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Mino Ceretti
Saranno presentate opere recenti, dipinti su carta, del Maestro.
Comunicato stampa
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Mino Ceretti è nato a Milano nel 1930. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, diplomandosi nel 1955. Attorno alla metà degli anni 50 partecipa alla formazione di un gruppo con Romagnoni, Guerreschi, Banchieri e Vaglieri che con una serie di mostre, tra il ’55 e il ’56, determinò una tendenza che sarà definita “Realismo esistenziale”. Dopo una fase espressionista si orienta verso esperienze che indagano problemi di analisi e formazione dell’immagine; in questo senso allestisce nel 1959, coi pittori Romagnoni e Vaglieri, una mostra di tendenza alla Galleria Bergamini di Milano. Partecipa nel 1960 a “Possibilità di relazione” alla Galleria Attico di Roma, mostra di riferimento interna al dibattito per il superamento dell’Informale. Negli anni successivi lavora nella direzione di una rinnovata ricerca figurativa con la necessità di rintracciare i valori costitutivi dell’atto pittorico e al cui centro si collocano i problemi di frammentaziozione, di disgregazione e di riaggregazione dell’immagine. Ha insegnato nelle accademie di Milano, Carrara, Venezia, Torino. Ha tenuto numerose mostre personali in Italia e ha partecipato a molte rassegne e manifestazioni espositive in Italia e all’estero. Nel 1996 ha pubblicato parte degli appunti autobiografici, quelli relativi agli anni 50, sulla rivista d’arte TERZOOCCHIO, numeri:78,79,80. L’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano ha pubblicato nel maggio 2009 il suo “IL CASO DI VIVERE-Appunti”, nell’ambito dei Quaderni della “Città di Brera” scritti d’artista.
L’immagine scettica di Mino Ceretti.
Luca Pietro Nicoletti
Si potrebbe comprendere l’arco della produzione pittorica di Mino Ceretti fra gli anni Settanta e gli anni Duemila entro due azioni tradotte in termini di iconografia: da una parte il gesto di una cancellazione del reale, dall’altro quello della sua frantumazione. A partire da quella soglia, infatti, superate le stagioni neorealiste e le istanze di Nuova Figurazione, il discorso a tesi che Ceretti affronta tramite la pittura si indirizza verso il punto di messa in crisi della rappresentazione realistica e sull’impossibilità di una raffigurazione illustrativa del mondo. Per fare questo, da allora ha messo fra parentesi e cristallizzato entro una più esatta definizione grafica quel magma di memoria informale e di immaginario organico dei suoi dipinti degli anni Sessanta, di cui è una bella esemplificazione il quadro conservato presso il Museo della Permanente di Milano, in cui è evidente quella dialettica fra spazio interno e spazio esterno, fra scomposizione della figura in una poltiglia anatomica e sua restituzione tramite gesto largo ed evidente, che lascia trasparire il processo mentale ed operativo di costruzione dell’immagine. Di quell’esperienza, messa fra parentesi ma mai dimenticata, si trovano segnali costanti in tutto il suo percorso: Ceretti lavora sull’immagine e sul suo impatto, ma anche sulle materie e i segni: dentro confini riconoscibili, la pittura si agita in modi a volte turbolenti, ma con mestiere consapevole. Il passo successivo rispetto alla stagione di Nuova Figurazione, tuttavia, è stato in direzione di una materia più compatta -sia essa ad olio o campita su grossi fogli a pastello oleoso- talvolta grafica, che facilitasse una presa diretta più illustrativa del soggetto, ma con un linguaggio che volutamente cercava di mettere in crisi le possibilità di un’immagine neorealistica con le sue certezze.
Da sempre, infatti, in Ceretti c’è un uso intenso della metafora attraverso la pittura, come se il dipinto fosse la traduzione finale di un assunto teorico reso visibile attraverso una figura. I primi parametri a venir messi in crisi sono proprio l’integrità della figura e della percezione dello spazio, che corrispondono anche alle strutture primarie attorno a cui ruota la storia della pittura: la raffigurazione dell’umano e del paesaggio. I piani di profondità si sovrappongono e scorrono l’uno sull’altro -come in certi dipinti del De Chirico metafisico intorno al 1914, di recente rivalutazione a inizio anni Sessanta- come se la pittura stesse visualizzando un processo mentale in cui le immagini convivono simultaneamente. È il caso degli “interni-paesaggio”, fino ad alcuni pastelli di grande dimensione dedicati alla Valsesia, in cui la montagna diventa un blocco roccioso centrale, ma anche presenza che irrompe nello spazio interno dello studio, adagiandosi sul tavolo come un cristallo di granito, mantenendo però la sua riconoscibile consistenza di montagna, sebbene collocata con abile espediente di natura surrealista. Sovente, per altro, Ceretti fa ricorso a una commistione di immagini organiche e strutture dure e spigolose, tenute insieme dal tratto largo e volutamente pittorico.
Un’indagine a fondo sulle iconografie di Ceretti, isolandone i simboli ricorrenti e variamente combinati, consentirà di leggere in maniera più analitica la questione iconologica di fondo di queste immagini e il modo in cui il pittore ha fatto i conti con la storia della pittura e con la lezione delle avanguardie. Bisognerebbe rileggere sotto questa luce le pagine che gli aveva dedicato Emilio Tadini, a cui si deve un ruolo decisivo nella riscoperta della lezione delle avanguardie storiche come punto di ripartenza imprescindibile per nuove ricerche che andassero oltre il problema di segno e materia: non si può fare a meno, in questo caso, di pensare a Giacomo Balla futurista come nuovo “antico maestro” che sta alla base di certe immagini reiterate e sovrapposte (la mano del pittore). Ma allo stesso tempo, la figura umana appiattita e ridotta a una sagoma, che prende avvio dalle “teste-bersaglio” e arriva alle figure “probabili”, non è esente da una ripresa alla lettera di quelle letture, allora in voga, sull’uomo “a una dimensione” (Marcuse) dilaniato da un “io diviso” (Laing). Ne sono un chiaro esempio le assi incrociate, come un veto, inchiodate sul volto dei suoi personaggi. Il volto è diventato un’ombra, oppure un territorio di parti scomposte: una sagoma entro cui non abitano connotati riconoscibili. L’identità è andata in frantumi, mentre i linguaggi si affastellano, danno spazio a una sovrapposizione di registri: sagome esatte, da una parte, fanno da contenimento a realtà ribollenti, in cui volentieri il segno diventa, fuor di metafora, vera e propria una scrittura.
Ma in ultima analisi, come spesso è stato rilevato, specialmente dalle letture di Claudio Cerritelli, il lavoro di Ceretti riflette continuamente sulla pittura e sui suoi strumenti: in linea con una tradizione tipicamente novecentesca, il pittore rappresenta il suo studio e gli strumenti del suo mestiere, arrivando a raffigurare se stesso nell’atto di dipingere (la mano di ascendenza futurista cui prima si accennava). La pittura riflette su di sé, ma già i titoli indicano un’origine scettica: sono studi, ipotesi, studi provvisori o possibili. Ma il vero dubbio, risalendo la china, lo suggerisce l’artista stesso nel suo prezioso libro di memorie, interrogandosi con lucido e laico distacco intorno al “caso di vivere”.
L’immagine scettica di Mino Ceretti.
Luca Pietro Nicoletti
Si potrebbe comprendere l’arco della produzione pittorica di Mino Ceretti fra gli anni Settanta e gli anni Duemila entro due azioni tradotte in termini di iconografia: da una parte il gesto di una cancellazione del reale, dall’altro quello della sua frantumazione. A partire da quella soglia, infatti, superate le stagioni neorealiste e le istanze di Nuova Figurazione, il discorso a tesi che Ceretti affronta tramite la pittura si indirizza verso il punto di messa in crisi della rappresentazione realistica e sull’impossibilità di una raffigurazione illustrativa del mondo. Per fare questo, da allora ha messo fra parentesi e cristallizzato entro una più esatta definizione grafica quel magma di memoria informale e di immaginario organico dei suoi dipinti degli anni Sessanta, di cui è una bella esemplificazione il quadro conservato presso il Museo della Permanente di Milano, in cui è evidente quella dialettica fra spazio interno e spazio esterno, fra scomposizione della figura in una poltiglia anatomica e sua restituzione tramite gesto largo ed evidente, che lascia trasparire il processo mentale ed operativo di costruzione dell’immagine. Di quell’esperienza, messa fra parentesi ma mai dimenticata, si trovano segnali costanti in tutto il suo percorso: Ceretti lavora sull’immagine e sul suo impatto, ma anche sulle materie e i segni: dentro confini riconoscibili, la pittura si agita in modi a volte turbolenti, ma con mestiere consapevole. Il passo successivo rispetto alla stagione di Nuova Figurazione, tuttavia, è stato in direzione di una materia più compatta -sia essa ad olio o campita su grossi fogli a pastello oleoso- talvolta grafica, che facilitasse una presa diretta più illustrativa del soggetto, ma con un linguaggio che volutamente cercava di mettere in crisi le possibilità di un’immagine neorealistica con le sue certezze.
Da sempre, infatti, in Ceretti c’è un uso intenso della metafora attraverso la pittura, come se il dipinto fosse la traduzione finale di un assunto teorico reso visibile attraverso una figura. I primi parametri a venir messi in crisi sono proprio l’integrità della figura e della percezione dello spazio, che corrispondono anche alle strutture primarie attorno a cui ruota la storia della pittura: la raffigurazione dell’umano e del paesaggio. I piani di profondità si sovrappongono e scorrono l’uno sull’altro -come in certi dipinti del De Chirico metafisico intorno al 1914, di recente rivalutazione a inizio anni Sessanta- come se la pittura stesse visualizzando un processo mentale in cui le immagini convivono simultaneamente. È il caso degli “interni-paesaggio”, fino ad alcuni pastelli di grande dimensione dedicati alla Valsesia, in cui la montagna diventa un blocco roccioso centrale, ma anche presenza che irrompe nello spazio interno dello studio, adagiandosi sul tavolo come un cristallo di granito, mantenendo però la sua riconoscibile consistenza di montagna, sebbene collocata con abile espediente di natura surrealista. Sovente, per altro, Ceretti fa ricorso a una commistione di immagini organiche e strutture dure e spigolose, tenute insieme dal tratto largo e volutamente pittorico.
Un’indagine a fondo sulle iconografie di Ceretti, isolandone i simboli ricorrenti e variamente combinati, consentirà di leggere in maniera più analitica la questione iconologica di fondo di queste immagini e il modo in cui il pittore ha fatto i conti con la storia della pittura e con la lezione delle avanguardie. Bisognerebbe rileggere sotto questa luce le pagine che gli aveva dedicato Emilio Tadini, a cui si deve un ruolo decisivo nella riscoperta della lezione delle avanguardie storiche come punto di ripartenza imprescindibile per nuove ricerche che andassero oltre il problema di segno e materia: non si può fare a meno, in questo caso, di pensare a Giacomo Balla futurista come nuovo “antico maestro” che sta alla base di certe immagini reiterate e sovrapposte (la mano del pittore). Ma allo stesso tempo, la figura umana appiattita e ridotta a una sagoma, che prende avvio dalle “teste-bersaglio” e arriva alle figure “probabili”, non è esente da una ripresa alla lettera di quelle letture, allora in voga, sull’uomo “a una dimensione” (Marcuse) dilaniato da un “io diviso” (Laing). Ne sono un chiaro esempio le assi incrociate, come un veto, inchiodate sul volto dei suoi personaggi. Il volto è diventato un’ombra, oppure un territorio di parti scomposte: una sagoma entro cui non abitano connotati riconoscibili. L’identità è andata in frantumi, mentre i linguaggi si affastellano, danno spazio a una sovrapposizione di registri: sagome esatte, da una parte, fanno da contenimento a realtà ribollenti, in cui volentieri il segno diventa, fuor di metafora, vera e propria una scrittura.
Ma in ultima analisi, come spesso è stato rilevato, specialmente dalle letture di Claudio Cerritelli, il lavoro di Ceretti riflette continuamente sulla pittura e sui suoi strumenti: in linea con una tradizione tipicamente novecentesca, il pittore rappresenta il suo studio e gli strumenti del suo mestiere, arrivando a raffigurare se stesso nell’atto di dipingere (la mano di ascendenza futurista cui prima si accennava). La pittura riflette su di sé, ma già i titoli indicano un’origine scettica: sono studi, ipotesi, studi provvisori o possibili. Ma il vero dubbio, risalendo la china, lo suggerisce l’artista stesso nel suo prezioso libro di memorie, interrogandosi con lucido e laico distacco intorno al “caso di vivere”.
07
marzo 2016
Mino Ceretti
Dal 07 al 25 marzo 2016
arte contemporanea
Location
GALLERIA SCOGLIO DI QUARTO
Milano, via Scoglio di Quarto, 4, (Milano)
Milano, via Scoglio di Quarto, 4, (Milano)
Orario di apertura
Aperto da martedì a venerdì: dalle ore 17.00 alle 19.30. o per appuntamento
Vernissage
7 Marzo 2016, dalle ore 18.00
Autore
Curatore