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Monica Carocci – A Trip Down Memory Lane
Il lavoro fotografico di Monica Carocci percorre i sentieri della materia; la sua è un’immagine che raccoglie, ma anche trasuda, l’esperienza: è un esibire monocromo e fotochimico che è anche un esibire la mano, il fare: il farsi vitale, denso e materiale, che dà struttura visibile al nostro immaginario
Comunicato stampa
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A Trip Down Memory Lane
Monica Carocci / Fernanda Veron / Maurizio Valdarnini
a cura di Augusto Pieroni
Letteralmente sarebbe “un viaggio lungo il viale della Memoria”. E però riconsideriamo cosa significhi oggi questa parola: memoria. Usandola possiamo evocare idee molto differenti: è memoria il negativo/positivo fotografico; è memoria la RAM (e diversamente la ROM) di un computer; è memoria l’incavo di due corpi in un letto vuoto; è memoria il racconto di un sopravvissuto; è memoria la riscoperta di un senso sempre nuovo in luoghi e fatti banali; è memoria l’emergere di ricordi inattesi o l’improvvisa amnesia di particolari familiari; sono memoria infine le opere di autori recenti quando queste recuperano, commentano, elidono, rivalutano o scartano l’intero bagaglio della storia: della nostra di tutti, e della loro in particolare.
La fotografia può cristallizzare esperienze complesse: memorie rese ambigue dal passare del tempo, rimandi e simboli consunti dall’uso, analisi di cui si è persa l’ipotesi. Le immagini presentate nella collana di tre mostre, ripercorrono modi e maniere della fotografia moderna in tutti i particolari del visivo: soggetti, inflessioni materiche, atteggiamenti concettuali. Dall’idea di un altrove metaforico, alla memoria ricreata di lontani paesi natali, al paesaggio contemporaneo come spazio ripercorribile: l’incastro fra luoghi ed esperienza, tra materia e memoria, diviene occasione di ripensamento delle fondamenta storiche della fotografia.
E va bene. Tutta questa teoria di idee crea allora come una parte dello skyline per la nostra Memory Lane. Come fantasmatici investigatori in questa città dechirichiana, entriamo dentro alcune delle porte aperte sul viale; esploriamo tre ipotesi di visione, connesse da somiglianze selvagge: somiglianze invisibili e sostanziali; tre poetiche, però, poste in relazione anche da agganci visibili, fenomenici, cioè epidermici.
Il lavoro fotografico di Monica Carocci da sempre percorre i sentieri della materia; la sua è un’immagine che raccoglie, ma anche trasuda, l’esperienza: è un esibire monocromo e fotochimico che è anche un esibire la mano, il fare: il farsi vitale, denso e materiale, che dà struttura visibile al nostro immaginario. Una fabbrilità che si rispecchia nelle scelte installative: avvolgenti e spaesanti, eredi anch’esse della tradizione environmental delle neoavanguardie. Nel assumere i propri soggetti, però, lo sguardo della Carocci si sovraccarica sempre di un’alta tensione espressiva, una sensibilità che oscilla tra i poli opposti: iperbolico e malinconico, tra il delicato e l’oltraggioso, trascinando con sé lo spettatore in una specie di danza macabra.
Formalmente non sembrerebbe troppo diverso il discorso della giovane Fernanda Veron, per quanto l’uso del colore non possa non cambiare radicalmente il gioco. Molto lavorate le sue immagini di città, allo stesso tempo però sono più fredde nel cortocircuito tra risultato fotochimico e sporcatura aggiunta digitalmente. La postproduzione della Veron indica fortemente un vissuto – la memoria della sua nativa Argentina – composto di immagini lise, stinte: dotate di quella patina che i fotocolor degli anni 70 portano con sé. Avendo compiuto il proprio viaggio nell’avenida della memoria, l’autrice oggi romana si prefigge di ricreare lo stesso sapore che corrisponde alle sue memorie. Due linguaggi materici in apparenza, in realtà due iconografie urbane in cerca di una sempre più indefinibile poesia.
Differente il caso di Maurizio Valdarnini che azzera la torrida temperatura dei bianco/nero della Carocci e le ambigue temperature a colori della Veron. Valdarnini identifica infatti una ricca sorgente di suggestioni formali ed analitiche nel panorama suburbano europeo, laddove architetture funzionali impongono un disegno razionalistico alla natura che ancora le ambienta o dove è quest’ultima a farsi forma. Le regolarità che formano solide strutture visive sono anche una koinè postindustriale di difficile localizzazione geo-storica. I grandi formati panoramici, che garantiscono un’esperienza del tutto immersiva, sono di nuovo un link con le volontà istallative cui si richiama la Carocci, diverse quindi dai piccoli feticci del pensiero della Veron, anche se apparentemente vicini per l’attenzione ad un certo razionalismo vernacolare. Sono però anche un diretto stimolo a far esperienza di quell’infinità visiva del fotografico che, da Durer ai coniugi Becher, da Sheeler a Guido Guidi, conduce la meditazione per vari e divergenti sentieri per sempre modificati dal percorrere e ripercorrere il terreno della memoria fotografica. Direi di più: della memoria in quanto fotografia.
Un’ultima annotazione mi sembra obbligatoria: Carocci, Veron e Valdarnini presentano tutti delle immagini di luoghi di cui il minimo che si possa dire è che costituiscono dei costanti “non-qui non-ora”. Banale, si dirà: ogni fotografia non fa altro. D’accordo, volendo ci si può stare; ma la peculiarità dei tre lavori è che puntano tutti – in modo completamente diverso, ma in fondo analogo – a far dissolvere costantemente il tempo-luogo dell’immagine nel tempo-luogo dell’opera, e viceversa. Se nell’immagine si può tentare un’entrata empatica / a proprio rischio e pericolo), l’opera è invece cosa fatta, agita: è spettacolo denso, stratificato, criticamente scivoloso. Non è questa la meno importante tra le ragioni che rendono questi autori così attuali.
Non possiamo infatti chiudere un discorso sull’eredità novecentesca della memoria in quanto fotografia, senza notare come il XXI secolo proponga la liquidazione di preset culturali e linguistici del postmoderno per riamalgamare nel calore intollerabile degli attriti socio-economici ed etnico-ideologici, materiali primari che riemergono invece dalle ceneri del Moderno. I nostri tre autori mostrano esemplarmente come quelli che poco fà erano i ruderi di civiltà sepolte possano divenire prestigiosa materia di riuso, come le colonne di porfido di un impero pagano seppero reggere i templi e le ideologie di un rampante monoteismo. A noi come spettatori il compito di reggere l’urto di questo cambio di polarità interpretative che è, e non può che essere, il più autentico segno e sintomo di contemporaneità.
A.P.
04
aprile 2006
Monica Carocci – A Trip Down Memory Lane
Dal 04 aprile al 10 maggio 2006
fotografia
Location
CONTAINER
Roma, Via Dei Cappellari, 21, (Roma)
Roma, Via Dei Cappellari, 21, (Roma)
Orario di apertura
martedì-sabato 12,00-19,00
Vernissage
4 Aprile 2006, ore 18
Autore
Curatore