, a vanificare la coscienza critica dell'osservatore ridotto a mero spettatore di una malia mediale. Nelle opere di Beli il valore mediatico di un Obama in RGB - red, green, blue, i colori dell'interfaccia video - e di un maresciallo Tito messo sotto processo, si accompagna al riconoscimento dell'eccedenza dell'immagine rispetto a ciò che è raffigurato. Ecco la distanza che separa ciò che è raffigurato, privo di consistenza reale, dalla raffigurazione, con la sua tangibilità circoscritta nello spazio esclusivo del quadro. Obama e Tito, eventi mediatici, eventi evanescenti: eidola, idoli rispetto cui gli altri che guardano con gli occhi al cielo, al cielo dello schermo e al cielo della rappresentazione mediatica, sono gli oranti. Verrebbe da dire, citando Toni Negri: assalto al cielo! Chi ha orecchi per intendere, intenda, chi occhi per vedere, veda. E chi non ha ancora mandato all'ammasso il cervello, che capisca. Se Karanovic volesse farsi dare di buon pittore, non dovrebbe prodigarsi nelle sterili riproduzioni di un Guercino, un Caravaggio o uno Zurbarán. E se replicasse un Caravaggio, questa sarebbe la realizzazione di un contemporaneo, perchè fatta con i mezzi espressivi del Karanovic, qui e ora. Primo: fare tutto quello che passa per la testa. Secondo: ricoprire la superficie. Terzo: disegnare col pennello. Strato semichiaro e strato semiscuro. Così la materia prende forma. E tutto ciò non è pittura tradizionale, è la pittura di Mihailo Beli Karanovic.
Emanuele Beluffi
07
maggio 2009
Mihailo Beli Karanovic – Ut pictura poesis
Dal 07 al 30 maggio 2009
arte contemporanea
Location
GALLERIA BIANCA MARIA RIZZI
Milano, Via Molino Delle Armi, 3, (Milano)
Milano, Via Molino Delle Armi, 3, (Milano)
Vernissage
7 Maggio 2009, dalle 18 alle 22
Autore
Curatore