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Mujeres al borde de un ataque de nervios
tre artiste: Olga, Valentina Glorioso, Elisa Gallenca
Comunicato stampa
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Mujeres al borde de un ataque de nervios è il titolo di uno dei film-culto del regista spagnolo Pedro Almodovar, girato nel 1988, più noto al pubblico italiano nella traduzione Donne sull’orlo di una crisi di nervi. La maggior parte delle scene del film si svolgono nel grande appartamento con terrazza e vista sulla Madrid monumentale di proprietà di Pepa, la protagonista, infelice attrice e doppiatrice appena mollata dal convivente donnaiolo Ivan.
Con ritmi molto teatrali, uno dopo l’altro entrano in scena i vari comprimari, dall’amica modella Candela alla coppia Marisa e Carlos (quest’ultimo figlio di Ivan), da Lucia, madre di Carlos, ai due poliziotti, fino all’uomo che deve riparare il telefono.
Su quest’ultimo, infatti, Pepa ha sfogato la sua rabbia per l’abbandono strappandone per due volte i fili, o tentando di scaraventarlo dalla finestra del suo attico spaccando una vetrata. È nell’ambito di questa dimensione domestica, simboleggiata dagli arredi e dagli elettrodomestici, che si consuma la lacerazione di Pepa, e proprio su queste cose si concentra la sua furia, nell’intento di esorcizzare la sofferenza. Se tenta di bruciare in un potente rogo il letto matrimoniale, ricordo della vita in comune con Ivan, è dinanzi al frullatore con cui prepara il micidiale gazpacho corretto con sonniferi che lancia a se stessa quella che è al contempo una promessa e una maledizione: “Sono stufa di essere buona!”.
Pur con un costante sorriso ironico, l’ansia si addensa sino a divenire tensione sempre più difficilmente controllabile, le mura di casa e gli oggetti del vissuto quotidiano si trasformano in simboli di violenza latente e aggressività, mentre i personaggi giocano la sfida con il proprio io e con l’istinto autolesionista, con la voglia di nascondersi, di abbandonarsi al sonno, al suicidio o alla fuga, con la follia latente o svelata, con la minaccia di pericoli esterni.
Questi stessi temi e contenuti li ritroviamo come un fil rouge nei lavori delle tre giovani artiste protagoniste della collettiva che, significativamente, porta proprio il titolo del capolavoro almodovariano. Nei loro lavori il letto o il divano sono il teatro dove vanno in scena l’abbandono e la solitudine, il frigorifero è una prigione, il coltello da cucina l’arma che ferisce e divide i due sessi, la lavatrice una voragine, antro proibito della propria intimità. Elisa Gallenca, Valentina Glorioso e Olga riassumono, tramite foto, dipinti e installazioni, i momenti di ordinaria follia e di squilibrio di una femminilità spesso in lotta con se stessa, con gli stereotipi ancora duri a morire, con la banale normalità di vita e sentimenti che incombe su ognuno di noi.
Elisa Gallenca (Torino, 1971) innesta all’interno dei suoi dipinti e disegni un meccanismo di straniamento, accostando elementi incongruenti tra loro per far emergere il non-senso e la violenza invisibile della vita quotidiana. Lo fa attraverso una figurazione essenziale, a tratti quasi elementare, dove, però, i dosaggi di gamme cromatiche, di spazi e forme sono in perfetto equilibrio o in un cercato squilibrio, fatto di prospettive rovesciate, vertiginosi sotto in su e tagli mai banali.
Protagonista ricorrente è la figura umana. Personaggi giovani, silenziosi, spesso senza volto o che ci danno le spalle, sospesi nelle loro solitudini, colti in gesti quotidiani come fare colazione, leggere un libro, dormire, ma che, dietro l’apparente normalità, divengono schegge impazzite, mostrando gli indizi nascosti della loro anormalità. Sono marionette avvolte in ragnatele di fili talmente sottili da essere appena percettibili, oppure portano sul loro corpo la traccia di una ferita, il foro di un colpo al cuore con un rivolo di sangue che sembra quasi il laccio da tirare per far muovere dei pupazzi e distoglierli dalla loro frontale immobilità. A volte compare anche l’immagine dell’artista stessa, che si ritrae nei suoi set immaginari facendo quasi da complice agli attori delle sue rappresentazioni del non-sense.
Anche lo spazio non è accogliente, ma aumenta il senso di malinconico disagio: ragazzi e ragazze chiusi dentro scatole come manichini, o entro interni claustrofobici e silenti che solo la luce o la stesura di un bianco o di un giallo fluorescente riescono ad animare. Dietro la scelta di cromie fresche, luminose, di toni chiari –bianchi, rosa, glicine – o squillanti, che sembrano conferire innocenza a quelle figure graficamente semplici, si cela la volontà di rendere ancora più forte il senso di sottile minaccia che sembra incombere su di loro, sui loro gesti, sull’apparente banalità del loro vivere di ogni giorno tra le mura domestiche.
Per la mostra Gallenca ha concepito anche un’istallazione inedita, un letto dove giace, dipinto su un copriletto, il suo autoritratto: è il ricordo di alcune notti trascorse a Palermo ospite in galleria. L’effigie diviene la traccia evocante la presenza, materializza il ricordo, ma allo stesso tempo sottolinea l’inesorabile scorrere del tempo che lascia nella memoria solo immagini che la pittura cerca di rendere meno labili.
Le fotografie di Valentina Glorioso (Palermo, 1977) sono la materializzazione delle immagini, delle scene e narrazioni già confezionate nella sua mente, e che poi attua ricostruendo scenari e situazioni come un set cinematografico. Oggetti, sfondi, personaggi, distanze, spazi, colori e luci, tutto è calibrato, studiato, pensato e ripensato quasi ossessivamente, obbedendo a un gusto del dettaglio curato senza lasciare nulla al caso e bandendo istintività e approssimazione.
Le foto sono, così, assolutamente cool, pervase da una lucida freddezza e da una eleganza impeccabile che contribuiscono ad aumentare il senso di disagio e inquietudine che pervade chi osserva i suoi personaggi senza volto che sembrano uscire dalle sequenze di un film noir, in una costante oscillazione tra realtà e finzione, cronaca e silente sospensione temporale.
La minaccia spesso si concretizza nella presenza di un’arma - un coltello, una pistola – che oppone e rende nemici i due membri di una coppia, un uomo e una donna, una sposa e uno sposo, metafora di un rapporto tra i due sessi che da una partita a scacchi con mosse e contromosse diviene lotta spietata.
Nei lavori inediti per questa mostra Valentina ha lavorato ispirandosi a un lavoro di Elisa Gallenca, mentre quest’ultima ha fatto lo stesso richiamando in un suo disegno la Sweet Home realizzata da Glorioso in seguito alla vittoria dell’ultima edizione del Premio Genio di Palermo.
Insistendo su un’ambiguità che amplifica la tensione, vediamo due personaggi immobili come manichini che si tengono per mano, mentre un rivolo di sangue che scende da un foro all’altezza del cuore macchia i loro abiti bianchi e si spande come chiazza sulle scarpe, inquinandone il candore. Su uno sfondo totalmente nero, azzerato, chi osserva si chiede da quale contesto, luogo, situazione provengano i due, anche se la loro rigidità sembra evocarci solo il freddo tavolo di un obitorio. Così sospesi nel vuoto potrebbero essere associati anche a due impiccati, due amanti uccisi e stretti nell’ultimo gesto di affetto, le mani intrecciate. Omicidio-suicidio? Gesto di follia? Il coltello da cucina che, nel secondo lavoro, divide i due personaggi posti l’uno di fronte all’altro, potrebbe suggerirci possibili soluzioni del giallo, ma nello stesso tempo, rivolto minacciosamente contro lo spettatore, sembra volerci dire: “attento, il prossimo potresti essere tu”.
Privato, troppo privato il mondo di Olga (Agrigento, 1973) che nelle sue foto mette in primo piano il rapporto con se stessa, con la sua intimità messa a nudo attraverso l’autorappresentazione del corpo e della sua fisionomia. Lo spazio della quotidianità diviene teatro di questa presa di possesso di sé, e gli oggetti della dimensione domestica – la lavatrice, il frigorifero –evidenziano, con forte valenza simbolica, alcuni ‘nodi’ fondamentali di una problematizzazione della sfera più personale.
Uno di questi è la sessualità, vissuta dall’artista come aspetto fondante e nello stesso tempo nota dolente: quasi a voler riproporre il celebre quadro di Courbet L’origine du monde (1866), dove il pittore francese dipinge con ostentazione il sesso femminile come origine della vita e fonte del desiderio, anche Olga, in alcune delle sue immagini fotografiche, si concentra su questa parte del corpo. La associa al grande oblò di una lavatrice, legandola, dunque, a una dimensione di peccato, a qualcosa a cui la società ha attribuito, e continua a farlo, una valenza negativa, da purificare a ogni costo.
Nelle sequenze delle sue fotografie l’artista mette in atto una voglia fortissima di comunicare se stessa e un disagio, come nei suoi autoritratti mascherata da clown in cui unisce riso e pianto, e dove celandoli tramite il cerone e le smorfie evidenzia, pur maltrattandoli, i tratti di bellezza della sua fisionomia.
La protagonista dei suoi scatti è sempre lei: suo è il corpo nudo schiacciato entro il frigorifero come uno dei tanti prodotti, simbolo, forse di una ribellione alla mercificazione del corpo o, ancor più sottilmente, di un rapporto problematico con il cibo. È lei, poi, che si riprende nuda, che si guarda ‘dentro’, che lancia allo spettatore sguardi che sono insieme di sfida e di richieste di aiuto, all’insegna di un narcisismo che si traduce in mostra di sé e in rivelazione cruda delle proprie debolezze.
Pur accentuando l’aspetto espressivo e contenutistico della sua opera, Olga non trascura quello della costruzione delle immagini, delle sequenze che imbastiscono una storia, microstorie di gesti semplici che sono, però, la rappresentazione di uno stato di tensione interiore profonda. E non tralascia nemmeno la messa in evidenza della bellezza e dell’armonia delle forme, di una fisicità che si compiace, sotto sotto, di offrirsi allo sguardo curioso e in certi casi voyeuristico di chi osserva. È come se lei stessa ci offrisse l’accesso al buco della serratura del suo essere.
Marina Giordano
Con ritmi molto teatrali, uno dopo l’altro entrano in scena i vari comprimari, dall’amica modella Candela alla coppia Marisa e Carlos (quest’ultimo figlio di Ivan), da Lucia, madre di Carlos, ai due poliziotti, fino all’uomo che deve riparare il telefono.
Su quest’ultimo, infatti, Pepa ha sfogato la sua rabbia per l’abbandono strappandone per due volte i fili, o tentando di scaraventarlo dalla finestra del suo attico spaccando una vetrata. È nell’ambito di questa dimensione domestica, simboleggiata dagli arredi e dagli elettrodomestici, che si consuma la lacerazione di Pepa, e proprio su queste cose si concentra la sua furia, nell’intento di esorcizzare la sofferenza. Se tenta di bruciare in un potente rogo il letto matrimoniale, ricordo della vita in comune con Ivan, è dinanzi al frullatore con cui prepara il micidiale gazpacho corretto con sonniferi che lancia a se stessa quella che è al contempo una promessa e una maledizione: “Sono stufa di essere buona!”.
Pur con un costante sorriso ironico, l’ansia si addensa sino a divenire tensione sempre più difficilmente controllabile, le mura di casa e gli oggetti del vissuto quotidiano si trasformano in simboli di violenza latente e aggressività, mentre i personaggi giocano la sfida con il proprio io e con l’istinto autolesionista, con la voglia di nascondersi, di abbandonarsi al sonno, al suicidio o alla fuga, con la follia latente o svelata, con la minaccia di pericoli esterni.
Questi stessi temi e contenuti li ritroviamo come un fil rouge nei lavori delle tre giovani artiste protagoniste della collettiva che, significativamente, porta proprio il titolo del capolavoro almodovariano. Nei loro lavori il letto o il divano sono il teatro dove vanno in scena l’abbandono e la solitudine, il frigorifero è una prigione, il coltello da cucina l’arma che ferisce e divide i due sessi, la lavatrice una voragine, antro proibito della propria intimità. Elisa Gallenca, Valentina Glorioso e Olga riassumono, tramite foto, dipinti e installazioni, i momenti di ordinaria follia e di squilibrio di una femminilità spesso in lotta con se stessa, con gli stereotipi ancora duri a morire, con la banale normalità di vita e sentimenti che incombe su ognuno di noi.
Elisa Gallenca (Torino, 1971) innesta all’interno dei suoi dipinti e disegni un meccanismo di straniamento, accostando elementi incongruenti tra loro per far emergere il non-senso e la violenza invisibile della vita quotidiana. Lo fa attraverso una figurazione essenziale, a tratti quasi elementare, dove, però, i dosaggi di gamme cromatiche, di spazi e forme sono in perfetto equilibrio o in un cercato squilibrio, fatto di prospettive rovesciate, vertiginosi sotto in su e tagli mai banali.
Protagonista ricorrente è la figura umana. Personaggi giovani, silenziosi, spesso senza volto o che ci danno le spalle, sospesi nelle loro solitudini, colti in gesti quotidiani come fare colazione, leggere un libro, dormire, ma che, dietro l’apparente normalità, divengono schegge impazzite, mostrando gli indizi nascosti della loro anormalità. Sono marionette avvolte in ragnatele di fili talmente sottili da essere appena percettibili, oppure portano sul loro corpo la traccia di una ferita, il foro di un colpo al cuore con un rivolo di sangue che sembra quasi il laccio da tirare per far muovere dei pupazzi e distoglierli dalla loro frontale immobilità. A volte compare anche l’immagine dell’artista stessa, che si ritrae nei suoi set immaginari facendo quasi da complice agli attori delle sue rappresentazioni del non-sense.
Anche lo spazio non è accogliente, ma aumenta il senso di malinconico disagio: ragazzi e ragazze chiusi dentro scatole come manichini, o entro interni claustrofobici e silenti che solo la luce o la stesura di un bianco o di un giallo fluorescente riescono ad animare. Dietro la scelta di cromie fresche, luminose, di toni chiari –bianchi, rosa, glicine – o squillanti, che sembrano conferire innocenza a quelle figure graficamente semplici, si cela la volontà di rendere ancora più forte il senso di sottile minaccia che sembra incombere su di loro, sui loro gesti, sull’apparente banalità del loro vivere di ogni giorno tra le mura domestiche.
Per la mostra Gallenca ha concepito anche un’istallazione inedita, un letto dove giace, dipinto su un copriletto, il suo autoritratto: è il ricordo di alcune notti trascorse a Palermo ospite in galleria. L’effigie diviene la traccia evocante la presenza, materializza il ricordo, ma allo stesso tempo sottolinea l’inesorabile scorrere del tempo che lascia nella memoria solo immagini che la pittura cerca di rendere meno labili.
Le fotografie di Valentina Glorioso (Palermo, 1977) sono la materializzazione delle immagini, delle scene e narrazioni già confezionate nella sua mente, e che poi attua ricostruendo scenari e situazioni come un set cinematografico. Oggetti, sfondi, personaggi, distanze, spazi, colori e luci, tutto è calibrato, studiato, pensato e ripensato quasi ossessivamente, obbedendo a un gusto del dettaglio curato senza lasciare nulla al caso e bandendo istintività e approssimazione.
Le foto sono, così, assolutamente cool, pervase da una lucida freddezza e da una eleganza impeccabile che contribuiscono ad aumentare il senso di disagio e inquietudine che pervade chi osserva i suoi personaggi senza volto che sembrano uscire dalle sequenze di un film noir, in una costante oscillazione tra realtà e finzione, cronaca e silente sospensione temporale.
La minaccia spesso si concretizza nella presenza di un’arma - un coltello, una pistola – che oppone e rende nemici i due membri di una coppia, un uomo e una donna, una sposa e uno sposo, metafora di un rapporto tra i due sessi che da una partita a scacchi con mosse e contromosse diviene lotta spietata.
Nei lavori inediti per questa mostra Valentina ha lavorato ispirandosi a un lavoro di Elisa Gallenca, mentre quest’ultima ha fatto lo stesso richiamando in un suo disegno la Sweet Home realizzata da Glorioso in seguito alla vittoria dell’ultima edizione del Premio Genio di Palermo.
Insistendo su un’ambiguità che amplifica la tensione, vediamo due personaggi immobili come manichini che si tengono per mano, mentre un rivolo di sangue che scende da un foro all’altezza del cuore macchia i loro abiti bianchi e si spande come chiazza sulle scarpe, inquinandone il candore. Su uno sfondo totalmente nero, azzerato, chi osserva si chiede da quale contesto, luogo, situazione provengano i due, anche se la loro rigidità sembra evocarci solo il freddo tavolo di un obitorio. Così sospesi nel vuoto potrebbero essere associati anche a due impiccati, due amanti uccisi e stretti nell’ultimo gesto di affetto, le mani intrecciate. Omicidio-suicidio? Gesto di follia? Il coltello da cucina che, nel secondo lavoro, divide i due personaggi posti l’uno di fronte all’altro, potrebbe suggerirci possibili soluzioni del giallo, ma nello stesso tempo, rivolto minacciosamente contro lo spettatore, sembra volerci dire: “attento, il prossimo potresti essere tu”.
Privato, troppo privato il mondo di Olga (Agrigento, 1973) che nelle sue foto mette in primo piano il rapporto con se stessa, con la sua intimità messa a nudo attraverso l’autorappresentazione del corpo e della sua fisionomia. Lo spazio della quotidianità diviene teatro di questa presa di possesso di sé, e gli oggetti della dimensione domestica – la lavatrice, il frigorifero –evidenziano, con forte valenza simbolica, alcuni ‘nodi’ fondamentali di una problematizzazione della sfera più personale.
Uno di questi è la sessualità, vissuta dall’artista come aspetto fondante e nello stesso tempo nota dolente: quasi a voler riproporre il celebre quadro di Courbet L’origine du monde (1866), dove il pittore francese dipinge con ostentazione il sesso femminile come origine della vita e fonte del desiderio, anche Olga, in alcune delle sue immagini fotografiche, si concentra su questa parte del corpo. La associa al grande oblò di una lavatrice, legandola, dunque, a una dimensione di peccato, a qualcosa a cui la società ha attribuito, e continua a farlo, una valenza negativa, da purificare a ogni costo.
Nelle sequenze delle sue fotografie l’artista mette in atto una voglia fortissima di comunicare se stessa e un disagio, come nei suoi autoritratti mascherata da clown in cui unisce riso e pianto, e dove celandoli tramite il cerone e le smorfie evidenzia, pur maltrattandoli, i tratti di bellezza della sua fisionomia.
La protagonista dei suoi scatti è sempre lei: suo è il corpo nudo schiacciato entro il frigorifero come uno dei tanti prodotti, simbolo, forse di una ribellione alla mercificazione del corpo o, ancor più sottilmente, di un rapporto problematico con il cibo. È lei, poi, che si riprende nuda, che si guarda ‘dentro’, che lancia allo spettatore sguardi che sono insieme di sfida e di richieste di aiuto, all’insegna di un narcisismo che si traduce in mostra di sé e in rivelazione cruda delle proprie debolezze.
Pur accentuando l’aspetto espressivo e contenutistico della sua opera, Olga non trascura quello della costruzione delle immagini, delle sequenze che imbastiscono una storia, microstorie di gesti semplici che sono, però, la rappresentazione di uno stato di tensione interiore profonda. E non tralascia nemmeno la messa in evidenza della bellezza e dell’armonia delle forme, di una fisicità che si compiace, sotto sotto, di offrirsi allo sguardo curioso e in certi casi voyeuristico di chi osserva. È come se lei stessa ci offrisse l’accesso al buco della serratura del suo essere.
Marina Giordano
11
novembre 2004
Mujeres al borde de un ataque de nervios
Dall'undici novembre all'undici dicembre 2004
giovane arte
Location
FRANCESCO PANTALEONE ARTECONTEMPORANEA (sede chiusa)
Palermo, Piazzetta Garraffello, 25, (Palermo)
Palermo, Piazzetta Garraffello, 25, (Palermo)
Orario di apertura
il giovedì dalle 16.00 alle 20.00 gli altri giorni su appuntamento
Vernissage
11 Novembre 2004, ore 19
Autore
Curatore