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Monika Bulaj – Genti di Dio
una mostra per ripercorrere il viaggio della Bulaj attraverso i popoli dell’Europa centro orientale, le loro fedi, le loro storie di persecuzione e dolore, il loro indomito bisogno di spiritualità
Comunicato stampa
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Foreste infinite e cavalli nel grano, stelle e lumini, rigagnoli nella neve, villaggi e formazioni di oche al tramonto, icone nella penombra, profumo di betulla e incenso, canzoni di pastori e battellieri, biascicar di preghiere, treni che si fermano in mezzo al nulla, cimiteri di popoli dimenticati o scomparsi, fiumi sotto la Luna. Periferie incantate, segnate dalla Storia.
L’Europa orientale è un mondo vicinissimo e sconosciuto. Povero eppure grandioso nella sua bellezza. I giornali non ne parlano. L’Ucraina, per esempio. E’ distante dall’Italia un giorno di automobile, ma pochi sanno cosa sia l’onda lunga delle sue colline. I turisti non ci vanno, sebbene la natura incanti e la gente sia fraternamente ospitale. Per arrivare in quei mondi non c’è più la Cortina di Ferro, ma restano le frontiere della Fortezza Europa. Attraversarle dà ancora il batticuore. Sono diventate centri di scambio e di corruzione. Nelle borse di plastica delle vecchie, nei pullman di linea e nei treni, pieni fino al tetto di cioccolata o raggi per biciclette, passa gran parte della mercanzia per gli straordinari mercatini dell’Est.
Se ci vai da semplice viaggiatore, la polizia s’insospettisce. Per ore i doganieri ti frugano biancheria, macchine fotografiche, agenda, passaporto. Ordinano di togliere il berretto e gli occhiali, di rimetterli, di ripetere il nome dei tuoi genitori. Ma non ascoltano le risposte. Sono semplicemente irritati che nei tuoi occhi non ci sia l’antica paura.
Ma quando sei oltre, il tuo diventa un viaggio del tempo. Lì i cambiamenti arrivano più lentamente che altrove. L’Europa orientale, tra Baltico e Mar Nero, è un serbatoio ineguagliabile del mondo di ieri. Come se il muro di Berlino fosse appena caduto, come se gli orrori del secolo ventesimo non avessero colpito proprio lì nel modo più devastante. Non sono solo le periferie d’Europa. Sono anche le periferie delle fedi. Periferie speciali, dove i monoteismi oggi in conflitto generano - a sorpresa - terreni di coabitazione. Ed è un mistero che proprio questi territori, devastati da tanti massacri e deportazioni, siano riusciti a generare una capacità di incontro che altrove il mondo sta perdendo.
Fedi passionali, che i chierici dell’Islam, del Cristianesimo o dell’Ebraismo bollano spesso come superstizione. Fedi popolari, radicate al territorio, all’anima delle acque, dei boschi, alla tomba di un profeta o di un santo. Ma capaci, anche, di travolgere le frontiere implacabili delle confessioni. Una risorsa formidabile, miracolosa e spesso ignorata.
Ho cominciato nell’inverno del 1985, sul confine orientale della Polonia che ho attraversato a piedi da Nord a Sud, per campi e boschi. Ho vissuto con contadini, pentecostali e carismatici, capaci di rompere, nell’estasi, ogni barriera di lingua e cultura.
In una foresta selvaggia, terra del grande movimento millenario e apocalittico negli anni Trenta, ho conosciuto un poeta che sapeva a memoria il Capitale di Marx, costruiva aspirapolveri per le mucche e aspettava l'arrivo di Messia alla fine dei tempi.
Il suo bosco era un’orchestra di suoni, il vento muoveva campane appese contro i cinghiali, e lui mi accolse come l'angelo mandatogli dal suo profeta Elia, un contadino carismatico sparito nei gulag sovietici. Da allora non ho smesso di cercare e il viaggio alle periferie dell’Europa è diventato un viaggio nelle genti di Dio. All’inizio è stato una ricerca delle frontiere fisiche tra popoli e confessioni. Oggi, con questa nuova mostra, si cerca nelle frontiere metafisiche, anzi magiche, dove quei popoli e quelle confessioni riescono a toccarsi nonostante le orrende memorie che li dividono.
E’ il viaggio in un labirinto di meraviglie, troppo complesso per un mondo mediatico che banalizza e semplifica. Chi racconta, oggi, dei discendenti dei guerrieri tartari, musulmani e allo stesso tempo grandi patrioti polacchi? Chi narra delle tombe dei grandi zaddiq, dove ancor oggi vengono gli ebrei «chassidim» da tutto il mondo, per lasciarvi una supplica, ma di fretta, con addosso la paura di quella terra ridotta a cimitero dai totalitarismi? Una scoperta continua. Nella gelida, vuota casa padronale dove abitò il grande poeta Czeslaw Milosz, trovi un polacco adottato dagli zingari che è diventato custode dei segreti dei rom, un popolo che non rivela se stesso a nessuno. E poi i libri, le croci e le icone sacre nelle case dei «Vecchi credenti», gli ultra-ortodossi scismatici che respinsero le riforme liturgiche russe del Seicento. Genti rimaste alla fede medievale, perseguitate, messe al rogo, espulse. Disperse in Polonia, Moldavia, Romania, Bulgaria, Siberia e nei più disparati angoli della Terra. E poi, sui Carpazi dimenticati fra Slovacchia e Polonia, i Lemki (o Ruteni), una minoranza ucraina di religione ortodossa e greco-cattolica. Nel XX secolo furono gettati nei campi di sterminio e lavoro forzato, ingoiati nelle guerre altrui, deportati coi carri bestiame nelle terre stremate dalle guerre, pogrom o fame, con l'unica colpa di avere genealogie incerte e di vivere in una terra che Stalin voleva semplificare etnicamente.
Oggi un lago artificiale ha sepolto le loro cupole di legno a forma di fiamma ardente, la storia del secolo breve ha cancellato la memoria di una grande coabitazione. In alto, tra le querce, stavano gli Ebrei, sui prati scivolosi in pendenza forte i Lemki, in basso, sul fiume ribelle, gli Zingari. Secoli di convivenza da laboratorio, di musica «bastarda» nelle feste di nozze, di rituali, fiabe e miti incrociati nell'assoluta incoscienza dei segni e simboli altrui. Ora trovi intorno solo i prugni inselvatichiti, o, nelle rovine di un cimitero, dei Cristi con la testa spaccata. O le lapidi ebraiche con le quali i nazisti costruirono strade e ponti. Leoni, grifoni alati, candelabri spezzati, il pianto chiuso nella calligrafia fatta curve, cerchietti e puntini sulla pietra lisciata dai torrenti. Solo così, viaggiando per anni, a piedi, in bicicletta, su slitte e trattori, dormendo in letti di legno, fienili e stalle, impari a scavare nei confini delle fedi, a conoscere la dolcezza d'attesa e insieme l’impazienza di parlare con i vecchi prima che spariscano col loro carico di memorie. Impari, anche, a riconoscere, da segnali impercettibili, l’esistenza di mondi perduti per sempre.
Il viaggio continua, nei monasteri ed eremitaggi carpatici, sulle montagne annerite dalle candele degli Armeni, dagli Hutzuli, i geniali musicisti e guaritori dei Carpazi orientali. E poi va oltre, nel mondo carpatico, e anche l'orizzonte fisico si amplia, in una nebulosa di luoghi ignorati, fino ai confini del Mar Caspio e oltre. Tra le montagne delle pietre ardenti, il Caucaso,
E poi ancora i monti Rodopi in Bulgaria, devastati dal comunismo ma dove puoi sentire centinaia di zampogne suonare sotto le stelle. E poi viaggi ancora verso la Seconda Roma, dove il Bosforo ti attira come un imbuto, nella Istanbul più segreta dove ebraismo, islam e cristianesimo d’oriente hanno generato forme di devozione meticcie e irripetibili, una fede aperta molto più antica delle riforme di Ataturk, figlia di una grande anima nomade. Quella nata nelle steppe fra Asia Centrale e Altopiano Anatolico.
Il tema dei Rom, disseminati e onnipresenti nel mondo tra Baltico e Mar Nero, diventa con naturalezza il filo rosso di questo viaggio nomade. S’intreccia con storie di deportazione e persecuzione, di reciproca penetrazione o convivenza sofferta. Storie, talvolta, segnate dal passionale appropriarsi di fedi altrui. In un senso o nell’altro, mai storie di indifferenza. L’estraneità tra nomadi e autoctoni è definita e definitiva, anche quando il Rom è sedentario da generazioni.
E’ seguendo questo filo rosso che trovi altri mondi ancora, i campi infiniti fra Tibisco e Danubio dove Emir Kusturica ha ambientato i suoi film saturi di metafore e follia, il grande Delta del fiume d’Europa, labirinto di uccelli e popoli in fuga. I solitari monasteri della Bucovina, nella Romania occidentale, affollati di dipinti anche all’esterno. E appena oltre, in Ucraina, le terre dove scrisse e dipinse Bruno Schultz e Martin Buber ebbe la sua infanzia, i boschi che in antico furono un bastione contro i tartari, e dove oggi, in un monastero come quello di Pocajev, un’architettura cattolica, quasi bavarese, si sposa con l'ortodossia più antica e passionale.
La chiesa cristiana d’oriente è un'inesausta fonte di spiritualità. Nonostante le sue gerarchie si siano fortemente compromesse col comunismo e col nazionalismo spinto, essa emana, a livello popolare, una forza magica di grande attrazione. Le eresie e gli scismi sembrano la chiave per conoscerne i temi più importanti, difficili talvolta da inquadrare: spezzandone la struttura consolidata, la misurata regolarità, paiono svelare le caratteristiche più rilevanti dell’inconscio religioso. Crogiolo di mondi distinti, che si penetrano ed interagiscono, con diffidenza o compassione, con indifferenza o paura. Mormorar di preghiere, baci su libri, icone, reliquie, croci. Girare sulle ginocchia intorno a montagne sacre. Prostrazioni, processioni, pellegrinaggi. Il bisogno del sacro. Intemperante, smodato. Fatto di anima e corpo.
L’Europa orientale è un mondo vicinissimo e sconosciuto. Povero eppure grandioso nella sua bellezza. I giornali non ne parlano. L’Ucraina, per esempio. E’ distante dall’Italia un giorno di automobile, ma pochi sanno cosa sia l’onda lunga delle sue colline. I turisti non ci vanno, sebbene la natura incanti e la gente sia fraternamente ospitale. Per arrivare in quei mondi non c’è più la Cortina di Ferro, ma restano le frontiere della Fortezza Europa. Attraversarle dà ancora il batticuore. Sono diventate centri di scambio e di corruzione. Nelle borse di plastica delle vecchie, nei pullman di linea e nei treni, pieni fino al tetto di cioccolata o raggi per biciclette, passa gran parte della mercanzia per gli straordinari mercatini dell’Est.
Se ci vai da semplice viaggiatore, la polizia s’insospettisce. Per ore i doganieri ti frugano biancheria, macchine fotografiche, agenda, passaporto. Ordinano di togliere il berretto e gli occhiali, di rimetterli, di ripetere il nome dei tuoi genitori. Ma non ascoltano le risposte. Sono semplicemente irritati che nei tuoi occhi non ci sia l’antica paura.
Ma quando sei oltre, il tuo diventa un viaggio del tempo. Lì i cambiamenti arrivano più lentamente che altrove. L’Europa orientale, tra Baltico e Mar Nero, è un serbatoio ineguagliabile del mondo di ieri. Come se il muro di Berlino fosse appena caduto, come se gli orrori del secolo ventesimo non avessero colpito proprio lì nel modo più devastante. Non sono solo le periferie d’Europa. Sono anche le periferie delle fedi. Periferie speciali, dove i monoteismi oggi in conflitto generano - a sorpresa - terreni di coabitazione. Ed è un mistero che proprio questi territori, devastati da tanti massacri e deportazioni, siano riusciti a generare una capacità di incontro che altrove il mondo sta perdendo.
Fedi passionali, che i chierici dell’Islam, del Cristianesimo o dell’Ebraismo bollano spesso come superstizione. Fedi popolari, radicate al territorio, all’anima delle acque, dei boschi, alla tomba di un profeta o di un santo. Ma capaci, anche, di travolgere le frontiere implacabili delle confessioni. Una risorsa formidabile, miracolosa e spesso ignorata.
Ho cominciato nell’inverno del 1985, sul confine orientale della Polonia che ho attraversato a piedi da Nord a Sud, per campi e boschi. Ho vissuto con contadini, pentecostali e carismatici, capaci di rompere, nell’estasi, ogni barriera di lingua e cultura.
In una foresta selvaggia, terra del grande movimento millenario e apocalittico negli anni Trenta, ho conosciuto un poeta che sapeva a memoria il Capitale di Marx, costruiva aspirapolveri per le mucche e aspettava l'arrivo di Messia alla fine dei tempi.
Il suo bosco era un’orchestra di suoni, il vento muoveva campane appese contro i cinghiali, e lui mi accolse come l'angelo mandatogli dal suo profeta Elia, un contadino carismatico sparito nei gulag sovietici. Da allora non ho smesso di cercare e il viaggio alle periferie dell’Europa è diventato un viaggio nelle genti di Dio. All’inizio è stato una ricerca delle frontiere fisiche tra popoli e confessioni. Oggi, con questa nuova mostra, si cerca nelle frontiere metafisiche, anzi magiche, dove quei popoli e quelle confessioni riescono a toccarsi nonostante le orrende memorie che li dividono.
E’ il viaggio in un labirinto di meraviglie, troppo complesso per un mondo mediatico che banalizza e semplifica. Chi racconta, oggi, dei discendenti dei guerrieri tartari, musulmani e allo stesso tempo grandi patrioti polacchi? Chi narra delle tombe dei grandi zaddiq, dove ancor oggi vengono gli ebrei «chassidim» da tutto il mondo, per lasciarvi una supplica, ma di fretta, con addosso la paura di quella terra ridotta a cimitero dai totalitarismi? Una scoperta continua. Nella gelida, vuota casa padronale dove abitò il grande poeta Czeslaw Milosz, trovi un polacco adottato dagli zingari che è diventato custode dei segreti dei rom, un popolo che non rivela se stesso a nessuno. E poi i libri, le croci e le icone sacre nelle case dei «Vecchi credenti», gli ultra-ortodossi scismatici che respinsero le riforme liturgiche russe del Seicento. Genti rimaste alla fede medievale, perseguitate, messe al rogo, espulse. Disperse in Polonia, Moldavia, Romania, Bulgaria, Siberia e nei più disparati angoli della Terra. E poi, sui Carpazi dimenticati fra Slovacchia e Polonia, i Lemki (o Ruteni), una minoranza ucraina di religione ortodossa e greco-cattolica. Nel XX secolo furono gettati nei campi di sterminio e lavoro forzato, ingoiati nelle guerre altrui, deportati coi carri bestiame nelle terre stremate dalle guerre, pogrom o fame, con l'unica colpa di avere genealogie incerte e di vivere in una terra che Stalin voleva semplificare etnicamente.
Oggi un lago artificiale ha sepolto le loro cupole di legno a forma di fiamma ardente, la storia del secolo breve ha cancellato la memoria di una grande coabitazione. In alto, tra le querce, stavano gli Ebrei, sui prati scivolosi in pendenza forte i Lemki, in basso, sul fiume ribelle, gli Zingari. Secoli di convivenza da laboratorio, di musica «bastarda» nelle feste di nozze, di rituali, fiabe e miti incrociati nell'assoluta incoscienza dei segni e simboli altrui. Ora trovi intorno solo i prugni inselvatichiti, o, nelle rovine di un cimitero, dei Cristi con la testa spaccata. O le lapidi ebraiche con le quali i nazisti costruirono strade e ponti. Leoni, grifoni alati, candelabri spezzati, il pianto chiuso nella calligrafia fatta curve, cerchietti e puntini sulla pietra lisciata dai torrenti. Solo così, viaggiando per anni, a piedi, in bicicletta, su slitte e trattori, dormendo in letti di legno, fienili e stalle, impari a scavare nei confini delle fedi, a conoscere la dolcezza d'attesa e insieme l’impazienza di parlare con i vecchi prima che spariscano col loro carico di memorie. Impari, anche, a riconoscere, da segnali impercettibili, l’esistenza di mondi perduti per sempre.
Il viaggio continua, nei monasteri ed eremitaggi carpatici, sulle montagne annerite dalle candele degli Armeni, dagli Hutzuli, i geniali musicisti e guaritori dei Carpazi orientali. E poi va oltre, nel mondo carpatico, e anche l'orizzonte fisico si amplia, in una nebulosa di luoghi ignorati, fino ai confini del Mar Caspio e oltre. Tra le montagne delle pietre ardenti, il Caucaso,
E poi ancora i monti Rodopi in Bulgaria, devastati dal comunismo ma dove puoi sentire centinaia di zampogne suonare sotto le stelle. E poi viaggi ancora verso la Seconda Roma, dove il Bosforo ti attira come un imbuto, nella Istanbul più segreta dove ebraismo, islam e cristianesimo d’oriente hanno generato forme di devozione meticcie e irripetibili, una fede aperta molto più antica delle riforme di Ataturk, figlia di una grande anima nomade. Quella nata nelle steppe fra Asia Centrale e Altopiano Anatolico.
Il tema dei Rom, disseminati e onnipresenti nel mondo tra Baltico e Mar Nero, diventa con naturalezza il filo rosso di questo viaggio nomade. S’intreccia con storie di deportazione e persecuzione, di reciproca penetrazione o convivenza sofferta. Storie, talvolta, segnate dal passionale appropriarsi di fedi altrui. In un senso o nell’altro, mai storie di indifferenza. L’estraneità tra nomadi e autoctoni è definita e definitiva, anche quando il Rom è sedentario da generazioni.
E’ seguendo questo filo rosso che trovi altri mondi ancora, i campi infiniti fra Tibisco e Danubio dove Emir Kusturica ha ambientato i suoi film saturi di metafore e follia, il grande Delta del fiume d’Europa, labirinto di uccelli e popoli in fuga. I solitari monasteri della Bucovina, nella Romania occidentale, affollati di dipinti anche all’esterno. E appena oltre, in Ucraina, le terre dove scrisse e dipinse Bruno Schultz e Martin Buber ebbe la sua infanzia, i boschi che in antico furono un bastione contro i tartari, e dove oggi, in un monastero come quello di Pocajev, un’architettura cattolica, quasi bavarese, si sposa con l'ortodossia più antica e passionale.
La chiesa cristiana d’oriente è un'inesausta fonte di spiritualità. Nonostante le sue gerarchie si siano fortemente compromesse col comunismo e col nazionalismo spinto, essa emana, a livello popolare, una forza magica di grande attrazione. Le eresie e gli scismi sembrano la chiave per conoscerne i temi più importanti, difficili talvolta da inquadrare: spezzandone la struttura consolidata, la misurata regolarità, paiono svelare le caratteristiche più rilevanti dell’inconscio religioso. Crogiolo di mondi distinti, che si penetrano ed interagiscono, con diffidenza o compassione, con indifferenza o paura. Mormorar di preghiere, baci su libri, icone, reliquie, croci. Girare sulle ginocchia intorno a montagne sacre. Prostrazioni, processioni, pellegrinaggi. Il bisogno del sacro. Intemperante, smodato. Fatto di anima e corpo.
30
ottobre 2008
Monika Bulaj – Genti di Dio
Dal 30 ottobre al 16 novembre 2008
fotografia
incontro - conferenza
incontro - conferenza
Location
GALLERIA BEL VEDERE
Milano, Via Santa Maria Valle, 5, (Milano)
Milano, Via Santa Maria Valle, 5, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a domenica ore 13-20
Vernissage
30 Ottobre 2008, ore 18.30
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