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NEW-PEP. Il quadro non è che un prodotto
C’era una volta la Pop Art. Un’arte fatta per le masse. Nata per la gente. Prodotta per il popolo. Popular, appunto. Da ingurgitare e consumare, esattamente come qualsiasi altro prodotto.
Erano gli anni ’50-’60. Andy Warhol, con la sua produzione seriale di ritratti serigrafati, dava inizio ad una sorta di catena di montaggio dell’arte.
Comunicato stampa
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C’era una volta la Pop Art.
Un’arte fatta per le masse. Nata per la gente. Prodotta per il popolo.
Popular, appunto. Da ingurgitare e consumare, esattamente come qualsiasi altro prodotto.
Erano gli anni ’50-’60. Andy Wharol, con la sua produzione seriale di ritratti serigrafati, dava inizio ad una sorta di catena di montaggio dell’arte.
Trasponeva nella sua Factory la versione post-moderna della rinascimentale bottega d’artista, avvallando la teoria riguardante l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica già esposta da Walter Banjamin nel 1935, e secondo la quale un’immagine più volte vista – dunque riconoscibile perché entrata a far parte del bagaglio iconico collettivo –, avrebbe in sé il potenziale per diventare un eccezionale veicolo comunicativo. Un veicolo dall’idioma chiaro e fruibile e dall’impatto immediato, capace di propagare messaggi valicanti lo status decorativo dell’immagine.
Negli anni del Pop artisti come Warhol, Oldenburg e Dine recuperavano i loro soggetti direttamente dagli scaffali di un supermercato o nei fast food, operando, in termini di scelta iconografica, una autentica decontestualizzazione duchampiana, capace di convertire un prodotto riconoscibile in opera d’arte.
Quel prodotto, però, veniva ri-prodotto in chiave artistica, mediante tecniche grafiche, pittoriche o scultoree. Era, dunque, l’arte che imitava il prodotto da scaffale o l’icona holliwoodiana, per rendersi istantaneamente fruibile.
Oggi, a distanza di più di mezzo secolo, un artista come Pep Marchegiani decide di ribaltare i principi di base della Pop Art, nonché le regole di mercato. Capisce che, per essere comunicativamente incisiva, l’immagine riconoscibile – il marchio, il logo, il ritratto o la caricatura del personaggio noto - deve essere riprodotta su supporti accessibili al grande pubblico, ovvero a quella fetta piuttosto farcita di gente che nelle gallerie e nei musei non entra quasi mai.
Come afferma lo stesso Pep: “Il messaggio è indubbiamente lo stesso, quello che cambia è la scelta del supporto sul quale produrlo. La differenza è nella tecnica”.
È il prodotto stesso a farsi arte. Non più il dipinto, la serigrafia o la scultura, già capaci di ritrarlo e riprodurlo quale totem per la memoria iconica di massa.
Il prodotto è già messaggio. Ma nella produzione di Pep Marchegiani si fa opera d’arte riproducibile, facilmente acquistabile, e altamente comunicativa.
E lo stile adottato per perseguire un tale obiettivo non poteva che essere palesemente popular: essenziale, illustrativo e pubblicitario. Contorni netti e campiture. Talvolta piatte, talaltra strutturate a costruire volumi per livelli di gradazioni tonali.
A questo punto è naturale captare che, se l’immagine viene riprodotta su felpe, t-shirt, borse, cover per iPhone o ruote di mountain bikes, la porzione di pubblico predisposta a riconoscerla e fagocitarla sarà più variegata.
Come afferma lo stesso Pep “... trovo che l’opera debba comunicare sui più disparati supporti e essere alla portata di tutti dal collezionista al collezionista”.
Le sue opere-prodotto divulgano messaggi visivi audaci e impertinenti. Più precisamente agiscono una denuncia sociale, sfrontata e mai esiziale. Sono critiche formulate in chiave ironica e polemica. Accuse sottili (ma non troppo), edulcorate dalla nettezza del segno e del colore.
Con la stessa celerità di un rotocalco o di una pagina web, Marchegiani coglie la notizia, la mastica e la trasforma graficamente in un messaggio visivo da stampare e vendere al dettaglio.
È così che nascono cicli in cui le immagini denunciano apertamente il principio di ‘sfruttamento’ – umano, fisico e culturale – sul quale si fonda il profitto stesso delle imprese. È il caso di Multinational. “Se penso al contenuto di un Big Mac – asserisce l’artista – mi viene in mente di denunciarli per strage”.
Ecco allora personaggi politici mutare ridicolmente in icone manga o eroi dei fumetti e dei cartoons. È il caso di Umberto Bossi, trasformato in una sconcertante Hello Kitty! Perché secondo Pep, uno come lui non può che essere il prodotto di una multinazionale: “… un essere umano pensa e comunica, il Bossi-Kitty esegue e si rompe, viene stampato su maglie ed è venduto grazie alla sua confezione con tanto di slogan sul ‘cell'hoddùro’… In sostanza Bossi è la risposta padana ad Hello Kittty, come il Trota è l'anti My Melody…”
La forza comunicativa e mediatica di Pep Marchigiani è testimoniata dai 20.000 visitatori che cliccano ogni giorno sulla sua pagina Facebook. Mentre il suo brand è prodotto in licenza da grandi aziende, e risulta presente in circa 200 boutique di alto livello.
Una forza comunicativa pari a quella che le sue tele hanno in galleria. Perché ora il collezionista non è il più soltanto il colto amatore d’arte, ma è anche - e soprattutto – l’anonimo cittadino che indossa una felpa o una t-shirt.
In questo senso, la produzione e riproduzione di Marchegiani sembra andare ben oltre il concetto di Neo o New Pop. Si potrebbe parlare piuttosto di tendenza New Pep!
Quando il quadro non è che un prodotto, e la vera opera d’arte diventa la t-shirt.
A primavera inoltrata, in un festival di mutevoli cromie, la Galleria Famiglia Margini di Milano ospita le sensazionali e sovversive creazioni di Pep Marchegiani, in una mostra che rovescerà il vostro modo di percepire l’oggetto d’arte.
Sardonici ritratti e irriverenti caricature immortaleranno i grandi inganni della società contemporanea. Troverete magliette appese alle pareti come fossero quadri, e cover per cellulari esposte su piedistalli. Non mancheranno le irriverenti pitto-sculture e i multipli in formato polaroid. L’arte trascenderà l’arte, per diventare oggetto d’uso quotidiano.
E la causticità dell’immagine crescerà in modo esponenziale, proprio grazie all’istantanea riconoscibilità di loghi e soggetti, impastati con lungimiranza dell’artista.
Perché l’opera non è più pezzo unico da museo, ma può diventare oggetto riproducibile.
Oggetto d’arte o oggetto d’uso. Indossabile e godibile.
Nasce una nuova forma di collezionismo di massa.
Il messaggio visivo è immediatamente vendibile a chiunque.
L’arte esce della galleria per entrare nel guardaroba della gente.
Un modo decisamente esclusivo per fornire a compratori provenienti da qualsiasi status sociale, e di qualsiasi livello culturale, una nuova chiave di lettura della realtà.
Perché, per dirla con le parole di Janet Wolff:
“…. l’attività artistica intesa come genere di lavoro unico, con un prodotto anch’esso unico, addirittura trascendentale, è un’idea errata, basata su determinati sviluppi storici, generalizzata erroneamente ed erroneamente considerata essenziale alla natura dell’arte.”
Un’arte fatta per le masse. Nata per la gente. Prodotta per il popolo.
Popular, appunto. Da ingurgitare e consumare, esattamente come qualsiasi altro prodotto.
Erano gli anni ’50-’60. Andy Wharol, con la sua produzione seriale di ritratti serigrafati, dava inizio ad una sorta di catena di montaggio dell’arte.
Trasponeva nella sua Factory la versione post-moderna della rinascimentale bottega d’artista, avvallando la teoria riguardante l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica già esposta da Walter Banjamin nel 1935, e secondo la quale un’immagine più volte vista – dunque riconoscibile perché entrata a far parte del bagaglio iconico collettivo –, avrebbe in sé il potenziale per diventare un eccezionale veicolo comunicativo. Un veicolo dall’idioma chiaro e fruibile e dall’impatto immediato, capace di propagare messaggi valicanti lo status decorativo dell’immagine.
Negli anni del Pop artisti come Warhol, Oldenburg e Dine recuperavano i loro soggetti direttamente dagli scaffali di un supermercato o nei fast food, operando, in termini di scelta iconografica, una autentica decontestualizzazione duchampiana, capace di convertire un prodotto riconoscibile in opera d’arte.
Quel prodotto, però, veniva ri-prodotto in chiave artistica, mediante tecniche grafiche, pittoriche o scultoree. Era, dunque, l’arte che imitava il prodotto da scaffale o l’icona holliwoodiana, per rendersi istantaneamente fruibile.
Oggi, a distanza di più di mezzo secolo, un artista come Pep Marchegiani decide di ribaltare i principi di base della Pop Art, nonché le regole di mercato. Capisce che, per essere comunicativamente incisiva, l’immagine riconoscibile – il marchio, il logo, il ritratto o la caricatura del personaggio noto - deve essere riprodotta su supporti accessibili al grande pubblico, ovvero a quella fetta piuttosto farcita di gente che nelle gallerie e nei musei non entra quasi mai.
Come afferma lo stesso Pep: “Il messaggio è indubbiamente lo stesso, quello che cambia è la scelta del supporto sul quale produrlo. La differenza è nella tecnica”.
È il prodotto stesso a farsi arte. Non più il dipinto, la serigrafia o la scultura, già capaci di ritrarlo e riprodurlo quale totem per la memoria iconica di massa.
Il prodotto è già messaggio. Ma nella produzione di Pep Marchegiani si fa opera d’arte riproducibile, facilmente acquistabile, e altamente comunicativa.
E lo stile adottato per perseguire un tale obiettivo non poteva che essere palesemente popular: essenziale, illustrativo e pubblicitario. Contorni netti e campiture. Talvolta piatte, talaltra strutturate a costruire volumi per livelli di gradazioni tonali.
A questo punto è naturale captare che, se l’immagine viene riprodotta su felpe, t-shirt, borse, cover per iPhone o ruote di mountain bikes, la porzione di pubblico predisposta a riconoscerla e fagocitarla sarà più variegata.
Come afferma lo stesso Pep “... trovo che l’opera debba comunicare sui più disparati supporti e essere alla portata di tutti dal collezionista al collezionista”.
Le sue opere-prodotto divulgano messaggi visivi audaci e impertinenti. Più precisamente agiscono una denuncia sociale, sfrontata e mai esiziale. Sono critiche formulate in chiave ironica e polemica. Accuse sottili (ma non troppo), edulcorate dalla nettezza del segno e del colore.
Con la stessa celerità di un rotocalco o di una pagina web, Marchegiani coglie la notizia, la mastica e la trasforma graficamente in un messaggio visivo da stampare e vendere al dettaglio.
È così che nascono cicli in cui le immagini denunciano apertamente il principio di ‘sfruttamento’ – umano, fisico e culturale – sul quale si fonda il profitto stesso delle imprese. È il caso di Multinational. “Se penso al contenuto di un Big Mac – asserisce l’artista – mi viene in mente di denunciarli per strage”.
Ecco allora personaggi politici mutare ridicolmente in icone manga o eroi dei fumetti e dei cartoons. È il caso di Umberto Bossi, trasformato in una sconcertante Hello Kitty! Perché secondo Pep, uno come lui non può che essere il prodotto di una multinazionale: “… un essere umano pensa e comunica, il Bossi-Kitty esegue e si rompe, viene stampato su maglie ed è venduto grazie alla sua confezione con tanto di slogan sul ‘cell'hoddùro’… In sostanza Bossi è la risposta padana ad Hello Kittty, come il Trota è l'anti My Melody…”
La forza comunicativa e mediatica di Pep Marchigiani è testimoniata dai 20.000 visitatori che cliccano ogni giorno sulla sua pagina Facebook. Mentre il suo brand è prodotto in licenza da grandi aziende, e risulta presente in circa 200 boutique di alto livello.
Una forza comunicativa pari a quella che le sue tele hanno in galleria. Perché ora il collezionista non è il più soltanto il colto amatore d’arte, ma è anche - e soprattutto – l’anonimo cittadino che indossa una felpa o una t-shirt.
In questo senso, la produzione e riproduzione di Marchegiani sembra andare ben oltre il concetto di Neo o New Pop. Si potrebbe parlare piuttosto di tendenza New Pep!
Quando il quadro non è che un prodotto, e la vera opera d’arte diventa la t-shirt.
A primavera inoltrata, in un festival di mutevoli cromie, la Galleria Famiglia Margini di Milano ospita le sensazionali e sovversive creazioni di Pep Marchegiani, in una mostra che rovescerà il vostro modo di percepire l’oggetto d’arte.
Sardonici ritratti e irriverenti caricature immortaleranno i grandi inganni della società contemporanea. Troverete magliette appese alle pareti come fossero quadri, e cover per cellulari esposte su piedistalli. Non mancheranno le irriverenti pitto-sculture e i multipli in formato polaroid. L’arte trascenderà l’arte, per diventare oggetto d’uso quotidiano.
E la causticità dell’immagine crescerà in modo esponenziale, proprio grazie all’istantanea riconoscibilità di loghi e soggetti, impastati con lungimiranza dell’artista.
Perché l’opera non è più pezzo unico da museo, ma può diventare oggetto riproducibile.
Oggetto d’arte o oggetto d’uso. Indossabile e godibile.
Nasce una nuova forma di collezionismo di massa.
Il messaggio visivo è immediatamente vendibile a chiunque.
L’arte esce della galleria per entrare nel guardaroba della gente.
Un modo decisamente esclusivo per fornire a compratori provenienti da qualsiasi status sociale, e di qualsiasi livello culturale, una nuova chiave di lettura della realtà.
Perché, per dirla con le parole di Janet Wolff:
“…. l’attività artistica intesa come genere di lavoro unico, con un prodotto anch’esso unico, addirittura trascendentale, è un’idea errata, basata su determinati sviluppi storici, generalizzata erroneamente ed erroneamente considerata essenziale alla natura dell’arte.”
27
aprile 2012
NEW-PEP. Il quadro non è che un prodotto
Dal 27 aprile al 27 maggio 2012
arte contemporanea
Location
ASSOCIAZIONE CULTURALE FAMIGLIA MARGINI
Milano, Via Simone D'orsenigo, 6, (Milano)
Milano, Via Simone D'orsenigo, 6, (Milano)
Vernissage
27 Aprile 2012, ore 18.30
Curatore