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Nasan Tur
Per Nasan Tur sarebbe lo scopo ultimo di un’opera d’arte sarebbe mettere in dubbio la verità di ciò che vediamo, che ci viene fatto vedere, che sappiamo, che ci si vuol far sapere. E non disperare che un altro mondo, un’altra verità, un altro modo di vedere siano possibili.
Comunicato stampa
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Nel greco antico il verbo “vedere” coniugato al perfetto, che è una sorta di passato, significa anche sapere. Come dire, io so perché ho visto. Gli studi classici non sono più di moda, dunque è piuttosto improbabile che qualcuno ricordi che orao (vedere) nella forma del perfetto è oida e ha molto a che fare con la parola “idea”, provenendo dalla stessa radice indoeuropea wid dalla quale scaturisce anche il campo lessicale del latino video. Questo, come invece chi sa un po’ di estetica contemporanea riconosce senza difficoltà, è il modo di lavorare dell’arte concettuale. Far vedere e far sapere come fossero un’unica azione è la missione di quegli artisti il cui scopo non è mostrare qualcosa di nuovo ma indicare che ogni cosa può essere conosciuta davvero solo nell’atto dell’esposizione, cioè della visione. In un certo modo si potrebbe dire che l’arte concettuale è il codice che rende pensabile quello che vediamo e soprattutto quello che non sappiamo di aver visto e che, se non impariamo a sapere, non potremo neanche mai dire di aver visto. Quando però vogliamo farci un’idea del mondo che ci circonda, nell’epoca della comunicazione integrata, dove tutto ciò che appare è già fortemente connotato, come se ogni immagine fosse già vista, saputa e risaputa, diventa chiaro che si deve saper di vedere proprio questo congegno ideologico per poi mostrarlo. Così almeno crede Nasan Tur, l’artista concettuale che crea con destrezza e velocità spazi ambigui, quasi clandestini, tra ciò che vediamo e sappiamo nel flusso della comunicazione sociale e politica, agendo sulla sintassi più che sulla grammatica dei comportamenti e delle rappresentazioni. Il suo punto di vista infatti è che la verità di ciò che vediamo si forma nel concatenamento sociale di segno, significato e contesto. La verità per lui è un processo politico, non un dato di fatto individuale. Manipolabile e reversibile. E allora manomettere e alterare i meccanismi di riproduzione del rapporto tra immagine e sapere condiviso e stabilizzato è il modo di Nasan Tur per orientare il vedere verso una consapevolezza che è innanzitutto dubbio, ricerca, critica. Errori, contraddizioni, repentini capovolgimenti di senso sembrano atti sovversivi, armi classiche di ogni avanguardia, eppure qui non si tratta di definire o smentire, né di stupire o di irritare, qui la questione è prendersi il tempo necessario, guadagnare una pausa di riflessione per comprendere e magari scuotere l’indifferenza a cui siamo condannati dal senso comune delle cose e delle immagini mediatiche. Non c’è un pubblico borghese da provocare, né una comunità culturale con la quale sottilizzare su questioni di forma e di stile. Qui l’arte è un linguaggio in presa diretta sulla realtà sociale e politica. Noi dobbiamo vedere e sapere. Cioè dobbiamo imparare che si dovrebbe cominciare a vedere in un modo che ancora non sappiamo. E, sapendo che spesso non sappiamo ciò che vediamo, dovremmo provare a immaginarlo. Questo per Nasan Tur sarebbe lo scopo ultimo di un’opera d’arte: mettere in dubbio la verità di ciò che vediamo, che ci viene fatto vedere, che sappiamo, che ci si vuol far sapere. E non disperare che un altro mondo, un’altra verità, un altro modo di vedere siano possibili. Se poi ci chiediamo che cosa sia e a che cosa serva l’arte, si può tentare una risposta: l’arte è un’etica dell’immaginazione.