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Nelle pieghe della storia. Agostino Bonalumi, Sandro De Alexandris
Dal 10 giugno al 30 settembre la Galleria 10 A.M. ART di Milano organizza la mostra “Nelle pieghe della storia. Agostino Bonalumi, Sandro De Alexandris”.
Nell’esposizione un’importante selezione di opere degli anni Sessanta e Settanta che apre un dialogo inedito tra le ricerche dei due artisti.
Comunicato stampa
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Dal 10 giugno al 30 settembre la Galleria 10 A.M. ART di Milano organizza la mostra Nelle pieghe della storia. Agostino Bonalumi, Sandro De Alexandris.
Nell’esposizione un’importante selezione di opere degli anni Sessanta e Settanta che apre un dialogo inedito tra le ricerche dei due artisti.
Così scrive il curatore Marco Meneguzzo:
"L’abitudine a un tipo di lettura della storia – di tutte le storie – di solito è generata da un’interpretazione molto convincente di quel che è accaduto, e anche dalle inevitabili generalizzazioni che la distanza temporale dagli avvenimenti ingenera proprio in quelle interpretazioni. La storia dell’arte, che pure è fatta di individui oltre che da linguaggi, non è esente da queste generalizzazioni e da queste abitudini: la catalogazione per movimenti e per fasi susseguenti le une alle altre è davvero comoda (in un’ottica di divulgazione scolastica o salottiera) e consente di collocare ciascuno – opera o artista – nel posto che la cronaca e la vulgata gli attribuisce, e quindi di definirlo una volta per tutte (!), in modo da rendere chiaro ciò di cui stiamo parlando, e comunque il territorio entro cui ci muoviamo.
Fortunatamente, la storia è una faccenda dinamica che, anche senza ricorrere a revisionismi impossibili, nell’urgenza di precisare alcuni momenti importanti del suo corso – importanti per noi, non per la storia che in sé è indifferente –, insieme alle generalizzazioni cerca al polo opposto di affinare il proprio sguardo, di renderlo più acuto sino a trovare delle vene “carsiche” del proprio corso che da un lato si discostano dalla corrente principale, e dall’altro magari ritrovano in tutt’altra direzione parte di quella corrente che si riteneva scorresse tranquilla verso la foce. Prendiamo a esempio la grande stagione italiana della neoavanguardia immediatamente a ridosso del 1960, che vede in Agostino Bonalumi e in Enrico Castellani (un poco meno in Piero Manzoni) i maggiori interpreti della nuova condizione della “superficie”, dopo il gesto assoluto del “taglio” della stessa da parte di Lucio Fontana. Sono loro che cercano – allegoricamente e fisicamente – di “ricucire lo strappo” e di ricostruire su nuove e più ampie categorie quello che è il rapporto con un elemento imprescindibile – la superficie – dell’arte. Insieme a loro pochi altri – Paolo Scheggi, Dadamaino, Turi Simeti – e poi più nulla: tutti coloro che sono venuti dopo sono stati considerati epigoni perché troppo simili formalmente a quelli, tanto da sfiorare talvolta il plagio. Ma se questi sono da liquidare come dei copisti, la domanda che lo storico si deve porre è un’altra, ben più complessa: è possibile che una categoria così importante come la “superficie” sia stata affrontata in quegli anni, da quei pochi (naturalmente stiamo parlando di Italia, non di mondo, dove tuttavia è accaduto qualcosa di simile, ma non con la nostra pervicace cecità), e poi accantonata, come se tutto fosse risolto e soprattutto confinato in quelle esperienze?
Ecco allora che l’immagine del fiume carsico può rendere la sensazione che non si sia esplorato abbastanza, e che una parte delle acque di quel mainstream si sia riversata in altre vene più nascoste e sotterranee, per riemergere come qualcosa di nuovo, in luoghi e periodi apparentemente lontani da quella originaria esperienza.
La ricerca di Sandro De Alexandris, comparata con quella di Agostino Bonalumi, dà conto plasticamente a questa possibilità, di come due artisti raramente messi a confronto o anche solo avvicinati, possano rivelare parentele linguistiche non così lontane. Nelle pieghe della storia, cioè, si può nascondere ancora qualcosa di non visto, di non rilevato, che storicamente apre nuove prospettive di interpretazione su esperienze comunemente considerate indipendenti le une dalle altre. E proprio da una “piega” inizia l’indagine, quella piega sulla superficie che caratterizza i primi lavori di De Alexandris (dal 1964) e che poi si trasformerà in qualcos’altro. Quella piega è una piega reale, un corrugamento geometricamente determinato sulla superficie, una modifica fisica su un campo concettuale, tradizionalmente legato alla rappresentazione, qual è la tela. Quando la tela – o la carta, che diverrà materiale privilegiato di De Alexandris – viene piegata, smette di essere un semplice supporto e diventa un elemento protagonista dell’opera, che da quella piega è determinata. Bonalumi e quelli della sua generazione (che non sono poi così lontani, essendo Bonalumi nato nel 1935 e De Alexandris nel 1939) avevano già dichiarato nei fatti che la superficie “era” l’opera, sino ad accettare la definizione che Gillo Dorfles dava di queste esperienze come “pittura-oggetto”, e loro era il merito di una sorta di eroicità neoavanguardistica nell’accettare la rivoluzione di Fontana e nel portarla avanti “con altri mezzi”, citando von Clausewitz, ma così facendo aprivano a territori vasti e sconosciuti, la cui esplorazione prometteva grandi sviluppi… invece, la storia dell’arte così come la conosciamo ha praticamente dichiarato conclusa quella stagione coi suoi primi scopritori. Forse non ha saputo vedere che quella ricerca aveva preso un’altra piega (ancora!). Come avviene quando si getta un sasso in uno stagno, la perturbazione della quiete originaria dell’acqua – metafora per indicare l’azione dirompente di Fontana, senza il quale probabilmente quello stagno sarebbe rimasto immoto – genera alte onde vicine all’impatto – Bonalumi e Castellani –, per poi ritornare all’entropia iniziale attraverso onde sempre meno rilevate. Ma quello stagno, comunque, non è più lo stesso. E poi, persino nella metafora esiste una specie di somiglianza formale, se si considera quanto siano rilevate le superfici di Bonalumi, sin quasi ad essere degli altorilievi, e come questi rilievi si facciano sempre più minimi e minimali in De Alexandris, tanto da non venire neppure riconosciuto come frutto di quell’azione primaria di Fontana. Per lui si parla piuttosto di “analiticità”, ed è giustissimo, ma questa non è anche il frutto di quell’intuizione che in maniera così netta e precisa ha posto l’accento su cosa sia la superficie, e di converso, su cosa sia la pittura? Ecco allora che una derivazione critica della cosiddetta pittura analitica dalle superfici estroflesse dei sodali di Fontana si potrebbe affiancare alla visione tradizionale di una derivazione di quella tendenza dall’astrazione geometrica e radicale. Una visione non peregrina, in cui non ci sono più epigoni, ma analisti."
Nell’esposizione un’importante selezione di opere degli anni Sessanta e Settanta che apre un dialogo inedito tra le ricerche dei due artisti.
Così scrive il curatore Marco Meneguzzo:
"L’abitudine a un tipo di lettura della storia – di tutte le storie – di solito è generata da un’interpretazione molto convincente di quel che è accaduto, e anche dalle inevitabili generalizzazioni che la distanza temporale dagli avvenimenti ingenera proprio in quelle interpretazioni. La storia dell’arte, che pure è fatta di individui oltre che da linguaggi, non è esente da queste generalizzazioni e da queste abitudini: la catalogazione per movimenti e per fasi susseguenti le une alle altre è davvero comoda (in un’ottica di divulgazione scolastica o salottiera) e consente di collocare ciascuno – opera o artista – nel posto che la cronaca e la vulgata gli attribuisce, e quindi di definirlo una volta per tutte (!), in modo da rendere chiaro ciò di cui stiamo parlando, e comunque il territorio entro cui ci muoviamo.
Fortunatamente, la storia è una faccenda dinamica che, anche senza ricorrere a revisionismi impossibili, nell’urgenza di precisare alcuni momenti importanti del suo corso – importanti per noi, non per la storia che in sé è indifferente –, insieme alle generalizzazioni cerca al polo opposto di affinare il proprio sguardo, di renderlo più acuto sino a trovare delle vene “carsiche” del proprio corso che da un lato si discostano dalla corrente principale, e dall’altro magari ritrovano in tutt’altra direzione parte di quella corrente che si riteneva scorresse tranquilla verso la foce. Prendiamo a esempio la grande stagione italiana della neoavanguardia immediatamente a ridosso del 1960, che vede in Agostino Bonalumi e in Enrico Castellani (un poco meno in Piero Manzoni) i maggiori interpreti della nuova condizione della “superficie”, dopo il gesto assoluto del “taglio” della stessa da parte di Lucio Fontana. Sono loro che cercano – allegoricamente e fisicamente – di “ricucire lo strappo” e di ricostruire su nuove e più ampie categorie quello che è il rapporto con un elemento imprescindibile – la superficie – dell’arte. Insieme a loro pochi altri – Paolo Scheggi, Dadamaino, Turi Simeti – e poi più nulla: tutti coloro che sono venuti dopo sono stati considerati epigoni perché troppo simili formalmente a quelli, tanto da sfiorare talvolta il plagio. Ma se questi sono da liquidare come dei copisti, la domanda che lo storico si deve porre è un’altra, ben più complessa: è possibile che una categoria così importante come la “superficie” sia stata affrontata in quegli anni, da quei pochi (naturalmente stiamo parlando di Italia, non di mondo, dove tuttavia è accaduto qualcosa di simile, ma non con la nostra pervicace cecità), e poi accantonata, come se tutto fosse risolto e soprattutto confinato in quelle esperienze?
Ecco allora che l’immagine del fiume carsico può rendere la sensazione che non si sia esplorato abbastanza, e che una parte delle acque di quel mainstream si sia riversata in altre vene più nascoste e sotterranee, per riemergere come qualcosa di nuovo, in luoghi e periodi apparentemente lontani da quella originaria esperienza.
La ricerca di Sandro De Alexandris, comparata con quella di Agostino Bonalumi, dà conto plasticamente a questa possibilità, di come due artisti raramente messi a confronto o anche solo avvicinati, possano rivelare parentele linguistiche non così lontane. Nelle pieghe della storia, cioè, si può nascondere ancora qualcosa di non visto, di non rilevato, che storicamente apre nuove prospettive di interpretazione su esperienze comunemente considerate indipendenti le une dalle altre. E proprio da una “piega” inizia l’indagine, quella piega sulla superficie che caratterizza i primi lavori di De Alexandris (dal 1964) e che poi si trasformerà in qualcos’altro. Quella piega è una piega reale, un corrugamento geometricamente determinato sulla superficie, una modifica fisica su un campo concettuale, tradizionalmente legato alla rappresentazione, qual è la tela. Quando la tela – o la carta, che diverrà materiale privilegiato di De Alexandris – viene piegata, smette di essere un semplice supporto e diventa un elemento protagonista dell’opera, che da quella piega è determinata. Bonalumi e quelli della sua generazione (che non sono poi così lontani, essendo Bonalumi nato nel 1935 e De Alexandris nel 1939) avevano già dichiarato nei fatti che la superficie “era” l’opera, sino ad accettare la definizione che Gillo Dorfles dava di queste esperienze come “pittura-oggetto”, e loro era il merito di una sorta di eroicità neoavanguardistica nell’accettare la rivoluzione di Fontana e nel portarla avanti “con altri mezzi”, citando von Clausewitz, ma così facendo aprivano a territori vasti e sconosciuti, la cui esplorazione prometteva grandi sviluppi… invece, la storia dell’arte così come la conosciamo ha praticamente dichiarato conclusa quella stagione coi suoi primi scopritori. Forse non ha saputo vedere che quella ricerca aveva preso un’altra piega (ancora!). Come avviene quando si getta un sasso in uno stagno, la perturbazione della quiete originaria dell’acqua – metafora per indicare l’azione dirompente di Fontana, senza il quale probabilmente quello stagno sarebbe rimasto immoto – genera alte onde vicine all’impatto – Bonalumi e Castellani –, per poi ritornare all’entropia iniziale attraverso onde sempre meno rilevate. Ma quello stagno, comunque, non è più lo stesso. E poi, persino nella metafora esiste una specie di somiglianza formale, se si considera quanto siano rilevate le superfici di Bonalumi, sin quasi ad essere degli altorilievi, e come questi rilievi si facciano sempre più minimi e minimali in De Alexandris, tanto da non venire neppure riconosciuto come frutto di quell’azione primaria di Fontana. Per lui si parla piuttosto di “analiticità”, ed è giustissimo, ma questa non è anche il frutto di quell’intuizione che in maniera così netta e precisa ha posto l’accento su cosa sia la superficie, e di converso, su cosa sia la pittura? Ecco allora che una derivazione critica della cosiddetta pittura analitica dalle superfici estroflesse dei sodali di Fontana si potrebbe affiancare alla visione tradizionale di una derivazione di quella tendenza dall’astrazione geometrica e radicale. Una visione non peregrina, in cui non ci sono più epigoni, ma analisti."
10
giugno 2021
Nelle pieghe della storia. Agostino Bonalumi, Sandro De Alexandris
Dal 10 giugno al 30 settembre 2021
arte contemporanea
Location
10 A.M. ART
Milano, Corso San Gottardo, 5
Milano, Corso San Gottardo, 5
Orario di apertura
Dal Martedì al Venerdì dalle 10.00 - 12.30 e 14.30 - 18.00.
Altri giorni solo su appuntamento
Vernissage
10 Giugno 2021, 10 Giugno 2021, ore 17.00
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Curatore
Autore testo critico
Progetto grafico
Trasporti