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New skin for the next ceremony
C’è da scegliere il titolo della mostra – così capita che ci si lasci guidare dal caso e l’occhio cada su qualcosa di familiare, non dico d’arcano, capace d’aprire uno spiraglio, di sincronizzare cose distanti tra loro. Senza scomodare le coincidenze di junghiana memoria – l’occhio rotola sulla copertina di un album del cantautore canadese Leonard Cohen, New skin for the old ceremony…
Comunicato stampa
Segnala l'evento
C’è da scegliere il titolo della mostra - così capita che ci si lasci guidare dal caso e l’occhio cada
su qualcosa di familiare, non dico d’arcano, capace d’aprire uno spiraglio, di sincronizzare cose distanti
tra loro. Senza scomodare le coincidenze di junghiana memoria - l’occhio rotola sulla copertina di un
album del cantautore canadese Leonard Cohen, New skin for the old ceremony. La sdrucita copertina
reca impressa la rappresentazione di due angeli che paiono accoppiarsi in volo manco fossero diavoli;
immagine pescata da chissà quale testo alchemico, Rosararium philosophorum in effetti. Beh, ad onor
del vero, lì per lì s’era pensato di battezzare la mostra Fantasie alessandrine titolo che ahimè puzzava di
versi liceali alla Franco Battiato. Bando alle ciance allora - questo per dire, venendo al presente, che le
“pelli” qui in ballo altro non sono che una covata di giovani artisti in trasferta dall’Accademia di Belle Arti
di Bologna tenuti a battesimo dallo Studio Vigato. Alessandria per l’appunto. Dopodichè, per quel che
riguarda le future cerimonie, è presto per dirlo, sarà il tempo a decidere… ora come ora occorre puntare
la sveglia, sincronizzare la schiusa.
Col piglio d’antropologa, la sicula Armenia reinterpreta liturgie, frammenti di tradizioni popolari in
via d’estinzione. Giochi senza frontiere che per l’occasione incrociano le braci folk che continuano ad
ardere sotto la cenere di casa nostra con culture himalayane riviste tramite quella sorta di trattato
filosofico in forma cinematografica che è Orizzonte perduto (il film di Frank Capra che vagheggia il
sogno dell’eterna giovinezza incarnato dalla mitica città di Shangri La irenico paese dove non
s’invecchia mai). Ciò nondimeno la fiera, e fallofora, Armenia s’incarica di rovesciare il surplus di
serenità di tale mito per raffigurarlo in forma di panoplia marziale. Ecco allora uno scudo circolare e,
come pendant, una sorta di bastone del comando o corta lancia itifallica che pare suggerire chissà quale
cerimoniale riconducibile ai riti agrari della fertilità. Dopodiché al centro dello scudo, dipinto secondo il
modello delle decorazioni dei carretti siciliani, si staglia un nume tutelare del calibro di San Paolo che nel
suo apostolico peregrinare capitò, si favoleggia, in un paesino della Sicilia, Solarino, dando qui luogo ad
un particolare culto delle acque, terapeutiche inutile dire. Come se non bastasse, munito com’è di
fluente barba, San Paolo (alias San Saulo) somiglia maledettamente ad un Lama tibetano circondato,
vattelapesca, da due verdoni flautati. Insomma, il trionfo del sincretismo.
Al solo parlare di sacri numi e divinità pagane ecco accorrere l’astigiana Valeria Urnel che
diversamente dalla sicula privilegia una chiave di lettura ironica mettendo in fila, secondo una
propensione seriale, una sorta di Legenda aurea rivista in chiave neopop. Versione che aggiorna
l’agiografico codice medioevale scritto dal monaco Jacopo da Varagine, manoscritto che con spirito
enciclopedico compendia le vicende più o meno eroiche, i martirî dei santi. Santi e divinità che la società
contemporanea svilisce al rango di simulacri ragion per cui Valeria, nel prendere coscienza di ciò, ossia
di vivere in tempi dove - come non manca di ricordare Vettor Pisani - il senso del sacro è screditato, ci
dà conto dello stato delle cose declassando a sua volta le divinità dell’Olimpo pagano, i santi della
tradizione cristiana costretti nei panni prosaici di vettori pubblicitari. Chessò Mercurio piè alato,
inaffidabile, referente dei mendaci, è mutato in testimonial delle Poste Italiane mentre l’iberica Santa
Laura di Cordova come un’oca giuliva si gode le profumate fraganze di un centro benessere, lei che
subì il martirio del bagno in una botte colma di pece bollente.
L’ironia è pure una delle frecce nell’arco dell’altra astigiana complice in mostra, FReMO; ironia
rafforzata da lascivi sottintesi suggeriti attraverso la spigliata rivisitazione su tela di uno dei tanti amori
proditori - perché non chiamarli stupri? - di Giove, seduttore seriale: l’ancestrale ratto di Europa. Ecco
allora FReMO inscenare una mitologia da camera giacché un bianco toro dalla possente stazza, pura
razza piemontese, è ammansito, svuotato della numinosa carica erotica; reso mite da una pestifera
lolita, una vezzosa madamigella che anziché cogliere fiori in riva al mare ci si siede sopra. Beata come
un pascià a dorso d’elefante, coglie così l’occasione per fare colazione, per sorbirsi una tazzina di caffè
mentre lui, il bovino, anziché muggire maestoso si limita a masticare purpurei gigli abdicando alle nozze
- smarrito com’è tra le profumate pareti e il pavimento sdrucciolo di un salone rococò, se non di una
reggia.
Ciò che più colpisce in Andrea Massara è la sicurezza del segno che si staglia nitido sopra
superfici che dal punto di vista compositivo concedono ampio margine al fondo bianco della carta. Sono
figure filiformi vergate secondo modalità viennesi fin-de-siècle e, una cosa non esclude l’altra, tenendo a
mente andamenti lineari riconducibili alle antiche xilografie giapponesi. L’immaginario perverso dai
contenuti non di rado fastidiosi, psicologicamente parlando, la masochistica ossessione erotica che
contraddistingue i corpi martoriati sulla pagina da Massara, è appunto mitigato dall’impianto
graficamente elegante, raffinato, snob persino, che si concede esercizi di stile che contemplano, tra i
vari estri, riccioli da cherubini stilizzati su pubi di corpi efebici; corpi seviziati con eleganza sulla falsariga
di Beardsley o dell’ancor più pruriginoso Franz von Bayros o, per venire ai giorni nostri, del Posthuman
nella versione sensazionale e crudele genere fratelli Chapman.
Nei cieli postatomici, nei vividi sogni acrilici di Ignazio Mazzeo, galleggianti nel bel mezzo di liquidi
eterei dalle tinte sparate come liquori chimici o, di contro, galleggianti in lattee campiture simili ad astrusi
stemmi araldici, vagano capsule assimilabili a chissà quale genia extraterrestre. Astronavi che si
stagliano sulla tela inverosimili - l’uomo non compare mai - a metà strada tra la robotica e l’insetto
mostruoso. D’altra parte le ibridazioni tra l’organico e il tecnologico si confermano uno dei temi cari a
Mazzeo che non a caso ha dedicato un’intera mostra a Locus Solus il bizzarro, ancorché per certi versi
razionale, libro dell’altrettanto bizzarro Raymond Roussel. Blasoni siderali; giganteschi elmi volanti degni
di guerre stellari; misteriose trottole spaziali; stazioni orbitanti dalle plastiche architetture a mo’ di testa
d’aglio; cupole dalle protesi simili a code di scorpioni dispiegabili come filiformi zampe d’artropodi o,
ancora, come enigmatici compassi; ecco il delirante repertorio che impronta le cosmogonie,
l’immaginario bionico dell’argonauta Mazzeo da Trapani.
Storie di Sileno (la scoperta del miele), il brulicante dipinto neopagano del fiorentino Piero di
Cosimo, vira in Storie di Xilene nell’interpretazione audioslave apparecchiata per l’occasione da
Pierantonio Gallini autore di disegni a getto continuo: basta gettare una monetina ed ecco subito un
disegno come si conviene a tutti gli eredi più o meno bravi di Keith Haring. Nella fattispecie si tratta
dell’interpretazione in chiave postindustriale di una delle tante scene paniche effigiate
dall’antirinascimentale Piero di Cosimo; in Gallini s’apprezza un favo penzolare per aria assalito da buffi
satiri dalla testa a mo’ di beccuccio spray (da qui lo xilene del titolo un derivato del benzene componente
abituale delle vernici, non solo spray) arrampicati chi su saponose nuvole, chi sul tronco bitorzoluto
d’una azzurra quercia. Eccoli armeggiare tra i rami con degli auricolari - per trastullarsi infine, si
sospetta, con Ipod saturi di musiche dionisiache. Il ronzante pacchetto di mischia, impaginato sulla
trama parzialmente intonsa di un pannello MDF, rivela le fisime di un linguaggio perennemente in bilico
tra il fumetto - ma anche il cartoon giacché i satiri qui raffigurati richiamano quelli della Pastorale di
Beethoven nel celeberrimo film Fantasia di Walt Disney - e modalità grafiche, segni di spessore
variabile, d’ascendenza artistica che mirano alla sintesi icastica, all’assoluto, ad esiti prossimi ai segnali
stradali, se non al logo, come nel caso dell’inglese Julian Opie.
L’approccio alle cose di Federica del Piano - perché, si badi, di cose è fatto il suo mondo kawaii, e
sono le cose d’un affezionato vivere - celebra briose, fanciullesche stardust memories. In sintonia con
l’attuale trend neopop che governa le rotte dell’arte, i teneri eroi in peluche pizzicati da Federica dalle
affollate mensole della sua cameretta otaku subiscono uno straniamento, un’adeguata dose
d’ingrandimento. Certo, ci si trova d’innanzi a variazioni sul tema collaudato del ready-made, un readymade
ludico ancorché mediato attraverso la lezione dei maestri pop (con relativa attenzione al mondo
delle merci). Quello di Federica è un baloccarsi - per certi versi fa pensare a Jeff Koons - enfatizzato su
tela all’insegna d’una stesura del colore all’à plat consapevole degli aggiornamenti apportati a tale china
dalle teorie superflat di un altro campione neopop dei giorni nostri come il giapponese Takashi
Murakami. Koons e Murakami ecco due scintillanti figure di cui Federica sembra apprezzare l’aplomb
tecnico, ancorché esaltante cromaticamente parlando, oltre che le tematiche (da ultimo entrambi
protagonisti di discusse esposizioni nelle aristocratiche sale di Versailles; sì, proprio loro che a partire
dal banale quotidiano si dimostrano capaci di trasformarlo in un lussuoso campionario scenico: così
celebrati, resi ipertrofici, persino i ninnoli, i pupazzi più carezzevoli finiscono per emanare un’aura, per
ergersi dalla dimensione del quotidiano, più o meno svenevole, ad icone regali).
Bruno Benuzzi
su qualcosa di familiare, non dico d’arcano, capace d’aprire uno spiraglio, di sincronizzare cose distanti
tra loro. Senza scomodare le coincidenze di junghiana memoria - l’occhio rotola sulla copertina di un
album del cantautore canadese Leonard Cohen, New skin for the old ceremony. La sdrucita copertina
reca impressa la rappresentazione di due angeli che paiono accoppiarsi in volo manco fossero diavoli;
immagine pescata da chissà quale testo alchemico, Rosararium philosophorum in effetti. Beh, ad onor
del vero, lì per lì s’era pensato di battezzare la mostra Fantasie alessandrine titolo che ahimè puzzava di
versi liceali alla Franco Battiato. Bando alle ciance allora - questo per dire, venendo al presente, che le
“pelli” qui in ballo altro non sono che una covata di giovani artisti in trasferta dall’Accademia di Belle Arti
di Bologna tenuti a battesimo dallo Studio Vigato. Alessandria per l’appunto. Dopodichè, per quel che
riguarda le future cerimonie, è presto per dirlo, sarà il tempo a decidere… ora come ora occorre puntare
la sveglia, sincronizzare la schiusa.
Col piglio d’antropologa, la sicula Armenia reinterpreta liturgie, frammenti di tradizioni popolari in
via d’estinzione. Giochi senza frontiere che per l’occasione incrociano le braci folk che continuano ad
ardere sotto la cenere di casa nostra con culture himalayane riviste tramite quella sorta di trattato
filosofico in forma cinematografica che è Orizzonte perduto (il film di Frank Capra che vagheggia il
sogno dell’eterna giovinezza incarnato dalla mitica città di Shangri La irenico paese dove non
s’invecchia mai). Ciò nondimeno la fiera, e fallofora, Armenia s’incarica di rovesciare il surplus di
serenità di tale mito per raffigurarlo in forma di panoplia marziale. Ecco allora uno scudo circolare e,
come pendant, una sorta di bastone del comando o corta lancia itifallica che pare suggerire chissà quale
cerimoniale riconducibile ai riti agrari della fertilità. Dopodiché al centro dello scudo, dipinto secondo il
modello delle decorazioni dei carretti siciliani, si staglia un nume tutelare del calibro di San Paolo che nel
suo apostolico peregrinare capitò, si favoleggia, in un paesino della Sicilia, Solarino, dando qui luogo ad
un particolare culto delle acque, terapeutiche inutile dire. Come se non bastasse, munito com’è di
fluente barba, San Paolo (alias San Saulo) somiglia maledettamente ad un Lama tibetano circondato,
vattelapesca, da due verdoni flautati. Insomma, il trionfo del sincretismo.
Al solo parlare di sacri numi e divinità pagane ecco accorrere l’astigiana Valeria Urnel che
diversamente dalla sicula privilegia una chiave di lettura ironica mettendo in fila, secondo una
propensione seriale, una sorta di Legenda aurea rivista in chiave neopop. Versione che aggiorna
l’agiografico codice medioevale scritto dal monaco Jacopo da Varagine, manoscritto che con spirito
enciclopedico compendia le vicende più o meno eroiche, i martirî dei santi. Santi e divinità che la società
contemporanea svilisce al rango di simulacri ragion per cui Valeria, nel prendere coscienza di ciò, ossia
di vivere in tempi dove - come non manca di ricordare Vettor Pisani - il senso del sacro è screditato, ci
dà conto dello stato delle cose declassando a sua volta le divinità dell’Olimpo pagano, i santi della
tradizione cristiana costretti nei panni prosaici di vettori pubblicitari. Chessò Mercurio piè alato,
inaffidabile, referente dei mendaci, è mutato in testimonial delle Poste Italiane mentre l’iberica Santa
Laura di Cordova come un’oca giuliva si gode le profumate fraganze di un centro benessere, lei che
subì il martirio del bagno in una botte colma di pece bollente.
L’ironia è pure una delle frecce nell’arco dell’altra astigiana complice in mostra, FReMO; ironia
rafforzata da lascivi sottintesi suggeriti attraverso la spigliata rivisitazione su tela di uno dei tanti amori
proditori - perché non chiamarli stupri? - di Giove, seduttore seriale: l’ancestrale ratto di Europa. Ecco
allora FReMO inscenare una mitologia da camera giacché un bianco toro dalla possente stazza, pura
razza piemontese, è ammansito, svuotato della numinosa carica erotica; reso mite da una pestifera
lolita, una vezzosa madamigella che anziché cogliere fiori in riva al mare ci si siede sopra. Beata come
un pascià a dorso d’elefante, coglie così l’occasione per fare colazione, per sorbirsi una tazzina di caffè
mentre lui, il bovino, anziché muggire maestoso si limita a masticare purpurei gigli abdicando alle nozze
- smarrito com’è tra le profumate pareti e il pavimento sdrucciolo di un salone rococò, se non di una
reggia.
Ciò che più colpisce in Andrea Massara è la sicurezza del segno che si staglia nitido sopra
superfici che dal punto di vista compositivo concedono ampio margine al fondo bianco della carta. Sono
figure filiformi vergate secondo modalità viennesi fin-de-siècle e, una cosa non esclude l’altra, tenendo a
mente andamenti lineari riconducibili alle antiche xilografie giapponesi. L’immaginario perverso dai
contenuti non di rado fastidiosi, psicologicamente parlando, la masochistica ossessione erotica che
contraddistingue i corpi martoriati sulla pagina da Massara, è appunto mitigato dall’impianto
graficamente elegante, raffinato, snob persino, che si concede esercizi di stile che contemplano, tra i
vari estri, riccioli da cherubini stilizzati su pubi di corpi efebici; corpi seviziati con eleganza sulla falsariga
di Beardsley o dell’ancor più pruriginoso Franz von Bayros o, per venire ai giorni nostri, del Posthuman
nella versione sensazionale e crudele genere fratelli Chapman.
Nei cieli postatomici, nei vividi sogni acrilici di Ignazio Mazzeo, galleggianti nel bel mezzo di liquidi
eterei dalle tinte sparate come liquori chimici o, di contro, galleggianti in lattee campiture simili ad astrusi
stemmi araldici, vagano capsule assimilabili a chissà quale genia extraterrestre. Astronavi che si
stagliano sulla tela inverosimili - l’uomo non compare mai - a metà strada tra la robotica e l’insetto
mostruoso. D’altra parte le ibridazioni tra l’organico e il tecnologico si confermano uno dei temi cari a
Mazzeo che non a caso ha dedicato un’intera mostra a Locus Solus il bizzarro, ancorché per certi versi
razionale, libro dell’altrettanto bizzarro Raymond Roussel. Blasoni siderali; giganteschi elmi volanti degni
di guerre stellari; misteriose trottole spaziali; stazioni orbitanti dalle plastiche architetture a mo’ di testa
d’aglio; cupole dalle protesi simili a code di scorpioni dispiegabili come filiformi zampe d’artropodi o,
ancora, come enigmatici compassi; ecco il delirante repertorio che impronta le cosmogonie,
l’immaginario bionico dell’argonauta Mazzeo da Trapani.
Storie di Sileno (la scoperta del miele), il brulicante dipinto neopagano del fiorentino Piero di
Cosimo, vira in Storie di Xilene nell’interpretazione audioslave apparecchiata per l’occasione da
Pierantonio Gallini autore di disegni a getto continuo: basta gettare una monetina ed ecco subito un
disegno come si conviene a tutti gli eredi più o meno bravi di Keith Haring. Nella fattispecie si tratta
dell’interpretazione in chiave postindustriale di una delle tante scene paniche effigiate
dall’antirinascimentale Piero di Cosimo; in Gallini s’apprezza un favo penzolare per aria assalito da buffi
satiri dalla testa a mo’ di beccuccio spray (da qui lo xilene del titolo un derivato del benzene componente
abituale delle vernici, non solo spray) arrampicati chi su saponose nuvole, chi sul tronco bitorzoluto
d’una azzurra quercia. Eccoli armeggiare tra i rami con degli auricolari - per trastullarsi infine, si
sospetta, con Ipod saturi di musiche dionisiache. Il ronzante pacchetto di mischia, impaginato sulla
trama parzialmente intonsa di un pannello MDF, rivela le fisime di un linguaggio perennemente in bilico
tra il fumetto - ma anche il cartoon giacché i satiri qui raffigurati richiamano quelli della Pastorale di
Beethoven nel celeberrimo film Fantasia di Walt Disney - e modalità grafiche, segni di spessore
variabile, d’ascendenza artistica che mirano alla sintesi icastica, all’assoluto, ad esiti prossimi ai segnali
stradali, se non al logo, come nel caso dell’inglese Julian Opie.
L’approccio alle cose di Federica del Piano - perché, si badi, di cose è fatto il suo mondo kawaii, e
sono le cose d’un affezionato vivere - celebra briose, fanciullesche stardust memories. In sintonia con
l’attuale trend neopop che governa le rotte dell’arte, i teneri eroi in peluche pizzicati da Federica dalle
affollate mensole della sua cameretta otaku subiscono uno straniamento, un’adeguata dose
d’ingrandimento. Certo, ci si trova d’innanzi a variazioni sul tema collaudato del ready-made, un readymade
ludico ancorché mediato attraverso la lezione dei maestri pop (con relativa attenzione al mondo
delle merci). Quello di Federica è un baloccarsi - per certi versi fa pensare a Jeff Koons - enfatizzato su
tela all’insegna d’una stesura del colore all’à plat consapevole degli aggiornamenti apportati a tale china
dalle teorie superflat di un altro campione neopop dei giorni nostri come il giapponese Takashi
Murakami. Koons e Murakami ecco due scintillanti figure di cui Federica sembra apprezzare l’aplomb
tecnico, ancorché esaltante cromaticamente parlando, oltre che le tematiche (da ultimo entrambi
protagonisti di discusse esposizioni nelle aristocratiche sale di Versailles; sì, proprio loro che a partire
dal banale quotidiano si dimostrano capaci di trasformarlo in un lussuoso campionario scenico: così
celebrati, resi ipertrofici, persino i ninnoli, i pupazzi più carezzevoli finiscono per emanare un’aura, per
ergersi dalla dimensione del quotidiano, più o meno svenevole, ad icone regali).
Bruno Benuzzi
28
maggio 2011
New skin for the next ceremony
Dal 28 maggio al 22 luglio 2011
arte contemporanea
Location
STUDIO VIGATO
Alessandria, Via Gerolamo Ghilini, 30, (Alessandria)
Alessandria, Via Gerolamo Ghilini, 30, (Alessandria)
Orario di apertura
Lun – Ven 10 – 12 / 15.00 – 19.00
Sab 11 - 20
Domenica su appuntamento
Vernissage
28 Maggio 2011, ore 18.00
Autore
Curatore